Il decreto sicurezza, oramai divenuto legge dello Stato, rappresenta uno spartiacque inquietante nella storia repubblicana. È il prodotto di un governo dalle politiche filibustiere che ha aggirato il dibattito parlamentare, approvando nottetempo la più liberticida tra le recenti normative in materia di ordine pubblico, blindando il confronto parlamentare e aggirando ogni verifica democratica. Non nasce da un’urgenza reale, ma da una costruzione politica della paura. Non risponde a un pericolo sociale effettivo, ma all’esigenza di disciplinare, contenere, dissuadere. Dove i reati non c’erano, li ha inventati. Dove le pene erano già previste, le ha inasprite. Dove la giustizia dovrebbe esigere garanzie, ha introdotto discrezionalità, sospetto, repressione.
Nell’impianto normativo, il nodo concettuale è chiaro: il dissenso diventa pericoloso, la povertà diventa sospetta, il disagio sociale diventa colpa. Si rovescia così la concezione costituzionale della sicurezza, che – come ricordava Alessandro Baratta – non è un diritto autonomo ma un bisogno derivato, legittimo solo in quanto subordinato alla realizzazione effettiva dei diritti fondamentali. La sicurezza dei diritti è la condizione per cui le persone possano accedere a reddito, salute, istruzione, casa, protezione sociale. Al contrario, il diritto alla sicurezza promosso da questa legge è un diritto contro: contro i poveri, contro gli stranieri, contro chi protesta. È il volto penale del neoliberismo maturo, in cui lo Stato abdica al welfare per rafforzare la polizia.
Il testo normativo si muove lungo tre direttrici complementari: la criminalizzazione del disagio e del dissenso, l’estensione della sorveglianza preventiva e la protezione sistemica del potere repressivo. L’articolo 10 introduce un nuovo reato di occupazione abusiva – art. 634-bis c.p. – punito con la reclusione da due a sette anni, pena che eguaglia quella prevista per l’estorsione o la violenza privata. Si tratta di un intervento che trasforma il bisogno abitativo in un crimine, colpendo le fasce più fragili della popolazione senza offrire alcuna soluzione strutturale. L’articolo 13 estende il daspo urbano, conferendo al questore il potere di escludere le persone da intere aree urbane, inclusi i trasporti pubblici, anche solo per fatti non penalmente rilevanti. L’articolo 14 aggrava le pene per i blocchi stradali, prendendo di mira le proteste degli studenti, dei movimenti climatici, dei comitati territoriali. L’articolo 16 penalizza l’accattonaggio, soprattutto se coinvolge minori, mascherando con un intento protettivo una misura punitiva che rafforza l’idea che la marginalità sia un’infrazione all’ordine.
Tutto diventa ordine pubblico, anche le inciviltà. Nessuna urgenza concreta, nessun allarme reale: solo una costruzione politica dell’insicurezza, utile a ridefinire il dissenso come minaccia e la povertà come reato.
Il cuore pulsante di questa legge non è la tutela della cittadinanza, ma la criminalizzazione della protesta, dell’opposizione, dell’esistenza precaria. Si colpiscono indirettamente gli studenti che bloccano le strade, gli attivisti che occupano spazi vuoti, i sindacalisti che scioperano, i migranti che chiedono asilo. Si amplia il daspo urbano, si restringe il diritto alla circolazione, si introducono fattispecie fondate sul sospetto, sull’intenzione, sulla colpevolezza presunta. Il diritto penale viene svuotato delle sue garanzie per essere messo al servizio della disciplina e del controllo.
E nelle carceri si consuma il punto più oscuro. L’articolo 19 modifica gli articoli 336, 337 e 339 del codice penale, aumentando di un terzo le pene per resistenza, minaccia e oltraggio a pubblico ufficiale, e limitando la possibilità per i giudici di applicare attenuanti. L’articolo 20 inasprisce l’articolo 583-quater sulle lesioni a pubblici ufficiali, prevedendo pene fino a sedici anni in caso di lesioni gravissime. Queste misure non rispondono a un’esigenza di giustizia, ma a una logica di rafforzamento istituzionale: blindano l’impunità, delegittimano ogni opposizione, proteggono chi ha potere repressivo. Di fronte a un sovraffollamento drammatico, a una sequenza crescente di suicidi, a rivolte -come quella odierna- che segnalano la disperazione di migliaia di persone recluse in condizioni inumane, la sola risposta del governo è stata criminalizzare ancora di più la protesta, compresa “la resistenza passiva”. Non un atto di clemenza, non un intervento strutturale, ma il silenzio forzato. A confermarlo è il fatto che l’unico investimento finanziario previsto riguarda la copertura delle spese legali per le forze dell’ordine imputate per reati come tortura, lesioni aggravate, falso ideologico. In un Paese in cui oltre 120 agenti sono sotto processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, e in cui le inchieste sul carcere minorile Beccaria parlano di pestaggi, umiliazioni, isolamento e medicalizzazione forzata, lo Stato sceglie di tutelare i carnefici e di silenziare le vittime.
Nessuna risorsa per la rieducazione, per la prevenzione dei reati -magari anche per la prevenzione della violenza di genere- nessun sostegno per il personale educativo, nessuna attenzione per chi vive o lavora dentro gli istituti. Solo repressione, solo vendetta.
Questa legge non è un errore né una svista: è un progetto. Un progetto di riorganizzazione del potere attraverso la paura. Come ha scritto Ferrajoli, siamo di fronte a un “garantismo della disuguaglianza”, che invoca la legalità solo per proteggere i forti e infliggere ai deboli una pena anticipata, un controllo quotidiano, un’umiliazione sistemica. È il trionfo della sicurezza come disuguaglianza codificata: chi è conforme va protetto, chi è marginale va escluso, chi dissente va zittito.
La concezione democratica della sicurezza – quella che Baratta chiamava sicurezza dei diritti – è stata soppiantata da un paradigma disciplinare in cui la protezione è riservata a pochi e la coercizione generalizzata a molti. Il diritto non è più strumento di giustizia, ma atto performativo del dominio. La “sicurezza senza diritti” è il punto in cui lo Stato costituzionale si trasforma in Stato autoritario..
Questa legge non difende la sicurezza: la trasforma in dispositivo di esclusione. Seleziona chi può vivere con diritti e chi può essere punito, chi è cittadino e chi è nemico. E in questa logica, la prima libertà da cancellare è quella di dissentire, perché l’unica sicurezza che conta, oggi, è quella del governo stesso.