Giustizia e Mezzogiorno

29 Maggio 2021

“Giustizia terrona, giustizia cialtrona”: questo il testo del “graffito”col quale, nei primi anni ’90, ignoti (presumibilmente, leghisti della prima ora) imbrattarono la facciata dello storico palazzo Martinengo delle Palle, allora sede della Corte d’Appello di Brescia, in via San Martino della battaglia, per sintetizzare icasticamente la loro visione dei problemi della giustizia.

Non sono state certamente ispirate da un siffatto modo di sentire  le due ministre della Giustizia Cartabia, e per il Sud Carfagna, nella loro recente e discussa iniziativa di dar vita ad una commissione interministeriale di studio “per la giustizia nel Sud, avente il compito di analizzare ed elaborare proposte di interventi in materia di giustizia nell’area del meridione d’Italia”. Ma che nel clima politico in cui è sorta l’iniziativa aleggi una certa diffidenza per la giustizia meridionale, insieme a qualche pregiudizio, e alla preferenza per soluzioni di tipo “aziendalistico”, a cui il Sud sarebbe per natura restio, è cosa che affiora da più di un elemento.

Non è un caso che sia stato proprio l’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia, a sostenere, nella sua relazione del 31 maggio 2007, dopo aver segnalato le manchevolezze della nostra giustizia civile che risaltano  dai confronti internazionali, che “emerge anche in questo campo uno specifico problema meridionale: la durata media di un processo civile ordinario di primo grado si triplica passando dal distretto di Torino a quello di Messina, da 500 a 1.500 giorni” (p. 11-12 del testo ufficiale)[i]. Anche lo studio condotto da un gruppo di esperti  dell’”Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia” (istituito dal Ministro delle Giustizia Orlando e presieduto dall’ex ministra Paola Severino) nel 2015, ed intitolato “Misurare la performance dei tribunali”[ii], finisce con l’affermare, riguardo al quesito se esista una “questione meridionale” nella performance dei tribunali: “Abbastanza vero, ma lo studio delle eccezioni dimostra che la leadership può determinare risultati di eccellenza anche al sud”. Lo studio viene riportato in sintesi anche all’interno dell’”Aggiornamento del censimento speciale della giustizia civile” dell’allora Capo Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Ministero, Mario Barbuto, in data 11 agosto 2015[iii], in cui si segnala che il “pregevole documento” è stato “elaborato da tre analisti di grande esperienza internazionale: Ing. Roger Abravanel, Ing. Stefano Proverbio, Dott. Fabio Bartolomeo”, i primi due dei quali vengono indicati ciascuno come Doctor emeritus di McKinsey, cioè proprio quella società di consulenze (toh, chi si rivede) il cui incarico da parte del Ministero dell’Economia e Finanze per lavorare alla stesura del PNRR ha suscitato qualche polemica nel marzo scorso[iv]. Il sospetto verso i giudici meridionali viene alimentato anche da un occasional paper della Banca d’Italia[v] che a pag. 25 mostra un grafico da cui emergerebbe una maggiore produttività dei tribunali del Centro-Nord rispetto a quelli del Mezzogiorno, peraltro in palese contrasto coi dati statistici analizzati da chi scrive[vi].

Infatti, la realtà è un’altra. E’ vero che nel Sud la giustizia è più lenta che al Nord. Ma nel Sud le piante organiche risultano gravemente inadeguate al carico di lavoro. Limitando lo sguardo al settore civile, si è potuto constatare che, nel 2016, ogni giudice civile si vedeva assegnare, in media, nuove cause nella misura di 338,53 al Nord, 396,98 al Centro e 400,74 al Sud (isole comprese). Inoltre, nello stesso anno, ogni giudice civile definiva (cioè portava a termine) 356,33 cause al Nord, 427,33 al Centro, e 444,71 al Sud. Ma non basta, perché al Sud si concilia di meno, e le cause che terminano con una sentenza  (e quindi, con un maggiore impegno per il giudice) sono il 50,24% di quelle definite, mentre al Nord sono il 40,41%, e al Centro il 45,99% (il resto termina generalmente con una conciliazione, giudiziale o stragiudiziale). Quindi, sempre nel 2016, le sentenze emesse da un giudice civile che lavora al Sud sono 223,41, contro le 139,08 di un suo collega del Nord e le 196,55 di uno del Centro. In pratica, lavora quasi il doppio di un suo collega del Nord, e si vede anche additato come “scarsamente produttivo”. Paragonando il Tribunale dove la giustizia civile nel 2016 risultava più rapida (Aosta, con una durata media di giorni 342 per causa, meno di un anno) con quello dove essa risultava più lenta (Lamezia Terme, con 2094 giorni), si nota che  un giudice civile di Aosta aveva definito in quell’anno 350,50,cause, di cui 132,75 con sentenza; mentre il suo collega di Lamezia ne aveva definite 530,86, di cui 369,71 con sentenza (quasi il triplo!!!).

