Ecco perché la Resistenza non finisce mai

23 Apr 2015

Non c’è che un modo per realizzare la Resistenza: ed è quello di continuare a resistere. Di continuare a resistere, ogni giorno, agli allettamenti che ci vengono dagli sbandieratori di facili miti o dagli amanti della confusione mentale; alle passioni incontrollate che ci spingono ora a destra ora a sinistra a seconda degli umori e degli eventi; alla seduzione della pigrizia che ci getta in braccio allo sconforto e ci rende inattivi e indifferenti. Un regime di libertà non si crea coi miti, ma con la chiarezza mentale applicata ai problemi socialmente utili; non si crea neppure con le passioni scatenate, anche se sublimi, ma con la moderazione del giudizio, con il controllo di sé, con la disciplina mentale; e neppure con la indifferenza ma con la partecipazione attiva ai problemi del nostro tempo.

Bobbio Non amo le commemorazioni, perché difficilmente ci si può sottrarre alla tentazione della retorica, della effusione sentimentale, della mozione degli affetti. E non amo in particolare le commemorazioni della Resistenza perché si commemorano volentieri cose lontane e morte, e invece la Resistenza è vicina e ben viva. La Resistenza non è finita. Noi viviamo in una situazione che è la conseguenza della Resistenza e anche coloro che la denigrano o la ignorano non possono fare a meno, in quanto vivono e operano in questa situazione, di accettarne i risultati. […]

Per capire la Resistenza, direi che bisogna prima di tutto sgombrar la nostra mente da un equivoco: che da essa dovesse nascere, tutto d’un pezzo, il nuovo Stato italiano. A coloro che non vogliono  più saperne della Resistenza perché in Italia le cose non vanno come dovrebbero andare, c’è da rispondere che la nostra non sempre lieta situazione presente dipende da una ragione soltanto: che non abbiamo ancora appreso tutta intera la lezione della libertà. E siccome l’inizio di questo corso sulla libertà è stata la Resistenza, si dovrà concludere che i nostri malanni, se ve ne sono, non dipendono già dal fatto che la Resistenza sia fallita, ma dal fatto che non l’abbiamo ancora pienamente realizzata.

Dopo dieci anni cominciamo soltanto ora a comprendere di quali enormi difficoltà sia irta la vita di un regime libero. Abbiamo imparato che un regime di servitù, quand’è giunto al momento della sua esasperazione, si può strozzare in poco tempo, ma la libertà per consolidarla ci vogliono decenni. Per uccidere un malvagio, basta un tratto di corda. Ma per fare un uomo onesto, quante cure, quanti affanni, quanti sacrifici. E poi, qualche volta, nonostante la buona volontà, non ci si riesce neppure. Questa lezione, se l’abbiamo bene appresa, dovrebbe consigliarci un atteggiamento: quello della modestia di fronte ai compiti giganteschi che ci attendono, dell’abbandono di attese messianiche, della serietà dell’impegno nell’opera comune, della vigilanza operosa. Non c’è che un modo per realizzare la Resistenza: ed è quello di continuare a resistere. Di continuare a resistere, ogni giorno, agli allettamenti che ci vengono dagli sbandieratori di facili miti o dagli amanti della confusione mentale; alle passioni incontrollate che ci spingono ora a destra ora a sinistra a seconda degli umori e degli eventi; alla seduzione della pigrizia che ci getta in braccio allo sconforto e ci rende inattivi e indifferenti. Un regime di libertà non si crea coi miti, ma con la chiarezza mentale applicata ai problemi socialmente utili; non si crea neppure con le passioni scatenate, anche se sublimi, ma con la moderazione del giudizio, con il controllo di sé, con la disciplina mentale; e neppure con la indifferenza ma con la partecipazione attiva ai problemi del nostro tempo.

