Quel giorno che interrogai Pertini al Quirinale

22 Ottobre 2013

Riproponiamo oggi la testimonianza dell’ex giudice e socio di LeG Mario Vaudano (19 novembre 2012), che ricorda il giorno in cui (nel 1984) raccolse la testimonianza al Quirinale dell’allora capo dello Stato Sandro Pertini. E’ già successo nella nostra storia che i presidenti della Repubblica accettino di essere interrogati su pezzi di storia a loro noti.

Riproponiamo oggi la testimonianza  (19 novembre 2012) dell’ex giudice e socio di LeG Mario Vaudano, che ricorda il giorno in cui (nel 1984) raccolse la testimonianza al Quirinale dell’allora capo dello Stato Sandro Pertini. E’ già successo nella nostra storia che i presidenti della Repubblica accettino di essere interrogati su pezzi di storia a loro noti.

Nel 1984, ero giudice istruttore presso il tribunale di Torino, uno dei titolari titolare del ramo più consistente dell’inchiesta sullo scandalo dei petroli (rubricata con il numero 349/81, contro Musselli più 194), e mi trovai a dover sentire a verbale il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini.

In quell’occasione, il capo dello Stato non oppose obiezioni alla nostra richiesta giudiziaria di ascoltarlo come testimone nell’ambito di una indagine che allora occupava le prime pagine dei giornali. Ovviamente seguimmo esattamente la procedura prevista dal codice di procedura penale vigente.

Quando, insieme al il pubblico ministero Vittorio Corsi giungemmo alla conclusione della necessità di sentire l’On. Pertini, chiedemmo al presidente della Repubblica se egli era disponibile a testimoniare, ottenendo in tempi brevissimi una risposta positiva. Insomma, ci fu pieno consenso da parte di Pertini e, tramite contatti telefonici preliminari con il generale Ferrara, allora consigliere per l’ordine democratico e la sicurezza del Quirinale, venne fissato l’appuntamento al Quirinale per il 30 gennaio 1981. Il Pm Corsi quel giorno era impegnato in un altro processo ed io mi presentai da solo. Introdotto alla presenza del Presidente, per riguardo sia alla massima carica rivestita dal testimone sia alla sua età, illustrai preventivamente l’oggetto dell’ interrogatorio e quindi formulai le domande, articolate in tre punti essenziali. Il nome di Pertini, infatti, era emerso casualmente sia da alcuni documenti sequestrati agli imputati, sia in alcune intercettazioni operate sui telefoni degli imputati stessi (in cui si diceva da un lato che il capo dello Stato aveva interesse a mantenere vivo lo scandalo dei petroli per coprirne altri che riguardavano esponenti del suo partito e dall’altro ci si lamentava vigorosamente del suo mancato intervento, come rappresentante storico del PSI, per “frenare” l’attività inquirente dei magistrati di Torino) sia infine in una lettera manoscritta apparentemente a lui indirizzata dall’imputato Bruno Musselli, in cui lo si invitava a intervenire sui magistrati inquirenti per “contenere” lo scandalo.

Il presidente Pertini consultò la documentazione che fu a lui esibita (le carte sequestrate, la trascrizione delle telefonate intercettate e la lettera) e quindi rispose in modo limpido e diretto. Egli affermò di non aver mai ricevuto la lettera, di non aver mai interferito sulle indagini e di essere intervenuto pubblicamente non certo per invitare a soffocare lo scandalo, ma semmai perché i giudici andassero fino in fondo senza guardare in faccia nessuno.

Subito dopo venne redatto un formale verbale che io firmai e che fu ripresentato il giorno dopo al Presidente. Egli lo rilesse e lo approvò in toto: senza controfirmarlo ma dando atto a verbale che esso era perfettamente conforme al suo pensiero e alle sue dichiarazioni orali del giorno prima. Come il magistrato io non gli chiesi di farlo: la presenza come testimone dell’interrogatorio del generale Ferrara valeva quanto una firma. Il tutto durò circa due ore nella prima fase e un’altra ora per la seconda fase.

