Dalla parrocchia di San Paolo a Siracusa (che, seguendo le indicazioni della Cei, indice una discussione pubblica) fino al presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi (il quale ricorda che «si deve votare» per essere «pienamente cittadini» ), una parte del Paese si prepara a giocare, domenica prossima, la partita del referendum sulle trivellazioni petrolifere. Una partita davvero importante: perché può indirizzare non ‘solo’ la politica energetica del Paese, ma anche dare una indicazione fondamentale per la qualità della nostra democrazia.
Il quesito è, come è noto, l’unico sopravvissuto di un pacchetto voluto da nove regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) per combattere la svolta centralista sancita dalla più discutibile fra le leggi del governo Renzi, lo Sblocca Italia firmato dall’allora ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi. Con questa legge il governo centrale ha spogliato le regioni ‘petrolifere’ del potere di decidere del proprio destino: per le estrazioni in terraferma, per esempio, è stato introdotto un titolo concessorio unico rilasciato dal ministero dello Sviluppo economico, mentre per le procedure di valutazione d’impatto ambientale relative ai permessi di ricerca e alle concessioni di coltivazione la competenza è passata dagli enti locali al ministero dell’Ambiente.
Per queste e altre analoghe ragioni i Consigli regionali hanno raccolto una spinta dal basso: 65 – su 131 – Comuni lucani hanno, per esempio, chiesto alla giunta regionale della Basilicata di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale l’articolo 38 dello Sblocca Italia.
In questo senso, il referendum di domenica prossima è una specie di prova generale di quello oppositivo di ottobre sulla revisione costituzionale. Uno dei tratti meno commentati di quest’ultima è l’abbandono di un progetto federalista e la correzione del Titolo V in senso decisamente centralista, riservando esclusivamente allo Stato materie come trasporto e navigazione, comunicazione, energia, promozione della concorrenza, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro, politiche sociali, istruzione e formazione professionale.
Lo storytelling del ‘fare’ e dello ‘sbloccare l’Italia’ caro al presidente del consiglio presenta questa scelta come l’asfaltatura dei «comitatini del no» e il superamento della sindrome NIMBY (acronimo di Not in My Back Yard: «non nel mio cortile»). Ma il mondo della cittadinanza attiva ribatte che l’attenzione alla salute umana e la sollecitudine per la sopravvivenza dell’ambiente sono necessariamente legati alla ‘mente locale’ (così Salvatore Settis) delle comunità residenti.
Da questa parte si è schierato anche papa Francesco, con un passaggio particolarmente forte della enciclica Laudato sii: «È sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative. Ma nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di “interventi” sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante. C’è bisogno di sincerità e
verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione».
Queste ultime parole toccano il punto cruciale: se si vuole davvero ricomporre gli interessi locali in un interesse pubblico generale lo si può fare solo in «sincerità e verità».
Non si possono esautorare dal processo decisionale le comunità locali, facendo saltare tutti i contrappesi al potere centrale, e contemporaneamente dare l’impressione (o la certezza) che le decisioni di quest’ultimo potere non siano ispirate da un vero, largo interesse generale, ma da interessi privati che non emergono nel dibattito parlamentare, ma solo nelle interecettazioni telefoniche di membri dell’esecutivo. L’emendamento Tempa Rossa non è, in questo senso, un caso isolato perché le carte dell’inchiesta fiorentina sulle Grandi Opere (che costò la poltrona a Lupi) hanno già dato uno spaccato impressionante della genesi della sezione dello Sblocca Italia relativa alle autostrade.
In una democrazia moderna si possono, e si devono, rivendicare le ragioni del ‘fare’: ma bisogna essere del tutto sinceri, trasparenti e verificabili su ciò che si vuole fare, e sulle ragioni per cui ciò rappresenterebbe il bene comune.
Per questo una stretta centralista non dovrebbe mai accompagnarsi alla tentazione di limitare l’azione della magistratura o il campo visivo della stampa, e dunque dei cittadini. E per questo il sì al referendum di domenica prossima è anche un sì alla necessità di «sincerità e verità» nel governo del Paese.
la Repubblica, 16 aprile 2016