Caso Almasri: la ragione di Stato e lo Stato di diritto

Il rispetto delle convenzioni internazionali e delle norme stabilite dal codice penale su favoreggiamento o peculato non può essere superato da decisioni di ordine politico.

Durante la trasmissione “Il cavallo e la torre”, Antonio Di Pietro ha escluso la fondatezza di una indagine penale sul rilascio del generale Almasri, ricercato dalla Corte Penale internazionale per reati gravissimi, in quanto le decisioni della Meloni e dei suoi ministri, come la decisione di non ottemperare al mandato di arresto internazionale, l’espulsione ministeriale per ragioni di sicurezza dello Stato, e il rimpatrio a bordo di un velivolo dei servizi segreti italiani, rientrerebbero nella categoria di “atti politici” e come tali non sarebbero sindacabili dall’autorità giudiziaria. È lo stesso artificio argomentativo che è stato utilizzato dalla difesa di Salvini nel processo Open Arms a proposito del divieto di sbarco dei naufraghi imposto dall’ex ministro. Un processo che si e’ concluso in primo grado con una sentenza di assoluzione di cui non sono state ancora pubblicate le motivazioni. E quindi non è certo un caso se Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano, questi ultimi due neppure parlamentari, hanno nominato come difensore unico nel procedimento davanti al Tribunale dei Ministri, scaturito dalla denuncia dell’avvocato Li Gotti, l’onorevole Giulia Bongiorno, gia’ difensore di Salvini nel processo di Palermo.

Al di là della possibile  qualificazione penale degli atti compiuti dai vari  protagonisti della vicenda Almasri, la nozione di “atto politico” va delimitata per evitare che qualunque atto e qualunque decisione  riconducibili ad organi di governo siano sottratti “a priori” a qualsiasi controllo giurisdizionale, con una dilatazione dei poteri dell’esecutivo che finirebbe per alterare l’equilibrio tra i poteri dello Stato tracciato dalla nostra Costituzione.

La nozione di “atto politico” posto in essere dal presidente del Consiglio o da singoli ministri va ricondotta a quanto ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale.

Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.

Il rispetto di convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese, come lo Statuto di Roma sulla Corte penale internazionale, e delle norme stabilite dal codice penale in materia di favoreggiamento o di peculato non può essere escluso con decisioni “politiche” che si sottraggono a priori a qualsiasi controllo giurisdizionale.

Il procedimento davanti al Tribunale dei Ministri e la autorizzazione a procedere che deve essere concessa dal Parlamento, costituiscono gli istituti di garanzia che assicurano il pieno rispetto delle prerogative dei ministri e della presidente del consiglio, ma anche dei principi di legalità e di uguaglianza ai quali in nome di una superiore “ragione di Stato”, non possono sottrarsi neppure i componenti del governo. Almeno fino a quando si rimane nell’ambito dello Stato di diritto.

Avvocato. Opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse Organizzazioni non governative. Fa parte dell’Associazione Diritti e Frontiere, ADIF. E della rete europea di assistenza, ricerca ed informazione Migreurop oltre a essere componente della Campagna LasciateCientrare.

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