Per comprendere la situazione, è necessario ricordare che l’inchiesta sullo scandalo dei petroli, divisa poi in tre tronconi, cominciò negli anni Settanta. Nell’Italia settentrionale e centrale, gli inquirenti accertarono un’evasione di imposte di circa 500 miliardi negli anni ‘ 74 – ’78. La vicenda portò alla luce un groviglio di corrotti e di corruttori, di clientele e di sottobosco politico, dietro il quale operavano nascostamente esponenti della classe politica al potere in quel periodo.

Il maxiprocesso di primo grado (156 imputati, 68 dei quali condannati) cominciò il 14 gennaio ’86 e si concluse il 30 giugno dell’anno successivo, dopo 182 udienze. Le condanne furono di 8 anni per l’ ex capo di Stato maggiore Donato Lo Prete, 3 anni e 10 mesi per l’ ex comandante generale della Finanza Raffaele Giudice, 7 anni per il petroliere Bruno Musselli, 8 anni e due mesi per Sereno Freato, 6 anni per Bruno Palmiotti. Successivamente la sentenza fu parzialmente modificata in varie fasi di appello e poi in Corte di Cassazione, principalmente per ragioni legate alla prescrizione intervenuta per alcuni fatti e per alcune differenti valutazioni sull’elemento psicologico del reato (in particolare per la posizione Freato, che fu assolto).

Senza vanagloria,posso dire che fu merito della tenacia dei giudici inquirenti, che resistettero a intimidazioni e tentativi di sabotaggio dell’inchiesta per impedire l’ accertamento delle coperture e delle connivenze prestate da insospettabili personaggi politici, se fu possibile raccogliere prove e documenti inoppugnabili.

Sarà bene sottolineare che in quell’occasione, i giudici istruttori di Torino furono investiti da una serie di insinuazioni e accuse (rivelatesi del tutto infondate) provenienti dai vari ambienti politici. Al punto che essi già allora dovettero rivolgersi al Consiglio superiore della Magistratura per essere tutelati dalle pesanti insinuazioni contenute in discorsi pronunciati davanti al parlamento dall’allora ministro degli Esteri Andreotti. Qualche tempo prima infatti, i magistrati avevano chiesto alla commissione parlamentare inquirente l’apertura di un procedimento nei confronti dello stesso Andreotti e dell’ex ministro delle Finanze Mario Tanassi. Infatti, con riferimento alla nomina del generale Raffaele Giudice a comandante della guardia di Finanza, i giudici di Torino era stata formulata per i due uomini di governo la sussistenza dei reati di interesse privato in atti d’ufficio e corruzione. Ma alla fine il Parlamento decise di non procedere. In realtà già due anni prima (come giudici istruttori nella prima tranche del medesimo processo) avevamo trasmesso una dettagliata denuncia nei confronti dei medesimi uomini politici ed in particolare dell’On. Andreotti, per aver utilizzato i servizi segreti militari (SID, all’epoca) per fini privati, come era emerso chiaramente dal dossier “Mi.Fo.Biali” sequestrato in copia presso l’abitazione del giornalista Mino Pecorelli, subito dopo il suo assassinio nel 1979. Il reato era solidamente provato, perché poco prima di trasmettere gli atti al Presidente del Parlamento (l’On. Nilde Iotti, all’epoca) era stata resa una dettagliata deposizione dal Capo del SID, Ammiraglio Casardi ed effettuato un confronto con lo stesso On. Andreotti in cui l’ammiraglio Casardi aveva confermato punto per punto la condotta tenuta da questi, specificando che anche quando lo stesso Andreotti non era più ministro competente per la guardia di Finanza aveva imposto al SID di tenerlo al corrente degli sviluppi. Ma in quella prima occasione la reazione della Presidenza della Camera e poi del Parlamento fu ambigua e non si arrivò nemmeno in aula. Bisogna purtroppo dire che l’atteggiamento del PCI in quella circostanza fu parzialmente determinante per non arrivare alla messa in stato d’accusa. Allorché, come detto poco sopra, la cosa fu riproposta nel 1984, si arrivò invece alla votazione in aula anche grazie al mutato comportamento dello stesso PCI, ma alla fine la risposta del Parlamento fu nuovamente negativa.