Ma la visione che ispira l’apparentemente innocuo decreto interministeriale sulla giustizia nel Sud prende le mosse da molto lontano, e sta facendo venire al pettine molti nodi. L’idea che ai ritardi della giustizia nel Sud si debba provvedere con la “individuazione di best practices formatesi in uffici giudiziari di altri territori ed alla verifica della loro possibile funzionalità nei distretti giudiziari del Mezzogiorno” (che ha sollevato l’indignazione nei magistrati meridionali, in ciò, per una volta, affiancati da avvocati e politici del Sud) è la risultante di una duplice narrazione durata circa un ventennio: quella neo-liberista, che,  applicando alla giustizia i propri dogmi,  ha sostenuto una visione aziendalista della giustizia stessa, le cui disfunzioni sarebbero da imputare non alla mancanza di risorse, ed in particolare di personale giudiziario, ma solo alla mancanza di organizzazione e di leadership (carenti, chissà poi perché, solo al Sud); e quella che ha ravvisato nell’esperienza del Presidente del Tribunale (e poi della Corte d’Appello) di Torino, Mario Barbuto (chiamato, alla fine della carriera, a dirigere il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria dal Governo Renzi[vii]), una riprova sul terreno pratico della teoria anzidetta, in quanto le capacità organizzative di quel dirigente avrebbero miracolosamente trasformato la performance degli uffici da lui diretti (in particolare del Tribunale), cosicché, per risolvere i problemi della giustizia laddove funziona peggio, non vi sarebbe che da esportare quelle ricette.

Entrambe le narrazioni si basano su una non corretta considerazione dei dati (se non su una loro manipolazione). La tesi della irrilevanza delle risorse destinate al servizio ai fini del suo miglior funzionamento (ispirata dal rigorismo monetarista, ostile alla spesa pubblica) non tiene in considerazione il carico di lavoro pro-capite (cioè il numero di cause assegnate a ciascun giudice, e definite dal medesimo), ma indaga su aspetti di scarso rilievo, se non fuorvianti, come il numero di giudici per abitante di ciascuna entità territoriale considerata (o, nei confronti internazionali, la frazione di PIL per abitante destinata alla giustizia), oppure la correlazione tra scopertura di organico e performance (fingendo di ignorare che non è tanto la copertura percentuale dell’organico di un ufficio che determina l’adeguatezza delle risorse destinate, quanto, a monte, la congruità della pianta organica stessa). Classificando i tribunali italiani in una tabella statistica, sempre relativa al 2016, per quartili crescenti di durata media dei procedimenti, si nota come nel quartile dove la durata è inferiore (538 giorni in media), le iscrizioni a ruolo (sopravvenienze) sono 337,13 per ciascun giudice civile, e le sentenze da lui emesse 136,07; nel quartile dove la durata è maggiore (1450 giorni) le cause assegnate a ciascun giudice sono in media 403,00 e le sentenze emesse 236,55[viii]. Non è quindi la scarsa produttività che fa crescere la durata dei procedimenti.

