Il successo delle destre sovraniste alle ultime elezioni europee non è stato solo un successo personale dei loro leader nazionali. Né è da ascrivere semplicemente all’ uso sapiente dei social. Del resto, Marine Le Pen e Viktor Orbán non sono dei novizi; il loro è un successo di longue durée , fondato su un’ idea di società nazionale ed europea non improvvisata. Salvini, ultimo e più giovane, ha appreso l’ arte con velocità, seguendo le orme dell’ ungherese piuttosto che quelle «repubblicane» della francese: l’ uso di simboli religiosi per cementare un blocco sociale per nulla omogeneo. Si tratta di una scelta di notevole significato strategico, soprattutto se si considera che la nostra epoca e il continente europeo sono secolarizzati.
Ma l’uso dei simboli religiosi serve a far marciare quella che Rogers Brubaker ha suggerito di chiamare ideologia del «civilizzazionismo». Il primo a metterla in pratica fu vent’ anni fa il leader populista dei Paesi Bassi, Pim Fortuyn che con un mix di anti-islamismo e libertarismo coniò il discorso della superiorità della civiltà olandese, tollerante in materia di genere e morale sessuale, per farsi portavoce dell’ inquietudine diffusa negli ambienti omosessuali verso i valori musulmani. La civiltà liberale ed europea contro quella islamica.
In Italia e in Ungheria il «nativismo» è forse meno liberale che in Olanda; ma la narrativa civilizzazionista è facilmente adattabile ai contesti: la nostra civilità «giudeo-cristiana» dice Salvini; la nostra patria «bianca e cristiana» dice Orbán. Un’ ideologia malleabile e adattabile alle più diverse situazioni socio-economiche e culturali.
Nelle regioni italiane del Nord ricco e plurietnico, vale a dare il senso di unicità del «noi» e di protezione dei traguardi raggiunti con le «nostre fatiche e il nostro lavoro». Nelle regioni del Sud (dove Salvini non è ancora riuscito a far dimenticare l’ anti-terronismo della prima Lega) con una società disaggregata e dove lavoro e benessere scarseggiano, i simboli religiosi della civiltà cristiana prendono contorni più emotivi, veicolando lo scontento sociale che la presenza degli immigrati africani acutizza. A Rosarno, a Riace, a Lampedusa la Lega ha fatto il pieno di voti. Come anche nelle terre della Bassa Padania, nel largo e ricco hinterland del Nord che ha trovato in Salvini il paladino del regionalismo differenziato.
Il linguaggio del rosario e della croce baciata in omaggio alla vittoria elettorale svolge funzioni diverse: di identità culturale e di aiuto provvidenziale. Ringraziando pubblicamente il Supremo dopo le elezioni europee, Salvini ammette i suoi poteri limitati e manda un messaggio ai suoi sostenitori: come a voler dir loro che non gli si dovrà imputare tutto quello che non riuscirà a fare. Mentre i simboli della civiltà giudeo-cristiana fanno da collante che tiene insieme Nord e Sud, intraprendenza e fortuna, sono anche un’ ottima rete di protezione per un leader che si sente carismatico.
La narrativa di Salvini costruisce in questo modo un aggregato a partire dalle molte e diverse rivendicazioni. Sulle orme di Donald Trump trova le corde giuste per unire interessi che difficilmente stanno insieme: quelli dei ceti medio-bassi e lavoratori precari e quelli dei ceti medio-alti; i «dimenticati» e gli «ultimi» insieme ai «fortunati» e ai «primi»; coloro che cercano la mano pubblica e coloro che vorrebbero ridurla. Rotto il contratto sociale che doveva garantire la collaborazione tra le parti mediante tassazione progressiva e programmi di politiche pubbliche, la narrativa civilizzazionista tiene insieme basse tasse e assistenza, neoliberismo e carità. In un indimenticabile album, Francesco Guccini tratteggiava un percorso immaginario «fra la via Emilia e il West», fra la grande bassa e il grande middle americano: luoghi senza un orizzonte, nei quali le aggregazioni restano forti a condizione che ci siano punti di riferimento visibili.
È così che l’ Emilia-Romagna vede alle elezioni europee la Lega diventare primo partito, con i centri storici ai democratici e le province e la grande bassa a Salvini. In questi luoghi, dove ceti popolari e immigrati vivono gomito a gomito, il rosario diventa un segno di riconoscimento del «noi», un sostituto altrettanto visibile da lontano di quanto lo erano le bandiere rosse con la falce e il martello.