Caro direttore, ritorna all’attenzione pubblica l’annosa questione della separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e requirenti ( «Giudici e Pm» come comunemente si dice). La proposta di legge di iniziativa popolare a favore della separazione, patrocinata dagli avvocati penalisti rappresentati nelle «Camere penali», è all’esame della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati.
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Una discussione basata su argomenti razionali e non viziata da aprioristiche suggestioni – eventualmente rafforzate da pur sconcertanti comportamenti di alcuni membri del Csm: comportamenti che nulla hanno a che vedere con la questione – deve svolgersi avendo al centro il concetto/valore della giustizia come servizio pubblico: servizio ai cittadini. In questa prospettiva, ritengo prevalenti gli argomenti a favore del mantenimento e del rafforzamento di una puntuale separazione di funzioni: non , invece, di carriere.
Ogni magistrato, nei diversi ruoli, deve perseguire un unico ed unitario interesse generale : accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge. Il Pm deve cercare, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chiedere l’archiviazione o l’assoluzione. Anch’egli è dunque, in senso proprio, «parte imparziale» del processo,a differenza del difensore, che fa l’interesse privato e personale dell’imputato. Al Giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro.
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Ora, ciò vale anche nell’ambito del processo «accusatorio»: ove il ruolo dialettico del Pm si rappresenta in termini di un più intenso e dinamico (e «organizzato») confronto con il difensore, non certo in quelli di «parte contro» il cittadino indagato. Guai se questi fosse indotto a contare soltanto sull’abilità di un (solo-per-abbienti) «principe del foro» , e non anche sull’opera dello Stato, per veder riconosciute le proprie ragioni. Reputo inconcepibile che lo Stato operi, o anche solo appaia operare, attraverso un suo organo, orientato contro il cittadino indagato.
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Dovrebbe dunque promuoversi un sistema organizzativo che assieme alla distinzione dei ruoli valorizzi il principio della unitarietà della funzione giurisdizionale, cioè l’unitaria missione istituzionale del «dire giustizia» nel pubblico interesse.
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Potranno dunque eventualmente introdursi nuove regole, basate sull’esperienza, per rafforzare la distinzione effettiva delle specifiche funzioni dei magistrati. Regole da aggiungersi a quelle già esistenti (v.ad es. l’art 34 cod.proc.pen., interpolato da varie sentenze interpretative della Corte Costituzionale) che prevede varie incompatibilità fra Pm e Giudici — e anche fra Giudici, come quella per cui il Gip che ha adottato un provvedimento cautelare non può essere lo stesso magistrato che decide sul rinvio a giudizio).
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Ciò detto, insisto sull’esigenza che ogni magistrato, a partire dalla formazione sino all’esercizio delle funzioni, effettivamente condivida, pur quando investito di ruoli diversi, una unitaria «cultura della giurisdizione»: che è fatta anche di riflessione scrupolosa, confronto, capacità autocritica. E proprio ad evitare l’avversarsi o il ripetersi di manifestazioni di «protagonismo» e comunque di scarsa ponderazione nell’esercizio della funzione requirente, va garantita e rafforzata quella condivisione effettiva.
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E così – sviluppando la regola secondo cui i magistrati ordinari in tirocinio non possono essere immediatamente destinati agli uffici del Giudice delle indagini preliminari – si dovrebbe condizionare l’accesso al ruolo di Pm ad una precedente, pluriennale esperienza di componente di collegi giudicanti: ove appunto maturare quella cultura di ponderazione, confronto, critica ed autocritica.
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Per le stesse ragioni, in luogo di scelte irreversibili, dovrebbe mantenersi la possibilità di periodiche «conversioni di servizio» (di durata pluriennale e con tutte le specifiche garanzie di separazione funzionale) dalla attività giudicante a quella requirente, e viceversa
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°L’autore dell’articolo è professore emerito dell’Università degli Studi di Milano
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