Caro Presidente Mattarella,
spero non le appaia troppo irriverente e irrituale inviarle una lettera pubblica. Avrei potuto chiamare a supporto di quanto sto per scrivere un po’ di autorevoli firme per togliere il carattere apparentemente personale alle mie parole. Non l’ho fatto, non perché non creda alla funzione degli appelli – uno strumento certamente usurato, ma la democrazia vive anche di routine, specie quando funziona – ma perché anche simbolicamente voglio qui interpretare la figura del singolo cittadino e prendermi l’esclusiva responsabilità di quanto scrivo.
Seguo da mezzo secolo le vicende del mio Paese, sia come partecipe osservatore delle dinamiche politiche quotidiane, sia come storico dell’età contemporanea. E dunque credo di poter affermare con drammatica sicurezza che mai si era verificata in Italia, fino ad oggi, un’operazione di aperta eversione dello Stato repubblicano, tenuta sotto silenzio per mesi dalle forze politiche promotrici, nella disinformazione generale dell’opinione pubblica, nel silenzio dei partiti, nella sordina di quasi tutta la grande stampa, nella totale disattenzione della televisione pubblica.
Il progetto di legge sulla cosiddetta “’autonomia differenziata”, riguardante le regione del Veneto della Lombardia e dell’Emilia, arrivato alla discussione ufficiale nel Consiglio del ministri del 14 febbraio scorso è infatti questo: un progetto di disarticolazione dell’unità nazionale, affidato alla diseguale redistribuzione delle risorse fiscali e alla attribuzione di speciali potestà, alle regioni suddette, in ben 23 materie. Non entro nel merito analitico del costrutto giuridico e della suo carattere eversivo, benché abilmente camuffato come un normale percorso di rafforzamento delle autonomie amministrative. Studiosi della materia con ben maggiori competenze delle mie, l’hanno ampiamente fatto su questo giornale e su altri organi di stampa. E del resto, in prossimità del Consiglio del ministri, anche i media nazionali si sono profusi in informazione quotidiana, quando l’argomento si prestava al corrivo gossip giornalistico sulle difficoltà e i contrasti che la legge apriva all’interno del governo e nei partiti.
Si tratta di una informazione drammaticamente tardiva, anche se oggi appare preziosa, ma che sarebbe stata vana se l’iter legislativo non si fosse momentaneamente inceppato. E infatti questo è l’altro aspetto inquietante dell’operazione semiclandestina di secessione padana camuffata da routine amministativa. Il fatto cioè che essa è realizzabile – grazie a una disposizione prevista dalla riforma del Titolo V della Costituzione – senza dibattito parlamentare, vale a dire tramite la completa marginalizzazione dell’organo legislativo, destinato a rappresentare la volontà del popolo italiano. Tre regioni possono stravolgere la Costituzione e disfare l’ordito unitario dello stato nella completa disinformazione , ma anche nell’impotenza dei cittadini.
E allora, caro Presidente, com’è stata possibile questa allarmante falla? Debbo ricordare che il disegno eversivo è stato solitariamente denunciato, contribuendo non poco al suo momentaneo arresto, soltanto da pochi, sparuti studiosi che da mesi sono impegnati allo stremo nella più scoraggiante solitudine. Si tratta di quegli intellettuali, in gran parte docenti universitari, che Matteo Renzi e il suo governo hanno cominciato a dileggiare come “professoroni,” facendo ormai scuola e senso comune. Il sapere e le competenze specialistiche derisi come vecchiume libresco, da sostituire con la fresca improntitudine “popolare” del politico che sa adattarsi alle circostanze. Ma come è stato possibile tutto questo? E’ cosi fragile oggi il nostro organismo costituzionale, l’architettura dei nostri ordinamenti civili, da dovere essere puntellata, in un momento così grave della vita nazionale, da un pugno disperso di cittadini?
E allora, caro Presidente, siamo in un frangente delicato della nostra storia che può decidere dell’unità o della frantumazione avvenire della comunità nazionale, della sua riduzione a un mosaico di statarelli regionali in rissa e competizione perpetua. E non posso non chiederle che posto conserveremo in Europa se una gran parte del Paese, il Mezzogiorno, verrà messo ai margini della vita economica e sociale. Lei incarna l’unità dell’ Italia. Sono rispettoso e consapevole dei suoi limiti operativi e dei suoi obblighi istiruzionali.Ma può la sua azione, in tale circostanza, limitarsi a una eventuale diniego di apporre la sua firma alla legge?
Può ancora rimanere in silenzio, caro Presidente, mentre l’Italia corre un rischio così grave, destinato a pesare in maniera tanto rilevante sulla nostra vita e su quella dei nostri figli?
(*) L’autore del testo, già ordinario di Storia all’Università la Sapienza di Roma, è saggista e scrittore.
il manifesto, 22 febbraio 2019