Caro direttore, non si spara sulla Croce Rossa, non si colpiscono i soccorritori che intervengono in situazioni di pericolo. A questo principio si sono attenuti i belligeranti di molti conflitti della storia recente. Ma il rispetto e l’ammirazione di cui hanno sempre goduto coloro che cercano di salvare vite e alleviare sofferenze sembrano non valere più per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oggetto da settimane di una pesantissima, indiscriminata campagna di denigrazione, vittime di quella “inversione morale” giustamente denunciata da Ezio Mauro.
Allora proviamo a rimettere le cose e i valori al loro posto, nonostante una propaganda assordante che spinge molte voci al silenzio per paura di vedersi investire da insulti e minacce, sulla Rete e fuori.
Le Ong hanno svolto e svolgono un’azione preziosa, in virtù della quale è meno alto il bilancio spaventoso delle morti nel Mediterraneo. Si il 35 per cento delle azioni di soccorso: decine di migliaia di vite messe in salvo. Hanno intensificato la loro azione dopo che, finita Mare Nostrum, si era fatto ancor più grande il rischio di tragedie in mare. Per questo meritano la nostra gratitudine, come la meritano gli uomini e le donne della Guardia costiera e degli altri corpi dello Stato, gli equipaggi dei mercantili e dei pescherecci che non si voltano dall’altra parte. E con loro gli operatori degli organismi umanitari, i giornalisti che rilanciano richieste di soccorso e i rappresentanti delle comunità straniere in Italia che avvisano se loro connazionali stanno rischiando la vita in acqua. Una rete della solidarietà con la quale, prima di diventare Presidente della Camera, ho avuto l’opportunità – oggi voglio dire l’onore – di collaborare, e di cui il nostro Paese deve essere soltanto orgoglioso. Se tra le Ong qualcuna si è comportata in modo non trasparente e ha violato leggi, è giusto che i singoli responsabili vengano sanzionati. Ma è inaccettabile la criminalizzazione di un intero gruppo sociale. Se un chirurgo sbaglia un intervento e fa morire un paziente deve risponderne, ma non per questo chiudiamo le sale operatorie di tutta Italia.
Meritano rispetto le ragioni delle Ong, anche di quelle preoccupate per la presenza di armi a bordo prevista dal codice. Che non significa in alcun modo ambigua equidistanza tra trafficanti di esseri umani e legittime istituzioni democratiche. Va compresa l’esigenza di essere disarmati sempre, comunque e dovunque, perché questo consente loro di operare nelle circostanze più difficili senza prestarsi a nessuna possibile strumentalizzazione del loro ruolo. Neutralità, indipendenza e imparzialità sono condizioni irrinunciabili della loro credibilità.
L’accanimento col quale oggi le Ong vengono indistintamente prese di mira – “l’onda melmosa” di scorie e veleni di cui parla Mario Calabresi – rischia di mettere in secondo piano due grandi questioni.
La prima è la drammatica impotenza dell’Unione europea, che in materia di immigrazione e asilo non riesce ad ottenere dai suoi membri risposte coerenti coi valori civili sui quali si fonda. Sui migranti gli Stati europei stanno innalzando le bandiere degli egoismi nazionali, scaricando sull’Italia doveri di solidarietà che non dovrebbero essere soltanto nostri. E invece di modificare il regolamento di Dublino e riconsiderare il sistema delle relocation, pensano di cavarsela elargendoci ulteriori finanziamenti.
La seconda, decisiva questione che la campagna anti-Ong finisce per oscurare è la condizione attuale della Libia. Ho letto nei giorni scorsi cronache compiaciute per il fatto che finalmente la Guardia costiera di quel Paese comincia a fermare in acqua e riportare indietro i migranti che tentano la traversata. Questo alleggerisce senz’altro il numero degli arrivi sulle nostre coste. Ma non è doveroso chiedersi che fine fanno coloro che tornano in Libia? Perché non si prende atto delle denunce delle organizzazioni internazionali come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che concordemente parlano di centri di detenzione, non di accoglienza, e delle condizioni terribili di angherie e violenze alle quali sono sottoposti soprattutto donne e bambini?
La nostra linea di condotta – della civile Europa – non può essere il vecchio adagio “occhio non vede, cuore non duole”. È proprio per questo che l’azione delle Ong risulta a molti insopportabile. Perché ci ricorda quel dato tragico che le polemiche strumentali di queste settimane hanno rimosso: che nel Mediterraneo si continua a morire. Dall’inizio dell’anno 2600 persone, al ritmo terribile di quasi dodici vittime al giorno. Questo è il problema, non chi cerca di ridurne i costi umani.
E allora dobbiamo “accoglierli tutti”? La risposta è no. Continuo a pensare che il flusso dei migranti vada gestito dall’Italia e – lo ripeto – da un’Europa che deve riuscire a farsi carico delle proprie responsabilità. Una gestione che non può essere basata sull’indebolimento del soccorso in mare. Chi ha diritto alla protezione internazionale deve essere accolto e inserito in un percorso strutturato di integrazione, fatto di diritti e di doveri. Chi non ha diritto deve essere rimpatriato, in base alle leggi vigenti. Ma, di fronte a chi rischia di annegare nel Mediterraneo, il primo dovere è tendere la mano e salvare vite, senza preoccuparsi del passaporto di chi sta affogando.
L’autrice è Presidente della Camera dei deputati
la Repubblica, 12 agosto 2017