Un bicameralismo farraginoso e insulso. Una replica a Pombeni (1)

15 Settembre 2016

Bisogna dare atto a Paolo Pombeni di aver finalmente proposto, dalla parte del Sì alla revisione costituzionale, un apprezzabile tentativo di argomentare nel merito, al quale si può vivaddio replicare nel merito
(http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:3447).

Con due avvertenze preliminari credo utili a restituire un minimo di sobrietà e profondità alla discussione. La prima, forse ovvia ma non troppo: la formazione e il ruolo del Senato sono indubbiamente punti importanti, ma la materia sottoposta a revisione è ben più ampia (sono addirittura 47 gli articoli sottoposti a revisione così che la nostra architettura costituzionale viene di fatto riscritta). Pertanto, anche se il Senato disegnato dalla revisione fosse davvero quel che Pombeni crede che sia ma secondo me non è, cioè un ragionevole compromesso fra molte esigenze diverse che introduce in Costituzione una “camera di riflessione” o “di garanzia”, ciò non sarebbe di per sé solo sufficiente a giustificare l’approvazione dell’intera revisione.

La seconda: se finora c’è stata una parte che ha usato argomenti demagogici al limite del ridicolo – a partire dall’assicurare mirabolanti successi economici o grandi risparmi se si imporrà il Sì profetando invece tragici destini per la nostra nazione in caso di vittoria del No – questa è sicuramente stata la parte favorevole alla revisione. Non mi dilungo, ma se vogliamo andare alla ricerca di “stranezze” propagandistiche pare assai più fertile il campo del Sì.

L’argomentazione che Pombeni considera una “stranezza”, anzi una stranezza oltremodo singolare, va innanzitutto ricostruita correttamente. Si è detto, in effetti, che piuttosto di avere un Senato così disegnato sarebbe stato meglio abolirlo. Dalla parte del No non si è detto apoditticamente: aboliamo il Senato perché il monocameralismo è comunque superiore. Insomma, l’argomento, riportato nella sua interezza, è stato: meglio un monocameralismo ben congegnato che un bicameralismo tanto farraginoso e insulso. Tant’è vero che proposte che rispondessero all’esigenza, di per sé condivisibile, di una “camera di riflessione” non sono mancate.

Gustavo Zagrebelsky, per esempio, ha reso pubblica una sua lettera indirizzata al ministro Boschi il 4 maggio 2014 in cui, oltre alle osservazioni critiche sul testo della revisione, si avanzava la proposta di un Senato, composto da due eletti per ogni regione, da intendersi proprio come “camera di ripensamento”: “Il senato, nei casi – si presume di un numero assai limitato, ma non elencabili a priori – in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti la cui tutela è sua responsabilità primaria, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Qui ci sarebbe la funzione di garanzia come ‘camera di ripensamento’, insieme allo snellimento delle procedure in tutti i casi in cui il doppio esame non appare necessario” (Loro diranno, noi diciamo, Laterza 2016, p. 32).

Le ragioni per cui si può definire il bicameralismo del ddl Boschi farraginoso e insulso si compendiano nel nuovo art. 70 che regola la formazione delle leggi prevedendo ben dieci possibili diverse procedure, con il rischio concreto che quest’assurda complicazione sfoci in conflitti istituzionali non facili da ricomporre. Vorrei tuttavia prendere al meglio il quadro idilliaco dei rapporti tra le due camere proposto da Pombeni, facendo come se le difficoltà che si possono riscontrare fossero superabili e attribuibili più a una incoercibile natura di “gufo” che mi preclude un esame obiettivo della realtà.

In sintesi, secondo Pombeni, il nuovo Senato assolverà magnificamente, e all’altezza dei tempi, al ruolo che, secondo il costituzionalismo classico, deve ricoprire un Senato in quanto espressione della volontà della nazione che affianca e corregge quella del popolo (chi ingenuamente pensasse che in una democrazia, sia pure indiretta, la volontà o sovranità del popolo e della nazione coincidono se ne faccia una ragione).

