Nel nuovo Senato dopo la riforma stravince il Pd

13 Ottobre 2015

Un monocolore del Pd. Con una maggioranza solida, autonoma, schiacciante. Se entrasse in vigore oggi, il nuovo Senato di presenterebbe così. Con 55 senatori del partito di Renzi, a cui se ne aggiungerebbero altri cinque dei partiti autonomisti (tre del Trentino Alto Adige e due della Valle D’Aosta), già schierati coi dem sul territorio. E magari pure i cinque nominati dal Presidente della Repubblica: in totale fanno 65 senatori. E il centrodestra, che oggi guida Liguria, Lombardia e Veneto? Totalmente ininfluente (29 seggi) e dominato dalla Lega (14 senatori). I Cinque Stelle? Quasi azzerati, con solo sei esponenti in quello che sarà il nuovo assetto di Palazzo Madama. A meno che i grillini non decidano di scendere a compromessi con gli altri partiti (poi vedremo il perché).

 MINORANZE A SECCO

Sulla base della composizione politica degli attuali consigli regionali, abbiamo provato ad effettuare una simulazione, tenuto conto del numero di senatori che spettano a ciascuna regione: 95 in totale, di cui 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, uno per regione (le province autonome di Trento e Bolzano ne hanno uno a testa). L’articolo 2 del ddl costituzionale dice che «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori». Questo vuol dire che nell’assegnazione dei senatori-consiglieri bisognerà rispettare la proporzionalità tra gli schieramenti in consiglio, mentre il sindaco-senatore «andrà sempre alla maggioranza», conferma il costituzionalista Stefano Ceccanti. Dunque nelle dieci regioni che eleggeranno due soli senatori, saranno entrambi esponenti della maggioranza. Con tanti saluti alla tutela della minoranze. Prendiamo la Liguria, per esempio. Le spettano due senatori: quello espressione del consiglio sarà probabilmente il governatore Giovanni Toti, ma chi si aspetta un posto per il primo cittadino del capoluogo Genova resterà deluso. Marco Doria non andrà in Senato. La legge consente alla maggioranza di sceglierseli entrambi: uno andrà a FI, uno alla Lega.

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TRATTATIVE E INCIUCI

Torniamo alla simulazione. Per assegnare i vari consiglieri-senatori abbiamo tenuto conto della composizione degli attuali schieramenti. Ma molto dipenderà da come si comporteranno le opposizioni, da quali trattative riusciranno a intavolare. Perché anche alleanze «contro natura» potrebbero dare i loro frutti. Facciamo un esempio: al Veneto spettano 7 seggi, un sindaco e 6 consiglieri. Abbiamo suddiviso l’assemblea veneta in tre schieramenti: maggioranza (Forza Italia e Lega) e tre opposizioni (Pd, Cinque Stelle e centristi-tosiani). Esattamente come si sono presentati alle elezioni nella scorsa primavera. Con questo assetto (applicando il metodo D’Hondt per l’assegnazione dei seggi), ai sostenitori di Zaia andrebbero 4 senatori (oltre al sindaco) e gli altri due al Pd. Tosiani e grillini a secco. Se invece le opposizioni facessero cartello e puntassero tutti sulla stessa lista di candidati, riuscirebbero ad eleggerne tre, togliendone uno alla maggioranza. A chi andrebbe? Dipenderà tutto dalla trattativa e dagli accordi che, inevitabilmente, si incroceranno con quelli in altre regioni.

CITTADINI SENZA VOCE

E dunque, alla fine, non saranno gli elettori a scegliere i senatori, ma sarà tutto un gioco tra i partiti? La risposta è sì, perché i cittadini avranno probabilmente potere di «influenzare» i consigli sui nomi (il modo lo capiremo solo dopo l’approvazione della legge che ne regolerà il meccanismo), ma la spartizione sarà una conseguenza degli accordi tra i partiti. Come da sempre accade in politica.

La Stampa, 11 ottobre 2015

 

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