La mattina del 30 aprile 1982, in un agguato mafioso (commissionato dalla cosca Riina-Greco-Provenzano, tutti acciuffati tanti anni dopo), erano assassinati a Palermo il dirigente e parlamentare comunista Pio La Torre ed il suo stretto collaboratore Rosario Di Salvo. Li avevano trucidati con raffiche di mitraglietta e diecine di pistolettate. Una infame vendetta contro l’uomo che con intelligenza, con determinazione e con enorme coraggio aveva voluto lasciare la segreteria nazionale del partito e si apprestava anche ad abbandonare il seggio a Montecitorio per tornare nell’Isola – lui che un ruolo di dirigente politico nazionale se l’era guadagnato con le grandi lotte contadine del dopoguerra, nella campagna contro la base missilistica di Comiso, nella intransigente battaglia contro il gruppo di potere dc che aveva massacrato la sua città e che a sua volta verrà ferocemente eliminato – e qui riassumere l’incarico di segretario regionale del Pci nella consapevolezza della gravità della situazione siciliana. Parlo della terribile stagione di attentati politico-mafiosi che spazza via presidenti di regione e prefetti, ufficiali dei carabinieri e vicequestori, altissimi magistrati e giornalisti.
Il ritorno a casa di Pio aveva messo in allarme molte centrali, in primo luogo quelle del crimine. Tutti sapevano che all’Antimafia e in Parlamento si stava lavorando per trasformare in norme operative una sua proposta, devastante non solo per le cosche siciliane ma anche per ‘ndrangheta e camorra: non solo l’istituzione ex novo del reato di associazione mafiosa a delinquere, ma anche e soprattutto (letteralmente una “invenzione” di La Torre) la legge sul sequestro dei beni illegalmente acquisiti dalla criminalità organizzata.
L’agguato non darà tempo a Pio La Torre di vedere definite e messe nero su bianco le sue proposte (ci penserà, con grande tempestività e assoluta onestà, il ministro dell’Interno pro-tempore, Virginio Rognoni), ma le bande criminali scontano ancora oggi, e continueranno a scontare, gli effetti di quelle intuizioni diventate leggi dello Stato appena quattro mesi dopo l’agguato.
Sia chiaro: pur scontato (senza retorica) che il sacrificio straordinario e in qualche misura preveggente di Pio non è stato vano, non è invece affatto scontato ricordarne continuamente lo spirito di abnegazione che sottende. Quanti ricordano qualcosa di Pio? Quanti sanno, tra i giovani, o ricordano, tra i meno giovani, di quanto sangue (non quello dei criminali, per carità, ma di capilega e braccianti, di dirigenti politici, di imprenditori che dicevano no al pizzo) è bagnata questa Sicilia considerata anche da intellettuali illuminati come “irredimibile”?
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