Condividiamo l’intervento di Marco Ruotolo comparso ieri, 27 agosto 2023, su La Stampa, sotto il titolo “Con il premierato e i sistemi presidenziali a rischio gli equilibri della Costituzione”. Marco Ruotolo è Professore ordinario di Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” e ci ha concesso l’autorizzazione alla pubblicazione e diffusione delle sue riflessioni.
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Nella discussione sulle possibili modifiche della forma di governo ci si è richiamati, nel tempo, a diversi modelli: dal presidenzialismo degli Stati Uniti (con un Presidente della Repubblica diretta espressione della volontà popolare) al semi-presidenzialismo francese (che combina l’elezione diretta del Presidente della Repubblica alla previsione della responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento) sino al premierato anglosassone (che vede come Primo Ministro il leader del partito che detiene la maggioranza dei seggi alla Camera). Senza dimenticare la fallita, poco duratura e insoddisfacente, formula israeliana dell’elezione diretta del Premier (contestuale a quella del Parlamento) e la peculiare razionalizzazione tedesca del sistema parlamentare, con l’elezione del Cancelliere da parte della Camera bassa. Si tratta di forme di governo molto diverse tra loro, il cui funzionamento è significativamente condizionato dalla struttura sociale, nonché dal sistema politico e partitico in cui si trovano ad operare.
Sono modelli facilmente esportabili nel nostro Paese? I dubbi manifestati da molti interessano, anzitutto, l’alterazione, che ne conseguirebbe, degli equilibri disegnati nella nostra Costituzione, a partire dal mutamento del ruolo del Presidente della Repubblica.
C’è anche, a me pare, un’altra questione che sembra attraversare le tante proposte di riforma della forma di governo degli ultimi trenta anni, così come le più recenti scelte sui sistemi elettorali. Si fa sempre più strada l’idea che la democrazia si identifichi soltanto con il voto e che la legittimazione da esso discendente abiliti a fare tutto. È come se la sovranità non appartenesse propriamente al popolo (come invece è scritto nel primo articolo della nostra Costituzione), ma da questo semplicemente emanasse, potendo essere delegata con il voto al vincitore della competizione elettorale. È questa la democrazia costituzionale? A leggere la nostra Costituzione, di là dalla previsione del rapporto di fiducia che deve legare il Governo al Parlamento (art. 94), sembrerebbe di no.
Con queste affermazioni non voglio certo negare che lo Stato democratico possa realizzarsi attraverso diverse forme di governo. L’opzione presidenziale, così come le altre prima indicate, non sono ovviamente in sé incompatibili con il principio democratico.
Vorrei soltanto invitare a riflettere sulla centralità dell’opzione per la forma di governo parlamentare nella trama complessiva della nostra Costituzione e quindi anche sulle implicazioni di un suo superamento. In questo discorso non è secondaria la scelta per la legge elettorale che, non essendo indicata in Costituzione, è rimessa alle decisioni delle maggioranze pro tempore. È proprio il mix che ne potrebbe scaturire a preoccupare, rendendo attuale il monito espresso in una nota voce enciclopedica del 1970 da Leopoldo Elia, specificamente riferito ai rischi dell’adozione di un sistema presidenziale in un contesto politico assai diverso da quello statunitense: il tentativo di approdare alle coste dell’America del nord potrebbe fallire e ci si potrebbe ritrovare invece in un porto sudamericano!
La democrazia non è dominio della maggioranza, che anzi incontra limiti proprio per indurre a scelte il più possibile condivise. Mediare per decidere, non decidere senza aver bisogno di mediare, come mi sembra volere, al fondo, chi invoca il superamento della nostra forma di governo parlamentare. Il problema sarebbe l’inefficienza del sistema, la soluzione il rafforzamento dei poteri del Governo. Non è già così? Il Governo con la decretazione d’urgenza e con l’esercizio delle deleghe legislative ha il dominio dei processi di produzione normativa, che può peraltro agevolmente guidare in altre e più idonee forme quando dispone di una solida maggioranza in Parlamento. Piuttosto è quest’ultimo organo ad essere svilito nel suo ruolo e a dover essere potenziato, anche con modifiche dei regolamenti parlamentari che rendano possibile una rapida approvazione delle leggi quando lo richieda l’esigenza di prontezza della decisione.
Ma il Parlamento deve rimanere il luogo del pluralismo, del confronto, del dibattito anche aspro. Se ne vorrebbe, invece, sempre più snaturare il ruolo con formule elettorali che assicurino il dominio della maggioranza, dimenticando che la funzione rappresentativa presuppone che la conflittualità sociale e politica trovi espressione nella massima istituzione elettiva. La rappresentanza o è plurale o non è vera rappresentanza. Anche qui la critica è sempre la stessa: così ragionando non si permette di decidere, perché la frammentazione partitica lo impedisce. Ma la risposta è nella nostra storia, spesso dimenticata. Negli anni Settanta, furono approvate leggi fondamentali: dallo Statuto dei lavoratori all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, dallo scioglimento del matrimonio all’interruzione della gravidanza, dalla legge sul referendum all’ordinamento penitenziario (e moltissime altre). Eravamo in pieno sistema proporzionale e tutto ciò è stato possibile, quale esito di mediazioni politiche che ovviamente hanno avuto protagonista, ma non assoluto, il partito di maggioranza relativa.
Se da tempo non si riesce in imprese simili non sarà anche un problema di qualità della classe politica?