La domanda di Veca: “Ma il Pd fa politica o affari?”

03 Febbraio 2012

Il filosofo Salvatore Veca, garante e direttore delle scuole di LeG, parla del Partito democratico, delle sue contraddizioni e conflitti interni, dei casi di corruzione tra i suoi membri. Il Pd deve recuperare il capitale di fiducia delle persone. E poi, chiarire gli obbiettivi, ritrovarli. E riprendere

Salvatore Veca è stato per anni il “filosofo di riferimento” della sinistra moderata. Ha inventato la parola “migliorista”, per definire la corrente riformista che faceva capo, nel Pci, a Giorgio Napolitano. Con Linkiesta parla di un capitale di fiducia che si sta dissipando e di un problema di sistema nel rapporto tra Pd e potere economico. E di un partito, in generale, che paga l’essere stato, sostanzialmente, una fusione tra due consigli di amministrazione. Mentre infuria la polemica, riproponiamo la nostra intervista sul Pd e la questione morale.
Era alla presentazione della Scuola di Cultura Politica, a Milano. Salvatore Veca ha applaudito alla riapertura di una scuola per la politica (alla seconda edizione, alla Casa della Cultura, al weekend, con discussioni e tutorial) che ritiene «necessaria per comprendere i fenomeni, sempre più complessi della realtà globale». Un’iniziativa che colma una lacuna, e apre una speranza, anche per un nuovo interesse per la politica. Anche non subito: «sono cose che danno risultati sul medio, o sul lungo termine». Si tratta di restituire al Paese un centro di riflessione, di studio e comprensione di un mondo che cambia. Ma in tutto questo, Veca, professore ordinario di Filosofia Politica all’Università di Pavia, ha accettato di discutere con Linkiesta l’anima del Partito Democratico. Lui che ha inventato la parola “migliorista” per definire la corrente moderata che, nel Pci, faceva capo a Giorgio Napolitano discute del Partito Democratico in cerca di una bussola, proprio mentre il berlusconismo vede il suo crepuscolo.
Professor Veca, a proposito di medio e lungo termine, lei ha visto nascere il Pd, che ora attraversa una crisi di sempre, di unità, di immagine e di strtegia. Dove è stato l’errore? Di chi?
Io il progetto del Partito Democratico l’ho seguito da dentro, l’ho votato, ero d’accordo. Però è nato come fusione di due componenti politiche, storiche, ideologiche diverse. È un dato di fatto, leggibile nel suo Dna. Qui è il problema: nato dall’alto. Il modo in cui è accaduto ricorda un consiglio di amministrazione: ecco. Il Pd è il risultato della fusione dei consigli di amministrazione di due partiti. E i risultati sono questi.
Quali?
L’unione non ha dato luogo a quel “meticciato di identità”. Hanno mantenuto differenze di matrici, di identità e, soprattutto, di obbiettivi. Dovevano contaminarsi, non l’hanno fatto. C’è un obiettivo comune? No. E in tempi di crisi, invece che unirsi e fare fronte comune contro le tempeste, si dividono. Sono rimaste le identità di una volta.
È così grave?
Sì. Come può essere un attore politico efficace, se non ha unità? L’ho detto anche a Rosy Bindi: non contano i motivi che stanno alla base delle scelte, contano i fini. E qui mancano. Ma mancano anche tra i “giovani” del partito, che poi tanto giovani non sono. Voglio dire: molti di loro hanno vissuto il passaggio dai Ds al Pd, alcuni addirittura del Pci. E anche la cooptazione, chi la fa? Chi viene cooptato? Non c’è mobilità sociale, in Italia. E lo stesso accade nel Partito Democratico: è un luogo di densità, non si fa strada con facilità, se non si ha dietro una storia. E questo, per certi versi, non è sempre un male. Però dà origine a meccanismi che possono essere distorti. Più in generale, il problema profondo è che non si riesce più ad avere un orizzonte comune. Questo provoca mancanza di fiducia da chi sta fuori. E dovrebbe essere un motivo di riflessione seria: per coerenza, per serietà. Cos’è che divide?
Tante cose. Ad esempio…
Tante. Si litiga su tutto. Sul referendum, sulla partecipazione alla manifestazione della Cgil, sulle alleanze. C’è chi vuole andare con il Terzo Polo. E chi preferisce l’unione con Nichi Vendola e Di Pietro. E allora si litiga.
Sì. E poi ci sarebbe anche la questione morale..
Già. C’è anche quello, e c’è poco da discutere sulla questione. Io ho sempre pensato che Filippo Penati andava espulso, allontanato dal partito.
Tutta colpa di Penati?
No. È un problema di sistema. La responsabilità individuale c’è, certo. Ma in questi casi, si possono cambiare gli individui, però il sistema permane, uguale. Occorre cambiare altro, interferire nel sistema che unisce politica e affari.
Sì, ma adesso il sistema c’è. E c’è dentro anche il Pd.
Sì, è drammatico. Anche perché disperde fiducia, e il Partito Democratico ha bisogno di questo capitale, che è fondamentale. È importante, anche perché serve, o serviva, per distinguersi dalla destra.
Il Pd non è più il partito di persone migliori?
Che posso dire? Sul caso Penati la reazione dell’establishment è stata tardiva. Anche troppo. E poi..ecco..Bersani è un ottimo uomo di governo. Sia come presidente della Regione, che come ministro. Però, a quei livelli, è possibile che non avesse sentore, conoscenza? È drammatico. Sì. In politica girano o soldi o fiducia. Se dilapidi quella, è una catastrofe.
Insomma, Pd paga il giustizialismo che ha sostenuto, in questi anni, contro Berlusconi, insieme all’Idv?
Sì. Lo rende più vulnerabile. È grave se hai fatto una cosa del genere. Ma lo è ancor di più se hai fatto del “giustizialismo” una bandiera. E poi, dall’altro lato, hai una coalizione di corrotti, condannati. Il capo è un sex-addicted. Ma di qua, c’è un fenomeno persistente di sistematica collusione tra politica e affari. Le cose vanno chiamate con il loro nome.
E nel Pd la situazione è questa.
Sì. Ad Agosto Luigi Berlinguer aveva detto che “la moglie di Cesare dev’essere al di sopra di ogni sospetto”. Ecco, il Partito Democratico dev’essere come la moglie di Cesare.
E, per il futuro cosa si potrebbe fare?
È difficile. La storia alla base è complicata. Si dovrebbe senz’altro intervenire su questo sistema, evitare le collusioni, senz’altro. E anche una selezione più attenta agli uomini. E poi, in generale, dopo il crollo di un mondo politico antico, evitare di interpretare la politica, ormai priva di un fondamento ideologico forte, come un’attività in cui si può , diciamo, massimizzare. Il Pd deve recuperare il capitale di fiducia delle persone. E poi, chiarire gli obbiettivi, ritrovarli. E riprendere.

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