Sui temi migratori si prospetta un rientro caldo. Oltre alle polemiche sulla gestione dei flussi di rifugiati e irregolari che certo non si placheranno, a settembre si riaprirà anche la discussione sulla riforma della cittadinanza.
Il fronte dei riformatori ha ridotto le proprie ambizioni e ha deciso di concentrarsi solo sui minori anche per evitare che la riforma diventasse un’altra opportunità di consensi elettorali offerta ai partiti anti-immigrati. Un sondaggio di Demopolis del 2014 dà infatti un buon 61% a favore della cittadinanza per i bambini nati in Italia. Questa mossa al ribasso non ha tuttavia evitato reazioni negative.
Per tentare di raffreddare il clima politico, almeno su questo tema, possiamo guardarci intorno, in Europa. Una ricerca effettuata in 36 Paesi europei ha osservato una tendenza a convergere: i più severi si aprono, i più generosi mettono qualche paletto. L’Italia sta ferma sulla chiusura. Quanto al testo base adottato dalla Commissione Affari Costituzionali, molti Paesi europei prevedono misure simili rispetto ai figli di immigrati stabili.
Secondo quel testo, l’opportunità di essere riconosciuti come concittadini verrebbe data solo a chi avesse un genitore regolarmente residente da almeno 5 anni. Se il bambino non fosse nato in Italia, ma vi fosse arrivato prima dei 12 anni, dovrebbe aver completato un ciclo scolastico di 5 anni. Se arrivasse dopo quell’età, il tempo di istruzione o formazione rimarrebbe lo stesso, ma si richiederebbero anche 6 anni di residenza e la concessione sarebbe discrezionale. Ovviamente i Paesi europei che seguono questa linea prevedono tempi e requisiti diversi.
In Spagna, basta un anno di residenza del bambino. Nel Regno Unito, si pretende dal genitore un permesso di soggiorno permanente che si ottiene di solito dopo 5 anni di residenza regolare. In Germania, gli anni sono 8, ma il genitore deve avere una carta di residenza stabile che si ottiene dimostrando una competenza linguistica abbastanza elevata. In compenso, la riforma tedesca del 2014 ha abolito l’obbligo di rinunciare a un’eventuale seconda cittadinanza per i nati in Germania con 8 anni di residenza e 6 di istruzione.
Per valutare l’accesso alla cittadinanza dei figli di stranieri bisogna tener conto del fatto che la cittadinanza si ottiene anche per trasmissione da parte di un genitore (per ius sanguinis), quindi una difficile naturalizzazione degli adulti ricade sui minori, che possono trovarsi di fronte a una doppia chiusura: nei confronti loro e dei genitori. È il caso dell’Italia, che per gli adulti ha tempi di residenza richiesti (e tempi per sbrigare le pratiche) tra i più alti.
La scelta accomodante del fronte riformatore di concentrarsi sui minori potrebbe quindi non rivelarsi un buon affare. D’altra parte, la richiesta da parte delle opposizioni di destra di richiedere maggiori segnali di integrazione mostra una certa perdita di memoria. Gli indicatori di integrazione non possono riguardare gli appena nati, e per gli altri minori arrivati dopo la nascita i 5 anni di istruzione nelle scuole italiane dovrebbero costituire una rassicurazione sufficiente.
Quel che si può semmai dire è che per i più adulti sarebbe opportuna una valutazione di buona condotta. Se volessimo davvero porre al centro il tema della integrazione, si dovrebbe comunque guardare ai genitori. I 5 anni di residenza regolare previsti dal progetto dovrebbero bastare se un provvedimento voluto proprio dal centro-destra funzionasse sul serio. In base all’Accordo di Integrazione, approvato nel 2009 e in vigore dal 2012, la concessione del permesso di soggiorno richiede l’adesione alla Carta dei valori voluta da Amato nel 2007, l’impegno a frequentare un corso di educazione civica e a imparare l’italiano. L’apprendimento viene testato ed è una condizione per il rinnovo.
Chi si preoccupa, ora, in occasione del dibattito sulla cittadinanza, dell’integrazione degli immigrati dovrebbe quindi concentrarsi sulle prime fasi dell’integrazione: valutare l’efficacia dei corsi, migliorarli, renderli fruibili. Non mi pare che sia successo. Inoltre, ai regolarizzati per decreto, che non sono stati pochi, non si è chiesto di firmare l’Accordo di Integrazione. E al governo non c’erano i famigerati buonisti…
La Stampa, 17 Agosto 2015