D’altra parte non mancarono certo le denunce calunniose, le manovre di ricusazione artificiose a getto continuo e ogni sorta di ostacoli nel corso di quegli anni e di quei processi.

La solidità e l’unione dell’ufficio istruzione di Torino dell’epoca, diretto da un anziano partigiano e militante di “Giustizia e Libertà” (Mario Carassi) permise di reggere a tutte queste difficoltà. In questo si può ritrovare un’analogia “storica” con quello che avvenne qualche anno dopo a Milano, sotto la guida di F. Saverio Borrelli.

In un’ altra occasione, fu il CSM a decidere che il Giudice istruttore non era incorso in alcun illecito ordinando una serie di perquisizioni di cassette di sicurezza (fra le quali quelle del socialdemocratico Giuseppe Amadei) sempre nell’ambito dell’inchiesta sui petroli. Fu l’occasione per un altro noto magistrato e pubblicista (Adriano Sansa) di scrivere uno splendido articolo dal titolo “Hanno capovolto la legge” sul settimanale cattolico più diffuso (Famiglia Cristiana) in cui censurava con chiarezza e passione il metodo di “capovolgere le regole per colpire ed intimidire chi osava agire”, pur nella perfetta consapevolezza di “montare” un’accusa infondata ma che comunque sarebbe servita a “colpirne uno per educarli tutti” .

Come si vede, questi tipi di comportamenti da parte del “potere in carica” sono del tutto simili a quelli che abbiamo potuto constatare negli anni ’90 nei confronti dei magistrati di Milano e Palermo,e ancora oggi per ciò che riguarda le vicende ancora di Milano, Palermo, Taranto e anche l’Aquila.

Non si può affermare nemmeno oggi, con serena coscienza, che il periodo “berlusconiano” che pur ha raggiunto apici di volgarità e di attacchi alla giustizia mai visti, sia l’esclusivo responsabile di questi atteggiamenti ripetuti. Le radici di certe “cattive abitudini” sono infatti lontane, anche se hanno sì subito uno sviluppo abnorme nell’ultimo ventennio. Ma i “semi” e qualche robusto alberello erano già presenti negli anni ’70 e ’80, nella gestione democristiana del potere e nel consociativismo di opportunità, che talora ha caratterizzato anche la condotta di una parte della sinistra fino agli anni ’80 .

Con delle luminose eccezioni di taluni: appunto il Presidente Pertini e poi il PCI della stagione di Enrico Berlinguer tra il 1983 e il 1985 in particolare. Successivamente una certa voglia di “compromesso “ non nobile sembra essere rinato con il periodo dalemiano e forse non si è ancora del tutto spento anche oggi.

Un’ultima considerazione: è mia opinione (del tutto personale) purtroppo e al di là di tanti meriti avuti nel periodo più bui “berlusconiani”, che quel chiaroscuro sia stato presente anche nella vicenda del conflitto con la Procura di Palermo, comunque la si pensi sul merito e sull’esposizione mediatica eccessiva da parte dei magistrati. A mio avviso non può sfuggire al buon senso che certi dialoghi con persone che sono oggetto di una procedura giudiziaria delicatissima (e comunque una procedura giudiziaria in pieno corso) non avrebbero dovuto essere portati avanti e comunque dovevano essere troncati subito e forse nemmeno accettati (e tanto meno “scaricati” sulle spalle di un onestissimo consigliere giuridico, mettendolo in una situazione giuridicamente e moralmente difficilissima per qualunque onesta persona e onestissimo magistrato quale era Loris D’Ambrosio).

* L’autore è ex magistrato e socio di LeG

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