“La morte di Paolo e i pezzi mancanti ventidue anni dopo”

22 Luglio 2014

“A differenza di tante altre lapidi commemorative delle vittime delle mafia che recano frasi celebrative, la lapide posta in via D’Amelio reca solo i nomi di battesimo di Paolo, Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo, Walter. Null’altro. Come se quella lapide ricordasse a tutti noi che ancora attendiamo di sapere quali siano le parole giuste da scrivere e quale fu la storia che quel terribile 19 luglio 1992 trascinò nel suo gorgo malefico le loro vite”.

scarpinatoL’intervento alla commemorazione delle vittime della strage di via D’Amelio del Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato.

È trascorso quasi un quarto di secolo dalla strage di via D’Amelio e ogni anno, a causa dell’inesorabile fluire del tempo, si assottiglia per ragioni anagrafiche e sopravvenuti pensionamenti, il numero di coloro che all’interno del palazzo di giustizia di Palermo furono testimoni di quel tempo. Di coloro che ebbero modo di conoscere personalmente Paolo Borsellino, di condividere con lui i patemi dei suoi ultimi mesi di vita, di attraversare quella tragica stagione di sangue quando tutto sembrava perduto, come ebbe a dire Antonino Caponnetto in un momento di sconforto e di verità, e un intero popolo che si sentiva improvvisamente orfano, si riversava nelle piazze gridando il proprio sdegno nei confronti degli esponenti di una classe politica che appariva imbelle e di uno Stato che si era rivelato incapace di proteggere da una morte annunciata i suoi figli migliori. Ho ancora negli occhi l’immagine di un presidente della Repubblica che, venuto a Palermo dopo la strage, rimase prigioniero nella morsa di una folla immane; una folla che travolse nel suo incontenibile impeto i cordoni di protezione della polizia e dalle cui file si alzava veemente il grido “assassini” all’indirizzo dei massimi esponenti delle istituzioni.
Una storia di menzogne
vecchia quanto la Repubblica
  
Ogni anno che trascorre mi chiedo quanto di questo vissuto sia rimasto e resterà nella memoria collettiva dei nuovi abitanti di questo
palazzo, delle giovani generazioni di magistrati, di avvocati, di funzionari destinati a sostituirci. Mi chiedo quale verità storica, prima ancora che verità processuale, noi lasciamo loro in eredità; quali chiavi di lettura del passato consegniamo loro perché nella staffetta delle generazioni essi sappiano leggere nel presente i segni del passato e le possibili premonizioni del futuro.   
Nel pormi questa domanda a proposito della strage di via D’ Amelio, a volte resto perplesso, perché tanti, troppi aspetti di quella strage restano, a tutt’oggi, avvolti
in un mistero impermeabile alle indagini; lo stesso mistero che avvolge, non a caso, quasi tutte le stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese. Non vi è alcun Paese europeo la cui storia nazionale sia stata contrassegnata da una sequenza così lunga e quasi ininterrotta di stragi come quella che ha caratterizzato la storia italiana del secondo Dopoguerra. Non è dunque forse un caso che lo stragismo, così come aveva segnato l’incipit della Prima Repubblica tentando di interferire (con la strage di Portella della Ginestra, ndr) sul processo politico poco prima delle elezioni politiche nazionali del 1948, il cui esito appariva imprevedibile dopo la lunga parentesi del ventennio fascista, ne contrassegni negli anni 1992-1993 anche l’agonia finale in una fase storica nella quale il disfacimento del vecchio quadro politico apriva una stagione di transizione verso nuovi equilibri di potere, il cui futuro assetto appariva allora di incerto esito e che, a seconda dei suoi sviluppi nell’una o nell’altra direzione, rischiava di pregiudicare, se non direzionato con atti di forza, rilevantissimi interessi e garanzie di impunità che si erano fondati sugli equilibri di potere della Prima Repubblica.   
La vera storia dello stragismo italiano è rimasta in larga misura nell’ombra a causa dell’impotenza della giurisdizione a fare luce sulle occulte causali politiche delle stragi, sui mandanti eccellenti e, talora, persino sugli esecutori materiali. Com’è stato accertato in tanti dei processi concernenti le stragi, le indagini della magistratura sono state quasi sistematicamente
depistate, così come era già accaduto per la strage di Portella della Ginestra, da esponenti di settori deviati delle istituzioni. Una realtà storica talmente evidente che in questi giorni la commissione Giustizia della Camera dei deputati sta esaminando una proposta di legge (proposta C. 559 Bolognesi) che prevede l’introduzione nel nostro codice penale dell’articolo 372 bis concernente il reato di depistaggio.
Gli strani tempi dell‘omicidio
Il giudice andava fermato subito   

