Voglio cominciare col dire che il mio discorso, pur critico dell’Unione Europea, non è affatto anti-europeo e credo di parlare per tantissime persone che sono qui che hanno amato l’Europa e quello che ha portato all’Italia. Dobbiamo sempre ricordare che la costruzione straordinaria dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, basata sulla pace e cooperazione, è piuttosto unica nella storia di questi ultimi secoli, una costruzione che va da Limerick a Nicosia, una straordinaria cooperazione economica e non solo. Meno di dieci anni fa, Jeremy Rifkin, un americano sociologo, scriveva un libro “Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”; meno di dieci anni fa c’era l’idea che l’Europa avesse un modello superiore di quello americano, ma anche di altri modelli di democrazia.
Il nostro problema, e parlo qui come storico e non come economista, è che in questi dieci anni qualcosa è andato molto storto. Si può analizzare cosa è andato storto in due parti: una è quella socio-economico e l’altra è politica. Per iniziare, a livello socio-economico, in questi anni noi notiamo (ed è una tragedia), lo stacco tra la linea di marcia dell’Europa e l’equità sociale; in qualche modo il legame fra l’equità sociale, l’opportunità per le famiglie e le persone e le strategie dell’Unione Europea, si sono separate e divise. Bisogna dire che non il welfare-state non è sempre stato una priorità assoluta dell’Unione Europea, ma era una parte di un progetto complessivo, era parte del mercato sociale dei tedeschi, era parte dei piani di Jacques Delors e possiamo anche riscontrare alla fine degli anni ’80 e negli anni ’90 delle cose fondamentali: nel 1989 la Carta Europea per i diritti dei lavoratori, il trattato di Maastricht del 1992 (anche quello aveva una forte parte sociale). Dopo quella stagione anche felice, parziale sempre ma felice, qualcosa è cambiato: in particolare dal 2000 nella riflessione strategica, economica e sociale dell’Unione Europea è diventato dominante il neo-liberismo, una visione del mondo basata sul “self-help”, che nasceva negli anni ’80 dalla voce di Margaret Tahtcher e di Ronald Reagan. La signora Tahtcher parlava dello “Nanny State” (lo Stato balia), diceva “noi non abbiamo bisogno di uno Stato di quel tipo”, lei era una “self made woman” profondamente convinta che le o famiglie sopravvivevano da sole o dovevano essere lasciate a loro stesse. Niente Stato sociale, ma anzi sempre più insistentemente la necessità di tagliare, di restringere; questa versione di strategia sociale dell’Unione Europea esplode quando arriviamo alla grande crisi del 2008. Questa crisi è la più grande e durevole crisi dal 1870 in poi e molto più longeva della Grande Depressione del 1929, siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma: austerità, tagli, la necessità di rimpiazzare grandi parti dello Stato sociale con elementi privati e privatizzanti. I danni sono alla cultura, all’istruzione, all’università, ho insegnato 22 anni nelle università italiane e la nostra condizione e il livello di depressione di tutti quelli che vi lavorano è una cosa che veramente fa impressione.
Vorrei anche parlare della crescita drammatica delle disuguaglianze sociali, noi siamo di fronte ad un Paese sempre più disuguale e le democrazie hanno grande difficoltà a sopravvivere se il livello di disuguaglianza sociale continua a crescere. Si può paragonare questa situazione a diversi tipi di pere: nel 1980 la struttura sociale dell’Italia assomigliava a una pera williams, la stragrande maggioranza della popolazione era dentro a quella polpa, adesso dopo questi anni di crisi abbiamo una pera abate, sempre più striminzita e abbiamo anche una pera con il picciolo che va su e poi sparisce perché in questa crisi certa gente si è arricchita in modo indecente e altri sono diventati sempre più poveri. Questa cosa non riguarda solo il reddito, ma anche la generazione, perché la mobilità ascendente è stata la base della democrazia italiana della nostra Repubblica, cioè che ogni generazione poteva sperare di migliorare il posto nella società che era di suo padre, contadino, impiegato, laureato, professionista; c’era questo credo nella Repubblica, adesso siamo di fronte a una mobilità discendente, drammatica, dove i nostri figli non possono sperare di migliorare la condizione dei loro genitori. Questo non è, come vogliono farci credere, un atto di Dio, senza alternativa, queste sono le conseguenze di un’ideologia specifica e noi dobbiamo trovare la forza per contrastarla e trovare le alternative perché senza le alternative siamo impotenti.
Parlando del livello politico, già in partenza l’Unione Europea era storta, non c’era un corpus come Maastricht, come la Carta Europea per i diritti dei lavoratori, la democrazia europea è sempre stata costruita sulla sabbia e bisognava in qualche modo rimediare. L’Europa democratica è cresciuta troppo lentamente, ancora oggi tutto il potere sostanziale risiede nel Consiglio dei Ministri, è durissimo rompere quel modello. Il Parlamento europeo rimane molto debole, se andiamo ai convegni e ai congressi sull’Europa e sulla democrazia, dicono sempre la stessa cosa: bisogna ascoltare i cittadini, consultarli, farli partecipare e quello che viene fuori da tutta quella montagna di parole è un piccolo topolino di qualche piccola consultazione, partecipazione o legge popolare.
La democrazia europea è monca e allora non c’è altro modo che cominciare dal basso come fa Libertà e Giustizia e dall’alto come vorremmo che facessero i nostri parlamentari europei e tutti i nostri rappresentanti, e allo stesso momento bisogna lottare e contrastare tutti i tagli e far vedere a tutti quanto l’Italia è disuguale socialmente e quanto non è democratica. Noi dobbiamo partire da qui per riformare l’Europa.