La designazione dei senatori da parte dei Consigli regionali tra i propri componenti non costituisce certo l’unico aspetto negativo della riforma Renzi-Boschi. Basti pensare alla ridotta numerosità del Senato, che ne diminuisce notevolmente il peso specifico nella partecipazione alla elezione di organi di garanzia (Presidente della Repubblica, cinque giudici costituzionali, membri laici del CSM), posta di fatto nelle mani della maggioranza artificiale di un unico partito alla Camera. Evidentemente il ridimensionamento del numero dei deputati era sgradito ai contraenti del “patto del Nazareno” e quindi alla Camera non si è applicato il “principio” della riduzione dei politici e delle relative spese sbandierato da Renzi per il Senato.
Se si guarda poi alle funzioni del Senato, restano del tutto misteriose quelle di verifica e di controllo, mentre per le leggi monocamerali la maggioranza monopartitica della Camera potrà imporre la sua volontà senza difficoltà. Inoltre è difficile pensare che un personale formato da consiglieri e sindaci, in assenza per di più dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle Città metropolitane, possa fare opposizione alle proposte del Governo, dal quale le Regioni saranno più dipendenti dal punto di vista politico e finanziario grazie alla ricentralizzazione operata dalla “riforma della riforma” del titolo quinto.
Infine l’attuazione delle garanzie della opposizione e il rafforzamento degli istituti di partecipazione (leggi di iniziativa popolare e referendum propositivo) sono rinviati a future modifiche dei regolamenti parlamentari, a leggi ordinarie e a leggi costituzionali, quindi in pratica alla buona volontà della maggioranza monopartitica della Camera.
In questo quadro, la battaglia per l’elezione popolare del Senato, anche se non sufficiente, va condivisa per una ragione di principio, derivante dalla necessità di rispondere alla crisi della partecipazione popolare attestata dalla crescita dell’astensionismo. Ed è battaglia convalidata dai sondaggi che segnalano la volontà di una grande maggioranza dei cittadini di eleggere il futuro Senato.
Ma vi è anche la necessità di salvaguardare gli equilibri costituzionali, compromessi da una legge elettorale abnorme che alla Camera potrebbe assegnare la maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito che, in considerazione del livello di astensionismo, ottenga un numero anche ridotto dei voti degli elettori, e darebbe vita ad un’assemblea formata per circa due terzi da nominati.
Contro la proposta del Senato elettivo si è scatenata l’offensiva di opinionisti e di studiosi filo-renziani, che ultimamente hanno utilizzato argomenti di natura comparativa per squalificarla. Così si è scritto che la designazione indiretta dei senatori sarebbe dominante negli Stati federali e in quelli regionali. Per i primi niente di più falso: l’elezione popolare del Senato è prevista negli Stati Uniti (dove fu introdotta nel 1913, anche per ridurre i fenomeni di corruzione determinata dall’elezione da parte dei Parlamenti degli Stati membri), in Svizzera, in Australia e negli Stati federali latino-americani (Argentina, Brasile e Messico).
Quanto agli Stati regionali, vi è il caso, non certo di scarso rilievo, della Spagna, dove i quattro quinti dei senatori sono eletti dal popolo e solo il quinto restante è designato dai Parlamenti delle Comunità autonome.
Qualcuno sposta l’attenzione sull’Unione europea per arrivare all’affermazione di D’Alimonte (ne Il Sole 24 Ore del 17 settembre) secondo la quale solo in cinque Paesi su ventotto è prevista l’elezione popolare della seconda Camera. E’ un gioco troppo facile, ma anche agevolmente smontabile. La verità è che in quindici Paesi vi è un sistema monocamerale, ipotesi che potrebbe essere certamente accolta in Italia, ma richiederebbe una legge elettorale profondamente diversa da quella approvata e la previsione nella Costituzione di forti garanzie della opposizione e delle minoranze.
Ebbene, tra i quindici Paesi monocamerali, quattordici adottano un sistema elettorale proporzionale, che in sei di essi è imposto dalla Costituzione. I correttivi adottati in alcuni (soglia di sbarramento e ridotta dimensione dei collegi) non sono in grado di garantire con certezza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi. E nell’unico Paese, la Grecia, che prevede un premio di maggioranza al primo partito, questo è costituito da un numero fisso di deputati (50 su 300) che nelle tornate elettorali degli ultimi anni non gli ha mai consentito di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi.
L’unico Paese monocamerale che adotta un sistema misto a prevalenza maggioritaria con meccanismi che possono dare un maggioranza abnorme al primo partito è l’Ungheria, che non è certamente oggi un modello da imitare.
Fra i tredici Paesi bicamerali, ben dieci hanno un sistema elettorale proporzionale e due (Regno Unito e Francia) un sistema maggioritario a uno o due turni in collegi uninominali. In definitiva, con buona pace di D’Alimonte, grazie all’Italicum il nostro è il solo Paese su ventotto ad avere adottato un sistema elettorale con premio di maggioranza, doppio turno di lista e attribuzione certa di una maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito.
Ma quanti sono i Paesi che adottano il modello renziano del Senato composto da membri dei Consigli regionali o locali da questi designati?
Intanto dagli otto Paesi bicamerali che non prevedono l’elezione popolare della seconda Camera, va scorporato il Regno Unito, dove la Camera dei Lord non rappresenta certo le istituzioni territoriali e per la quale il governo conservatore-liberale aveva presentato un disegno di legge che prevedeva l’elezione popolare dell’80% dei componenti.
Ma non vi rientra neanche la Germania, che adotta un sistema non senatoriale, ma “ambasciatoriale”, nel quale i consiglieri sono espressione degli esecutivi dei Laender e ogni delegazione esprime un unico voto. In Irlanda i senatori non rappresentano le istituzioni locali, ma diversi interessi culturali e professionali, come si verifica in Slovenia per il 40% dei senatori. In Francia è molto ampia la platea degli elettori (circa 150.000) in rappresentanza di tutte le collettività territoriali. Non restano che Austria, Paesi Bassi e Belgio, ma nei primi due Paesi, così come in Francia, può essere eletto senatore qualsiasi cittadino, mentre solo in Belgio 50 senatori su 60 sono eletti dalle assemblee rappresentative delle Comunità linguistiche tra i propri membri. Utilizzando il metodo D’Alimonte, si potrebbe affermare che ad oggi tra i ventotto Paesi dell’Unione uno solo, il Belgio, prevede che i senatori siano designati dai Parlamenti delle istituzioni territoriali tra i propri componenti.
Infine, tra i cinque Paesi che prevedono l’elezione popolare, solo in due (Italia e Romania) il Senato vota la fiducia e la sfiducia al Governo, mentre negli altri tre (Repubblica Ceca, Polonia, Spagna) il rapporto di fiducia intercorre solo fra Governo e Camera dei deputati. Il che smentisce l’opinione secondo la quale l’elezione popolare del Senato imporrebbe l’esistenza del rapporto di fiducia con il Governo. Inutile dire che in nessun Paese bicamerale è previsto che i senatori siano eletti dalle assemblee territoriali “su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali” locali, formula non di mediazione, ma ambigua e truffaldina che riduce gli elettori a massa di manovra per avallare scelte calate dall’alto.
In definitiva il Senato voluto da Renzi non sarebbe affatto più “europeo” e le esperienze alle quali sarebbe più vicino (Austria e Belgio) sono contrassegnate dalla forte partitizzazione e dal ruolo secondario della seconda camera.
(*) Mauro Volpi è socio di LeG Perugia e già membro del Csm