Un’accelerazione autolesionistica per gli interessi di Cosa Nostra, perché l’esecuzione pochi giorni prima della scadenza del termine dell’8 agosto 1992 entro cui doveva essere convertito in legge il decreto legge Falcone (firmato dai ministri Scotti e Martelli, ndr) dell’8 giugno 1992 che aveva introdotto il regime detentivo speciale del 41-bis e altre incisive norme antimafia, determinò – come era chiaramente
prevedibile – il subitaneo sblocco e il superamento di tutte le resistenze dell’ampio e trasversale fronte parlamentare garantista sino ad allora contrario alla conversione in legge di norme ritenute lesive di diritti fondamentali.   
Quali interessi superiori rispetto a quelli di Cosa Nostra imposero l’anticipazione autolesionistica della strage? Qual era l’urgenza suprema non rinviabile per cui non si poteva attendere per l’esecuzione della strage neppure il decorso di quei venti giorni che mancavano alla fatidica
data dell’8 agosto, giorno di scadenza della conversione del decreto legge? Cosa si temeva che Paolo potesse fare di tanto grave, di tanto irreparabile, in quei 20 giorni? Forse mettere finalmente a verbale dinanzi alla Procura di Caltanissetta, dove da mesi insisteva per essere sentito, o formalizzare in interrogatori della Procura di Palermo, quel che aveva appreso sul “gioco grande” sotteso alla strage di Capaci e a quelle in fieri, all’interno di un complesso progetto politico stragista che – così come era avvenuto in passato per altre stragi – vedeva ancora una volta interagire la mafia con altre entità esterne?   
Brandelli di verità che aveva appreso in quegli ultimi mesi della sua vita, spesi nella frenetica ricerca di chiavi di lettura per comprendere quanto era accaduto e quanto si preparava ad accadere, anche grazie alle rivelazioni di varie fonti tra le quali anche taluni collaboratori di giustizia. Fonti quali, ad esempio, il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, il quale sentito nel processo per la strage di via D’Amelio ha ammesso di avere anticipato a Paolo Borsellino – ma solo riservatamente, per timore della propria vita – quanto egli sapeva sul progetto macro politico stragista elaborato da intelligenze esterne e discusso dai massimi vertici regionali di Cosa Nostra riuniti in conclave segreto nella provincia di Enna, progetto rimasto
poi celato alla manovalanza mafiosa e persino a molti vertici della Commissione provinciale di Palermo.    Quali che fossero le notizie apprese, doveva comunque trattarsi di rivelazioni che lo avevano lasciato sgomento, quasi avesse assunto consapevolezza di doversi misurare con un potere così grande da travalicare quello mafioso e dinanzi al quale non aveva difese. Tanto sgomento da indurlo a confidare alla moglie che sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avrebbero voluto. Chi erano questi altri? Forse le tracce per individuarli erano annotate in quella agenda rossa dalla quale Paolo mai si separava e che custodiva gelosamente. Ma questo è solo uno dei tanti tasselli mancanti del mosaico.   
Il “consulente esterno”
e gli infiltrati della Polizia   

A tutt’oggi non sappiamo chi fu l’artificiere della strage, il soggetto cioè dotato delle sofisticate competenze tecniche necessarie per mettere a punto il congegno esplosivo e garantire la riuscita dell’operazione.    E ancora non sappiamo chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato il collaboratore Gaspare Spatuzza, sovrintendeva alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura poi collocata in via D’Amelio. E ancora non sappiamo a chi si riferisse Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo, quando disperata per il rapimento del loro figlio Giuseppe avvenuto il 23 novembre 1993, scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli infiltrati della Polizia implicati nella strage di via D’Amelio, come risulta da un’intercettazione ambientale del colloquio tra i due coniugi del 14 dicembre 1993 agli atti del processo per la strage di via D’Amelio.
  
Potrei continuare con un lungo elenco di altre tessere ancora mancanti.
Sono dunque tanti i fatti rilevanti che non conosciamo e che sembrano chiamare in causa livelli di coinvolgimento nella esecuzione della strage che travalicano quello mafioso. Livelli superiori che vengono evocati anche da altri fatti che invece conosciamo, pure ancora avvolti nell’ombra, e che dimostrano come le indagini sulla strage abbiano subito gravi interferenze esterne volte a impedire il pieno accertamento della verità, replicando così quanto era già avvenuto in passato in quasi tutte le indagini relative alle stragi italiane.   
Mi riferisco alla sottrazione dell’agenda rossa di Paolo e all’introduzione nel processo per la strage di via D’Amelio di falsi collaboratori di giustizia (Vincenzo Scarantino e altri), che tutto ignoravano della strage e furono indottrinati per dire il falso ingannando i magistrati.
  
Finché non sapremo la verità
la ferita rimarrà aperta
  

Se le considerazioni sin qui svolte hanno almeno in parte un fondamento, possiamo dunque concludere che a distanza di 22 anni dalla strage di via D’Amelio, non sappiamo ancora che storia raccontare a noi stessi e ai nostri figli. Siamo privi della verità o di parti essenziali di essa. La privazione della verità non è solo un vulnus alla giustizia, perché non consente di accertare le responsabilità penali e irrogare le giuste pene. Vi è un danno ancora più grande, se possibile.    La privazione della verità non consente di elaborare il lutto per la perdita subita, non consente di acquietarsi consegnando questa e altre vicende a un passato tragico ma ormai concluso. Un passato che, quindi, sembra destinato a essere rimosso nell’oblio, oppure a essere coperto sotto il sudario di una retorica commemorativa secondo cui gli unici responsabili del male di mafia sono sempre e solo stati i macellai di Cosa Nostra.
A differenza di tante altre lapidi commemorative delle vittime delle mafia che recano frasi celebrative, la lapide posta in via D’Amelio reca solo i nomi di battesimo di Paolo, Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo, Walter. Null’altro. Come se quella lapide ricordasse a tutti noi che ancora attendiamo
di sapere quali siano le parole giuste da scrivere e quale fu la storia che quel terribile 19 luglio 1992 trascinò nel suo gorgo malefico le loro vite.

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