L’esperienza di Mario Barbuto, sicuramente interessante e degna di nota, è stata enfatizzata oltre ogni limite[ix]. Lo sforzo teso a privilegiare la trattazione dei processi di più antica data, a non concedere alle parti rinvii ingiustificati, a concentrare e razionalizzare attività processuali evitando sprechi di energie, anche valorizzando disposizioni del codice di procedura spesso trascurate nella prassi, sono state un buon esempio, utile soprattutto a livellare la durata dei processi, evitando differenze abissali  tra l’uno e l’altro, che possono comportare, in alcuni casi, la violazione del principio di ragionevole durata (come facilmente avviene in un processo non diretto dal giudice, ma abbandonato unicamente alla dialettica delle parti, secondo la tradizione liberale ottocentesca). Ma resta il fatto che la situazione del Tribunale di Torino è una tra le più favorevoli d’Italia: nel 2016 le cause iscritte per ogni giudice erano 308,97 (contro una media nazionale di 376,89), e, soprattutto, erano definite con sentenza solo nel 36,77% dei casi (contro una media nazionale del 45,64%); le sentenze emesse in media da ciascun  giudice civile, perciò, sono state 109,75 (contro una media nazionale di 186,04). Insomma, a Torino si riesce a far bella figura non perché si lavori di più (anzi), bensì perché c’è meno litigiosità. O, se si preferisce, perché la dotazione di personale (in rapporto a tale litigiosità) è abbondante. D’altra parte, se al Tribunale di Torino, nei primi anni della presidenza Barbuto (2001-2003) i procedimenti pendenti si sono ridotti del 22%, è anche vero che negli stessi anni in tutta Italia sono diminuiti del 16%[x]. Il risultato è stato migliore della media, ma non è stato un miracolo. Ed è stato raggiunto anche grazie ad un impiego importante della forza-lavoro supplementare rappresentata dai giudici onorari, che sollevò più di una perplessità anche al CSM[xi].

A questo punto, qualcuno si potrebbe chiedere, se il rimedio alla lentezza della giustizia, particolarmente accentuata nel Mezzogiorno, sembra consistere in un adeguamento delle piante organiche, perché non lo si fa? Anche qui la risposta è complessa. Intanto, l’impostazione neo-liberista fondata sul dogma “meno Stato” vi pone un ostacolo ideologico, poiché ogni aumento di organico complessivo comporta una spesa, e su questo si è spesso lesinato. Tuttavia, un secondo  livello di risposta deve considerare che anche di fronte ad aumenti di organico, non sempre le nuove risorse vengono destinate dove ce n’è più bisogno. Anzi, tutt’altro. Nella distribuzione dei posti in aumento, infatti, si è seguito un criterio assimilabile a quello che nella finanza pubblica è chiamato “spesa storica”. Cioè, le risorse in aumento vengono assegnate in proporzione alla precedente  (sperequata) distribuzione, senza tentare di ridisegnare la mappa in base alle mutate esigenze. Così, chi ha sempre avuto di più continua ad avere di più, e chi ha sempre avuto di meno continua ad avere (relativamente) di meno. E’ quella che si chiama distribuzione “a pioggia”, in cui le risorse aggiuntive, invece di andare a coprire le necessità, vanno anche ad ingrossare il superfluo dove occorrono di meno, con un complessivo risultato di spreco e di inefficienza (altro che aziendalismo e managerialità). Eppure si è autorevolmente parlato di “totale assurdità delle configurazioni degli organici che sembra rispondere più a sedimentazioni storiche e a ragioni casuali che a qualsiasi parametro razionale”[xii].

Riprendendo la descritta divisione dei Tribunali in quattro sottogruppi, in ordine crescente  a seconda della durata media delle cause, che come si è visto corrisponde, mediamente, ad un carico di lavoro crescente, si è ipotizzato che, con un aumento complessivo di 492 unità – stimato congruo per assegnare a tutti i tribunali carichi di lavoro omogenei (col correttivo del tasso di conciliazione delle cause)e pari a quelli del Tribunale di Aosta, ossia del Tribunale dove le cause durano di meno – per livellare i carichi di lavoro pro capite, al primo quartile avrebbe dovuto ridursi l’organico di ben 55 unità complessivamente, al secondo quartile sarebbe toccato un aumento di 143 unità, al terzo di 192, e al quarto di 212[xiii]. Il Ministero, invece, col D.M. 1° dicembre 2016, col quale ha distribuito 118 posti in aumento, ha assegnato ai quattro quartili rispettivamente 11, 39, 34 e 34 unità. A quasi tutti ha dato,  nella stessa misura, e a quasi nessuno ha tolto[xiv]. E comunque, ha dato soprattutto al Nord, trascurando il Sud[xv]. E’ vero che il Ministero ha dovuto tener conto anche delle esigenze della giustizia penale, e non solo di quella civile. Ma pare improbabile che i carichi di lavoro del penale (di più difficile ponderazione, per ragioni che sarebbe lungo elencare) siano così squilibrati rispetto al civile da determinare un ribaltamento generale delle esigenze di adeguamento che si manifestano nell’altro settore.

