L’importanza di un voto

01 Giu 2016

   Il 2 giugno del 1946 l’Italia è chiamata alle urne per scegliere la nuova forma istituzionale dello Stato. L’esperienza monarchica è archiviata e si offre un’apertura di credito al modello repubblicano. Per la prima volta si concede il diritto di voto alle donne e si elegge un’Assemblea Costituente il cui compito è redigere quella che di lì a poco sarebbe diventata, come direbbe Carlo Azeglio Ciampi, la nostra «Bibbia civile».

   Nell’epoca del disincanto, della volgarità istituzionale e della crescente relativizzazione sui fatti della Resistenza è doveroso rievocare le conquiste culturali maturate nell’immediato dopoguerra. Specie quando nuove forme di apatia politica si alleano con la puntuale retorica del «Monarca», di colui che giura sul significato profondo della Costituzione ma poi non fa nulla per vivificarlo e anzi dà sfogo ad un cinismo travestito da Real-politik.

   Norberto Bobbio, in un bel Dialogo intorno alla repubblica con Maurizio Viroli di circa sedici anni fa, non vede l’urgenza di una grande riforma costituzionale, quanto il bisogno di applicare in maniera «rigida» il più importante testo normativo tenendo conto dello spirito repubblicano custodito in esso. Ai nuovi statisti mancherebbe, a suo parere, la rettitudine morale che guida le personalità del ’46.

   Il voto, per il padre costituente Piero Calamandrei, è l’esito di un processo che annulla la «malattia giovanile»: l’indifferentismo. Se la Costituzione è un documento che polemizza contro il triste passato fascista e contro il male sociale dei tempi presenti, il linguaggio repubblicano e le consultazioni referendarie costituiscono il lievito della democrazia. Occorre tuttavia essere preparati. Il voto, in altri termini, deve essere il coronamento di una cittadinanza consapevole che senta le leggi come una sua intima creazione. La legalità fascista dà invece l’impressione di essere manovrata da un «invasore straniero». Il giurista fiorentino inoltre reputa insufficiente la libertà di fare quel che piace fin quando non si lede la sfera altrui. Serve una libertà più nobile che ci permetta, adottando appositi strumenti, di vigilare sul potente e di esprimere un contributo alla causa di tutti.

   Una piena libertà che, parafrasando Guido de Ruggiero, ci consente di diventare uomini sui iuris, cioè alle dipendenze soltanto dei nostri principi morali. L’illustre storico della filosofia spiega che il principale compito della nuova democrazia sta nella costruzione di uno Stato che sia per davvero la res publica, intenzionata a rimuovere i privilegi e contrastare il più possibile quella che il filosofo americano Harry Frankfurt chiama di recente e con un pizzico di esagerazione «l’intrinseca innocenza morale della disuguaglianza economica».

   Com’è noto, il Partito Liberale, rifondato nel ’43, accoglie con poco entusiasmo le nuove istituzioni democratiche e soprattutto non si pronuncia nella scelta tra Monarchia e Repubblica delegando la decisione alla storia e all’avvenire.

   Guido Calogero e il suo Partito d’Azione non hanno dubbi. La Monarchia ha tradito sia l’Italia sia «la causa per la quale tutto l’antifascismo mondiale combatte contro tutto il fascismo mondiale». Essa «deve andarsene e se ne andrà». La Repubblica, nella prospettiva di Calogero, non può essere simile a quella francese del governo di Vichy né subire le urla populiste di una folla (ochlos) che acclama e continua ad amare il ladro Barabba, mentre disprezza l’autenticità di Socrate o di Gesù. La sua Repubblica, che ha per motto la formula «Giustizia e Libertà», lotta contro ogni pericolo totalitario e mette in scena una politica pedagogica con l’intento di educare allo spirito critico, alla virtù civile e allo stupore nell’ascolto del «tu».

   Aldo Capitini, in una lettera che il 5 giugno del ’46 invia proprio a Calogero, oltre ad esprimere perplessità in merito alla Costituente, perché a suo dire pilotata dal disegno affaristico di una cultura democristiana che non vuole realizzare riforme profonde a beneficio del popolo, rinnova il suo giudizio positivo nei confronti della Repubblica, la quale deve prendere confidenza con le gioie e i tormenti di ogni biografia. Il profeta italiano della nonviolenza istituisce nel ‘44 i C.O.S. (centri di orientamento sociale) col tentativo di promuovere un centro assembleare fondato sugli ideali della «compresenza» e dell’«omnicrazia».

   Carlo Antoni, un liberale critico colpevolmente ignorato, si troverebbe a suo agio in questa cerchia di intellettuali. Il voto acquisisce un valore prezioso in quanto offre all’individuo l’opportunità di raccontare se stesso e di esibire una coscienza civica che lo studioso triestino definisce addirittura d’impronta «religiosa». Il vissuto dell’uomo si può sintetizzare anche in una semplice alzata di mano: un «piccolo gesto» meritevole di assoluto rispetto. Le urne divengono la sede naturale della libertà interiore.

Il 2 giugno di settant’anni fa, come insegnano gli autori menzionati sin qui e di cui si avrà modo di tracciare i profili, rappresenta la solenne promessa di un ideale che andrebbe coltivato ogni giorno. Il suffragio universale e la scelta repubblicana pongono le basi per una rinascita del cittadino sui iuris e introducono gli stimoli necessari per replicare con passione e intelligenza al nuovo tiranno.

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