In questi giorni così inaspettati e terribili, è cambiato come mai prima il modo in cui ci confrontiamo con noi stessi e, di conseguenza, con la politica. Sul Financial Times del 5 aprile scorso un fondamentale articolo della scrittrice indiana Arundhati Roy ha descritto tutte le nostre paure: “Come si può guardare oggi una cosa qualsiasi – la maniglia della porta, una scatola di cartone, un pacco di verdure – senza immaginare che da essa si diparta uno sciame di questi invisibili, non vivi e non morti corpuscoli informi ricoperti di ventose che aspettano solo di annidarsi nei nostri polmoni? Come si può pensare di baciare uno sconosciuto, di salire su un autobus o di mandare i figli a scuola senza avere paura? Come si può provare un qualsiasi piacere, anche ordinario, senza stare a valutare tutti i rischi?”.
La pandemia del Coronavirus ci costringe a elaborare una differente gerarchia e un nuovo ordinamento delle passioni. La paura incombe sempre più e con essa sorge il desiderio di difendere la propria famiglia e la propria casa, e di espellere (nella migliore delle ipotesi) tutti coloro che in una comunità sono considerati degli estranei. A leggere la descrizione della Roy dell’esodo forzato dei lavoratori più poveri, in maggioranza musulmani, da Nuova Delhi, si sente lo stesso odore rancido dei maggiori genocidi del XX secolo. Le passioni che dominano qui sono quelle selvagge.
Contemporaneamente, e più vicino a casa, si dispiegano le ali della compassione. In tutta Europa, dall’Est all’Ovest, un gran numero di volontari giovani e meno giovani, soprattutto dottori e infermieri, principalmente dei ceti medi, hanno riposto ai richiami dei loro governi e al loro senso del dovere, mettendo a rischio le loro vite per salvare quelle degli altri. In Inghilterra si è descritto questo fenomeno come un’ondata straordinaria di altruismo, che parte dalla microsolidarietà del vicinato e arriva al mondo pericoloso degli ospedali.
A oggi ci sono stati già più di 100 decessi nel personale medico italiano. Molti di questi volontari non vogliono essere chiamati né angeli né eroi. In una fotografia di Fabio Bucciarelli apparsa sulla copertina de L’Espresso del 5 aprile scorso la famosissima Pietà di Michelangelo si trasforma in un’istantanea di un’unità di terapia intensiva. Si tratta di un’immagine indimenticabile.
Perché ho scelto come titolo di questo breve intervento Il mondo alla rovescia? Molti commentatori hanno scritto che nulla sarà mai come prima, che il mondo capitalista è in frantumi, persino che una rivoluzione sia dietro l’angolo. Un editorialista sul Financial Times del 4 aprile sembra ansioso di non perdersi quest’appuntamento con la storia: “Riforme radicali – che ribaltino le principali linee politiche delle ultime quattro decadi – dovranno essere messe sul tavolo. I governi dovranno accettare di avere un ruolo più attivo nell’economia”. Poverini!
Cosa succederà dopo, se la politica continuerà? Una prima risposta potrebbe essere: il fattore tempo è cruciale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra il 1945 e il 1947, i comunisti e i socialisti francesi provarono a fare pressione per ottenere riforme radicali nel paese. Il comunista François Billoux ricorda che il ministro gollista delle finanze inizialmente firmò senza esitazioni; pochi mesi dopo firmò ma protestando; alla fine rifiutò del tutto di firmare.
Sandra Bonsanti ci ha avvertito che non dobbiamo pensare che la situazione attuale sia simile a quella del dopoguerra, 1943-48, e ha ragione. Niente è paragonabile a questo presente. Ma allo stesso tempo dobbiamo essere preparati a muoverci rapidamente, a riunirci appena se ne presenterà l’occasione, a supportare le decisioni del governo ma non acriticamente, a sfruttare al massimo il disorientamento delle classi dominanti, a provare a non accettare un ‘no’ come risposta.
Il tempo è cruciale. Tornando a sfogliare i giornali della grande crisi, quella del 2008, si può riflettere su quanto fossero inizialmente mortificati coloro che ne furono la causa. “Dove abbiamo sbagliato?” era il ritornello che si sentiva in quelle settimane a Wall Street. E la risposta era sempre la stessa: “Abbiamo messo il profitto a breve termine prima di tutto”. Quanto invece hanno fatto velocemente marcia indietro! E hanno salvato le banche! E hanno insistito sulla necessità della restituzione del debito pubblico italiano – una vera e propria sciarada!
Nadia Urbinati giustamente scrive, su La Repubblica del 22 marzo, che i terreni da cui partire di fronte a questa desolazione sono soprattutto quelli del clima e della salute, in un contesto di crescente globalità (e non di globalizzazione). Io vorrei aggiungere che la disuguaglianza, un tema classico della sinistra, a cui il capitalismo non è mai riuscito neanche vagamente a dare un’alternativa convincente, dovrebbe essere il nostro punto di partenza. Dobbiamo chiederci dove le nostre scarse risorse sarebbero meglio impiegate, chi ci dovrebbe guidare nel prossimo futuro, quale sia il miglior posto dove cominciare, e con chi.
Vorrei concludere tornando dove ho iniziato, alle passioni e a Arundhati Roy. Alla fine del suo articolo lei si domanda: “Cosa sarà del mio paese, il mio ricco e povero paese, l’India, sospeso chissà dove tra feudalesimo e fondamentalismo religioso, tra caste e capitalismo, e governato da nazionalisti hindu di estrema destra?”. Lei è convinta che la pandemia sia come un portale, un passaggio da un mondo a un altro, una possibilità di rinascere, di ripensare la ‘macchina del giudizio universale’ che ci siamo costruiti attorno.
Io ho invece il presentimento che torneremo alla “normalità” fin troppo velocemente, e che il riassestamento del 2020 rapidamente troverà il suo posto nei libri di storia. Spero di sbagliarmi.
E riguardo alle passioni, in particolare alla paura? È un’emozione che ci può certamente portare a compiere azioni virtuose, ma storicamente porta sulle spalle un fardello pesante. Dobbiamo essere preparati, meglio che possiamo, alle sue trappole, ai suoi muri e a cose anche peggiori.
(Traduzione di Chiara Stefani)