Si dice che per smuovere gli inerti ci vuol entusiasmo, e per suscitare entusiasmi ci vogliono miti.  Ma a me pare che non ci sia nulla di cui valga più la pena di entusiasmarsi che la costruzione di una  convivenza civile, in cui vi sia meno corruzione, meno furberia, meno spirito di sopraffazione, e  maggior rispetto delle opinioni altrui insieme con maggiore riserbo nella espressione delle proprie. La democrazia è una scuola di realtà. Chi vive nelle nuvole ed è prigioniero dei miti non è un buon democratico. L’utopismo può essere una buona arma contro la dittatura. Ma quando la società democratica è costituita o per lo meno è avviata, l’utopismo diventa un ostacolo. Non so quanto il maggior contatto con la realtà che la vita democratica richiede abbia influito sulla nuova arte che si dice realistica. Lascio ai competenti di giudicarlo. Mi limito a constatare che il crollo del fascismo ci ha liberati dalla nuvolaglia di pregiudizi da cui eravamo fasciati e ci ha fatto toccar terra. E questo è per me uno degli effetti salutari della Resistenza. Quanto siffatto spirito realistico possa giovare alla nostra cultura, non ho bisogno di ribadire. Una cultura diretta dall’alto ha paura non soltanto della libera fantasia, ma anche della solida realtà. Del resto fantasia e realtà, che nel linguaggio comune sembrano due termini antitetici, nel dominio dell’arte sono strettamente connessi. Ci vuole ricca fantasia per essere buoni realisti: altrimenti si è dei copiatori. E bisogna aver gusto e senso delle cose reali per avere una fantasia creatrice e non soltanto un’oziosa immaginazione.

In una situazione di oppressione della libertà, la paura della realtà genera due diversi atteggiamenti: quello della cultura ufficiale che la realtà deforma o decora, e nasce la pseudo-cultura dei retori; quello della cultura eretica, che non si vuol lasciar sopraffare e per sopravvivere è costretta ad evadere; e nasce la cultura, inquieta o torbida, dei decadenti. In altra occasione ho parlato di questo impasto di retorica e di decadentismo che fu la cultura in Italia al tempo fascista. Sono stili e modi di sentire connessi tra loro assai più che non si pensi. Sono entrambe forme caratteristiche di antirealismo. Quando si trovano insieme nello stesso personaggio vien fuori il poeta della generazione fascista: Gabriele d’Annunzio. E quando sono separati l’una dall’altro camminano parallelamente ma si tengono per mano. Si passa con fastidiosa monotonia dalla cultura melensa dei retori a quella esoterica dei decadenti o gerarchi o ermetici. Ora, se la società democratica è quella in cui ogni individuo ha il diritto e il dovere di dare il proprio contributo alla vita del paese, ognuno deve prender contatto con la realtà che lo circonda, deve sapere esattamente, senza finzioni e senza illusioni, quale sia la sua posizione e quella degli altri. In una democrazia non si possono tollerare gli assenti. O per lo meno, se un giorno gli assenti dovessero diventare la maggioranza, la democrazia avrebbe cessato di esistere. E se il risultato di questo maggior contatto con la realtà sarà la scoperta di tutti i vizi tradizionali del nostro carattere e di tutte le miserie della nostra storia, l’effetto non potrà essere se non salutare. Purché non ci si soffermi nel compiacimento morboso dei mali, ma ci si adoperi per medicarli. Vi sono due modi di scrutare ciò che vi è di malvagio negli uomini: quello del decadente che se ne compiace e quello dell’illuminista che prende atto e combatte per instaurare un mondo migliore. L’ideale dell’uomo di cultura per una società democratica in cammino non è il decadente ma l’illuminista.

In una bella immagine Albert Camus paragona la storia a un grande circo in cui si svolge da sempre la lotta tra la vittima e il leone. Troppo spesso gli uomini di cultura sono rimasti fuori del circo come se lo spettacolo non li riguardasse. Qualche volta sono entrati, ma si sono seduti sulla gradinata a far da spettatori. E se qualche segno di partecipazione hanno dato, è stato quasi sempre per far l’elogio del leone che ha sempre ragione; e se qualche parola hanno rivolto alla vittima è per spiegarle che il suo destino era quello di farsi mangiare.  Oggi non più. Oggi, dice Camus, gli uomini di cultura devono rendersi conto che il loro posto non è più sulla gradinata ma dentro l’arena. Essi sanno che se la vittima soccombe anch’essi saranno divorati. Sono, come si ripete oggi, impegnati. Impegnati a far sì che nel futuro vi siano meno vittime e meno leoni.

 

La Stampa 23 Aprile 2015

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