D’altra parte, il Ministero, nella relazione tecnica che ha accompagnato il citato decreto, dopo aver elencato una serie di criteri disomogenei e contraddittori, senza precisare quale peso specifico avesse ciascuno di essi nella complessiva determinazione dell’organico, parlava di “aperto riconoscimento della discrezionalità delle valutazioni da compiersi in relazione alla complessità ed alla eterogenea molteplicità delle istanze da considerarsi, anche secondo logiche di obiettiva priorità”. Insomma, fanno quello che vogliono. Per giustificarlo si inventano anche un criterio che privilegia (assegnando posti in misura più che proporzionale ai carichi di lavoro) i tribunali “metropolitani” e di grandi dimensioni, “in relazione ai quali si è rilevato che l’elaborazione condotta sulla scorta dei valori medi nazionali avrebbe comunque determinato un cospicuo ridimensionamento dell’organico, non giustificato dalla concreta realtà operativa e da una serie di fattori non immediatamente pesabili attraverso il solo dato numerico dei procedimenti iscritti”. Cioè, se i numeri dimostrano che i grandi tribunali sono sovra-dimensionati, allora sono i numeri che sbagliano[xvi]. E quei tribunali, comunque, non si toccano.

Ma, probabilmente, in questa timidezza nel redistribuire gli organici (che sembra perdurare, a prima lettura, anche col più recente D.M. 14 settembre 2020, col quale a nessun Tribunale è stato ridotto l’organico, e sul quale ci si propone di condurre quanto prima un’analisi più approfondita), i “fattori non immediatamente pesabili” in termini quantitativi sono di natura lato sensu politica. I grandi uffici, che (specialmente al Nord) in un’equa redistribuzione di risorse si vedrebbero tagliare i posti, rappresentano  grandi bacini di voti, che le correnti che concorrono agli appuntamenti elettorali (CSM, CDC dell’ANM) non vogliono scontentare. Più facile  dare “contentini” modesti un po’ a tutti, in modo che nessuno si senta sacrificato. Tanto, ragionare sui dati è difficile, e nessuno si prenderà la briga di farlo (meno di tutti, quello che secondo una retorica espressione giornalistica sarebbe il “sindacato delle toghe”, cioè l’ANM).  E poi, se ci sono uffici in cui i giudici sono oberati e rischiano il procedimento disciplinare per ritardi incolpevoli, tanto meglio: magistrati sotto ricatto  dovranno cercarsi una protezione nell’una o nell’altra corrente (l’una vale l’altra) e rafforzarne così il potere. E a questa gestione clientelare non sono ovviamente insensibili gli ambienti ministeriali, dato il sistema di porte girevoli e di vasi comunicanti che collega dirigenza ministeriale, ANM e CSM (il quale peraltro fornisce ascoltati pareri sulla distribuzione degli organici). Insomma, quel “sistema” che è balzato recentemente agli onori della cronaca (nera) non sembra estraneo alla cattiva gestione delle piante organiche, e alla conseguente inefficienza del sistema giudiziario.

Questo spiega anche la riluttanza del CSM ad adempiere ad obblighi impostigli dal legislatore in tema di individuazione degli “standard di rendimento” (art. 11 d.lgs. n. 160 del 2006) e dei “carichi di lavoro esigibili” (art. 37 d.l. n. 98 del 2011, conv. nella l. 111). Cominciare a mettere nero su bianco quale sia il rendimento minimo che si deve pretendere da un magistrato, o quale sia il massimo che dal medesimo si può pretendere senza che il carico risulti insostenibile o finisca per ripercuotersi negativamente sulla qualità (come ha fatto, ad esempio, l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa), avrebbe significato far emergere le intollerabili disparità di condizioni di lavoro tra un ufficio e l’altro, e quindi la “totale assurdità delle configurazioni degli organici”, per dirla col Presidente Castelli. Meglio far finta di essere più realisti del re (cioè più esigenti verso i magistrati di quanto non lo sia stato il legislatore), versare fiumi di inchiostro per decidere di non decidere, e rimettere tutto ai dirigenti degli uffici. Ci vogliono i manager, perbacco!

