Ascoltatela: la Rete, da questo punto di vista, è uno scrigno prezioso di memoria. Osservatene il tono, la postura, la scansione delle sillabe, lo sguardo come una spada. Leggetela: nel flusso di coscienza trasformato dalla penna di Piero Scaramucci in una storia quasi soltanto di tutti, o nei racconti privati del dopo. Studiatela: perché la lezione lasciata da Licia Rognini Pinelli riguarda ciascuno di noi. Attraversa categorie essenziali come cittadinanza, dignità, coraggio, sacrificio. Quello del farsi carico sulle proprie spalle di tutto il dolore del mondo, di sopravvivere alle guerre e assumersi l’onere del dover ricominciare. Solo che la guerra, in casa Pinelli, entrò in tempo di pace. La dichiarò lo Stato democratico, portando dentro una sua questura un innocente e restituendo un cadavere, la più atroce delle menzogne, la più vile delle infamie.
Oggi la storia della strage di piazza Fontana è scritta nelle sentenze e scolpita nelle pietre d’inciampo. Bomba nazifascista, di mano ordinovista, con compiacenti coperture degli apparati della Repubblica. Ma tra il 12 e il 16 dicembre 1969 si era andata solidificando una diversa soluzione del giallo: bomba anarchica, e quale miglior conferma di quel suicidio, quel ferroviere che si getta dalla finestra per la vergogna della colpa? Non era così, e lo si capì subito. Giuseppe Pinelli, il capro espiatorio delle trame di Stato. Ma un conto fu gridarlo nei cortei, scriverlo nelle controinchieste o riderne – e piangere – davanti alle beffe di Dario Fo. Altro fu sfidare il Potere, opporsi alla sua protervia, querelare un questore, denunciare poliziotti e carabinieri per omicidio volontario. Con gli stessi strumenti dei quali lo Stato di diritto si fa forte: le leggi, i codici, i tribunali.
All’ostilità e ai sospetti delle istituzioni, quelle che le intercettarono il telefono nei mesi precedenti la strage, Licia Rognini era abituata. Avere un marito anarchico era un marchio, soprattutto nell’Italia della contestazione e dei primi movimenti, dei progetti di società nuova di cui Licia ascoltava gli echi nell’appartamento di famiglia a San Siro, tra una tesi di laurea da battere a macchina e gli impegni domestici con le figlie Silvia e Claudia. L’ingiustizia subita e la lunga battaglia giudiziaria costrinsero Licia Rognini a stare su un proscenio pubblico che confliggeva con la sua ritrosia, obbligandola ad ogni apparizione a rinnovare il dolore. Eppure la fermezza, la saldezza d’animo, la limpidezza di gesti e parole fecero breccia nelle coscienze collettive.
Non arrivò giustizia da quelle inchieste e da quei processi. In tanti vissero la sentenza istruttoria D’Ambrosio, quella che si avventurava in congetture e probabilità approdando al “malore attivo”, come una beffa. Pochi ricordano la beffa del giudizio civile: nessun risarcimento per un morto di Stato, anzi condanna al pagamento delle spese processuali. Licia, Silvia e Claudia Pinelli hanno proseguito negli anni la battaglia della memoria e della testimonianza, vincendola molto prima dei tardivi riconoscimenti pur concessi con commozione autentica dal presidente Napolitano. Così Licia è potuta tornare nel suo privato, riguadagnare un po’ di oblio nei suoi ultimi anni al riparo dal mondo. Riposa a Carrara, terra di marmi e anarchici, accanto a Pino. E si può leggere con un sorriso l’epitaffio che le ha dedicato la figlia Claudia. «Oggi si è alzato il vento, il cielo dopo tanti giorni è tornato terso, mentre il vaso con le margherite che ho portato a casa dalla camera ardente si è rovesciato spargendo tutti i fiori. È ora. Ti lascio andare».