Tempi duri per la rappresentanza. Passò quel tempo, umile ed ordinario, in cui tutti pensavamo che in una società complessa fossero necessarie strutture collettive (sindacati, associazioni datoriali, consigli professionali, comunità di volontariato) capaci di portare nei circuiti del potere le istanze e le attese dei vari segmenti sociali. Oggi invece se c’è un argomento di cattiva stampa, anzi di pessima stampa, è proprio quello della «delenda rappresentanza». Il dibattito su di essa è tutto demolitorio; i media sono scatenati a denunciare il suo immorale immobilismo; gli stessi suoi protagonisti sgomitano senza alcun progetto; la politica, riconquistato il suo primato, impone una fredda presa di disintermediazione; le vicende istituzionali vedono l’accantonamento delle antiche sedi di mediazione e di concertazione. E qualcuno comincia a pensare alla provocatoria soluzione finale, quella del numero («contatevi, dimostrate quanta gente rappresentate, poi sarete legittimati a fare il vostro mestiere»).
Una tale valanga di delegittimazione non sembra nei fatti contrastabile e ogni tentativo in merito sarebbe una avventura suicida, visto il clima mediatico e visto anche il grande deficit di cultura collettiva in cui viviamo: da una parte ci siamo dimenticati (in decenni di concertazione) che la rappresentanza è figlia del conflitto e della sua ciclicità, e che quindi essa non ha spazio in una dinamica sociale «liquida» e senza grandi scontri; e dall’altra parte ci siamo dimenticati che la rappresentanza è stata finora figlia di un paradigma (l’impasto fra organizzazione fordista e dinamica di classe) oggi superato da un paradigma tutto fatto di sviluppo molecolare e di dinamica individuale, senza consistenti grumi di aggregazione. Ed è questa doppia dimenticanza, sulla dimensione ciclica della rappresentanza e sul cambiamento del suo paradigma, che è oggi il fattore determinante della crisi, certo più delle mediatiche accuse di immobilismo. Prendere atto di tutto ciò comporta allora la morte della rappresentanza? La risposta è semplice e banale: no, fino a quando in una società ci saranno processi di sviluppo e quindi di squilibrio sociale, con conseguenti tensioni, conflitti, istanze da convogliare in mobilitazioni collettive e da governare in una dialettica supportata da competenza e realismo. Se non si va per questa strada, rischiamo o il potere disintermediato o la vocazione alle mobilitazioni di piazza, magari attestandosi su strumenti di gestione del conflitto un po’ troppo «hard», come fili spinati, muri, guardie costiere e di confine, stazioni occupate, treni bloccati e quant’altro. I problemi da affrontare, ce lo dicono le cronache, si fanno sempre più complessi in tutti i paesi sviluppati, ma in particolare in Italia. Siamo infatti una società in cui aumentano le distanze sociali (per livello di reddito, di consumo, di patrimonializzazione) ed in cui quindi aumentano risentimenti che non possono essere lasciati a se stessi, ma devono essere collettivamente rappresentati. Siamo una società che sta integrando e dovrà integrare milioni di stranieri, tutti portatori di interessi forti (casa, lavoro, scuola, lingua, ecc.) e tutti alle prese con nuove identità collettive; interessi e identità che qualcuno dovrà pure «rappresentare». E siamo una società (anche restasse a galleggiare dov’è) che per la sua dinamica molecolare tende a cumulare un malcontento di moltitudine, che va convogliato prima in dialettica e poi in dinamica sociale. Sono processi che coinvolgono problemi molto delicati, e sarebbe pericoloso illudersi che per affrontarli basti esaltare le responsabilità politiche (nazionali ed europee); stressare l’azione delle amministrazioni pubbliche; dispensare risorse ed incentivi; coltivare emozioni di piazza; rilanciare magari ambizioni di nuovi soggetti e conflitti di classe. È necessario invece un capillare e quotidiano lavoro sugli equilibri e squilibri della nostra composizione sociale e delle nostre realtà locali; per cui le fortune di una necessaria riuscita della rappresentanza sono nelle mani di quelle strutture che confidano non sui grandi apparati, ma sulla loro molecolare presenza nell’intreccio quotidiano e localistico fra nuovi interessi da difendere e nuove identità da costruire.
Corriere, 28 settembre 2015