Scrive Pombeni: “La tanto vituperata riforma Renzi-Boschi […] sottrae il Senato al pieno dominio delle dinamiche partitiche attraverso vari meccanismi: 1) non gli conferisce il potere di entrare nel gioco politico della fiducia/sfiducia al governo, per cui viene meno l’incentivo alle critiche strumentali verso l’assetto governativo vigente; 2) lo forma attraverso un complesso meccanismo per cui esso non si rinnova in parallelo con la Camera, ma lo fa in corrispondenza delle varie elezioni regionali (il che significa che si rinnova di continuo e in tempi diversi); 3) lo lega alle dinamiche di formazione delle classi politiche a livello regionale, cioè in modo non coincidente con le dinamiche nazionali che dominano nei partiti per la gestione delle elezioni alla Camera dei deputati”.

Ammettiamo per un momento che questo meraviglioso mondo si realizzi, e che quelli che appaiono evidenti punti di debolezza (il rinnovo continuo dei senatori in tempi diversi, il loro essere a mezzo servizio in quanto prima di tutto sindaci o consiglieri regionali, il non essere affatto chiaro in che modo avverrà la loro elezione indiretta, se tale sarà) siano in realtà punti di forza. Ammettiamo che così sia, che non ci siano effetti perversi – tra i quali trascuriamo caritatevolmente il fatto che la classe politica regionale cui la riforma del 2001 aveva dato maggiori poteri si è mostrata di una pochezza imbarazzante – a rendere torbido ciò che così limpido appare a Pombeni. Restano, mi pare, tre obiezioni  importanti. Due, per così dire, interne a questo ragionamento e una esterna a questa prospettiva, ma molto interna alla democrazia rappresentativa presa sul serio.

La prima obiezione riguarda le ragioni per cui le dinamiche partitiche non dovrebbero affettare il nuovo Senato. Forse che i nuovi senatori non si raggrupperanno secondo le stesse appartenenze politiche che strutturano la Camera dei deputati? Forse l’unico modo per realizzare un’assemblea al di fuori delle dinamiche partitiche è che i senatori rappresentino i territori e siano nominati dagli esecutivi, non scelti dai legislativi, e operino con vincolo di mandato, come avviene in Germania.

La seconda obiezione è ancora più semplice: se alla Camera dei deputati un partito dovesse ottenere la maggioranza assoluta, il Senato non avrà che una funzione decorativa, in quanto l’ultima e decisiva parola spetterà sempre e comunque ai deputati. Si potrebbe obiettare che per evitare questo problema basterà correggere la legge elettorale nota come Italicum, la quale è stata concepita proprio per dare artificialmente la maggioranza assoluta a una lista: mi auguro che l’esame della Consulta corregga questa stortura antidemocratica, ma rispetto alla funzione del Senato il difetto rimarrebbe comunque.

Infatti, qualora un partito ottenesse alla Camera la maggioranza assoluta mediante una legge elettorale non distorsiva della rappresentanza, il Senato risulterebbe un legislatore superfluo. Si tratterebbe solo di avere un po’ di pazienza: una volta ascoltate con buona creanza le eventuali lamentazioni dei senatori, si potrà comunque procedere all’approvazione delle varie leggi. Chi sono allora i veri sostenitori di un sistema tendenzialmente monocamerale?

La terza obiezione si può esprimere riprendendo le parole di John Locke, da Bobbio considerato un antesignano del costituzionalismo. Nel riassumere i limiti di un potere legislativo “costituzionalizzato” Locke tra l’altro scrive: “il legislativo non deve né può trasferire ad altri il potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle cui l’ha affidato il popolo” (Secondo trattato sul governo civile, §142).Locke ritiene inammissibile la delega della delega ricevuta dai rappresentati, al punto da considerare questa situazione una delle ragioni valide per azionare il diritto di resistenza.

In conclusione, se conterà poco o nulla nel legiferare, allora il nuovo Senato potrà pure essere scelto indirettamente: se invece conterà qualcosa, l’elezione indiretta prefigura la realtà di un suo chiaro deficit democratico, non dissimile da quello che affligge dall’origine, contribuendo a renderla fragile, l’Unione Europea.

(1) Una versione più breve di questo scritto è stata pubblicata su “La Rivista del Mulino” (http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:3469).

(*)  Professore di Filosofia politica presso l’Università della Valle d’Aosta.

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