In questa situazione, che i magistrati del Sud si siano finalmente arrabbiati, non deve meravigliare più di tanto. Meraviglia, semmai, che si siano arrabbiati solo ora.


 

[i] La citazione è tratta da M. Barbuto, L’efficienza della giustizia passa da Strasburgo – storia di un processo organizzativo di livello europeo, Aracne editrice, 2017, pagg. 222-223, ed è stata ripresa nel mio lavoro Giustizia civile – le ragioni di una crisi, Aracne editrice, 2019, pag. 213

[ii] https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Performance_tribunali_italiani_settore_civile.pdf

[iii] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_9_10_4.wp#rbS1c

[iv] McKinsey, Draghi e il Recovery Plan: cosa c’è che non va nel contratto da 25mila euro del Mef per il PNRR (today.it)

[v] La giustizia civile in Italia – le recenti evoluzioni, a cura di Silvia Giacomelli, Sauro Mocetti, Giuliana Palumbo e Giacomo Roma, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2017-0401/QEF_401_17.pdf ; peraltro il lavoro è pubblicato con l’avvertenza che riflette esclusivamente l’opinione degli autori, senza impegnare la responsabilità delle Istituzioni di appartenenza.

[vi] Si veda ancora Giustizia civile, cit., pagg. 224-225

[vii] Anzi, dallo stesso Renzi in persona, come Barbuto testimonia nella sua opera citata, pag. 16

[viii] Si veda ancora il citato Giustizia civile, pag. 222

[ix] Anche con l’avallo di giornalisti pur validi, come Milena Gabanelli, forse ansiosa di dare finalmente “una buona notizia”, che avrebbe “consacrato” l’esperienza in una trasmissione del 6 maggio 2007 di Report, come afferma lo stesso Barbuto, op. cit. pag. 164

[x] Giustizia civile, cit., pag. 275

[xi] Ne parla diffusamente lo stesso Barbuto, op. cit., pagg. 139-172

[xii] Claudio Castelli, Standard, carichi esigibili, carichi sostenibili: discussioni infinite o indicazioni di lavoro concreto, in Questione Giustizia, 24 giugno 2015. Peccato che poi lo stesso Castelli (esponente di Magistratura Democratica, attuale presidente della Corte d’Appello di Brescia) accodandosi alla visione aziendalista dei neo-liberisti, affermi, proprio a proposito della giustizia nel Sud, che l’aumento di risorse “rischia di essere l’alimentazione di un buco nero che tutto assorbe senza alcuna resa”: così in Un piano straordinario per la giustizia nel Sud, in Questione Giustizia, 1 ottobre 2015. Forse il suo scetticismo dipende dal fatto che, come egli stesso, sentito come presidente della Commissione per l’organizzazione degli uffici giudiziari del CSM, dichiarò alla Commissione Parlamentare Antimafia l’11 marzo 1997, “quando (…) per aumentare l’organico da una parte si decide di diminuirlo dall’altra, subito si manifestano innumerevoli opposizioni” (resoconto stenografico, pag. 53).

[xiii] Cfr. Giustizia civile, cit., pagg. 225-236

[xiv] Peraltro, anche in questo quadro di appiattimento, al Tribunale di Torino sono stati comunque tagliati 4 posti. A riprova  del fatto che i vantati risultati di efficienza sono stati anche il frutto di organici sovra-dimensionati.

[xv] Per quest’ultimo aspetto si vedano gli esempi in Giustizia civile, cit., pag. 237

[xvi] Per un’analisi più puntuale e diffusa dei criteri seguiti col D.M. 1-12-16 si veda ancora Giustizia civile, cit., pagg. 208-211.

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