Democrazia, cittadini e libertà

15 Marzo 2008

“Democrazia” è un termine antico del nostro lessico civile e dei nostri vocabolari di moralità e politica. Entro la nostra tradizione, il termine ha designato in modo persistente un tipo di regime politico, differente da altri. Come sappiamo, un regime politico è un’espressione che indica molte cose: un particolare modo di acquisizione e di esercizio del potere politico come potere di governo su una determinata comunità, definita da confini; un particolare processo o un particolare insieme di procedure per pervenire a scelte collettive, vincolanti erga omnes; un particolare assetto delle istituzioni fondamentali della società, a partire dagli elementi costituzionali essenziali; una particolare mappa delle sfere sociali e dei poteri sociali; un particolare insieme di diritti e di doveri di cittadinanza democratica.Questa sommaria presentazione di alcune caratteristiche che ci consentono di identificare un regime politico come un regime politico democratico indica già che la mia conversazione verterà su alcuni aspetti e alcuni dilemmi che sono propri della democrazia rappresentativa pluralistica o poliarchia e si propone, quindi, di mettere a fuoco sfide e questioni che riguardano più da vicino quell’insieme di regimi politici che, dalle nostre parti, nella recente vicenda del secolo appena concluso, sono stati l’esito, dopo tutto contingente, di una complessa gamma di tentativi, conflitti, compromessi e processi. Una gamma in cui si sono variamente intrecciati interessi, poteri e ideali.

La democrazia, in parole povere, è quanto siamo riusciti più o meno brillantemente a costruire, cammin facendo, entro le circostanze del conflitto della modernità. Si osservi che l’accento sulla contingenza non riduce l’importanza che la democrazia ha o ha acquisito per noi; non riduce la nostra lealtà al valore della forma di vita democratica. Ci induce solo a vedere le cose in modo situato. A esaminare i nostri dilemmi e le nostre questioni con la consapevolezza del carattere storico e delle circostanze contingenti, in cui possiamo anche dire che la democrazia è quanto siamo riusciti a fare di meglio, date certe circostanze di sfondo. In un mondo, come io lo chiamo, di incessante deformazione, è naturale dopo tutto porsi la domanda elementare sulle trasformazioni della democrazia nelle circostanze del più ampio mutamento di cui siamo, insieme, osservatori e partecipanti.
Cominciamo considerando due tessere fondamentali che compongono il mosaico dello sfondo democratico nel nostro recente lessico civile. La prima tessera riguarda l’idea dell’eguaglianza democratica e si basa su un assioma di individualismo normativo: in quanto partner della cittadinanza democratica le persone hanno diritto a eguale considerazione e rispetto e ciascuno vale almeno quanto ciascun altro. La seconda tessera riguarda il pluralismo in due sensi distinti: il pluralismo dell’arte della separazione fra sfere e poteri sociali come presupposto, e il pluralismo come libera arte di associarsi come esito.

Con una premessa fondamentale, che dovremo richiamare costantemente: la combinazione di individualismo e pluralismo, che ha variamente luogo nella istituzione e nel consolidamento nella durata di regimi e processi democratici, ha in ogni caso luogo entro il contenitore dello stato territoriale moderno o, se si preferisce, entro lo stato-nazione. Si consideri che l’insorgenza di regimi democratici – per come l’abbiamo conosciuta, cammin facendo – presuppone lo sfondo dello stato come monopolista della forza legittima e dei fini collettivi di lungo andare della comunità politica.Per semplificare le cose, identifichiamo nella prima tessera, quella dell’individualismo normativo, il pezzo liberale degli arrangiamenti democratici. Diciamo, per convenzione, che il pezzo liberale è quello propriamente costituzionale: esso definisce la cornice, stabile nella durata e immunizzata rispetto all’incertezza, entro cui devono avere luogo il processo democratico di acquisizione ed esercizio del potere politico e la procedura di scelta e decisione collettiva. La cornice e la procedura: ecco un primo punto importante per rendere conto della complicata costruzione del regime democratico. La cornice, come ho sostenuto in Dell’incertezza, fissa cose come i diritti fondamentali di cittadinanza e assegna poteri e spazi propri alle istituzioni di base della società. Così facendo, diritti e poteri sono sottratti e resi indisponibili al contingente calcolo sociale degli interessi e al potere delle maggioranze.

Consideriamo ora quali effetti la cornice genera sulla procedura di scelta democratica. Adottando la terminologia della teoria della scelta collettiva, possiamo dire che la cornice, il nostro pezzo liberale, limita o vincola il dominio delle alternative fra cui una maggioranza può legittimamente scegliere. Questa preziosa condizione la chiamiamo la condizione del dominio ristretto di scelta democratica. E riconosciamo così facilmente che, se la condizione del dominio ristretto è violata, siamo semplicemente in presenza dell’ingiustizia politica, nella forma esemplificata dalla tirannia della maggioranza. Si osservi che la tensione fra i due pezzi, quello della cornice liberale e quello della procedura democratica, è una tensione persistente nei regimi democratici. Contro una visione additiva di liberalismo e democrazia, secondo cui i regimi che chiamiamo appunto liberaldemocratici risultano dall’assemblaggio armonico di cornice e procedura, ho sempre sostenuto che vi è piuttosto, nelle nostre democrazie rappresentative, una sorta di equilibrio instabile e di tensione ricorrente fra quanto è dettato dal Liberale e quanto è dettato dal Democratico. Possiamo osservare una oscillazione ciclica fra le domande di costituzionalizzazione e sottrazione al dominio di scelta democratica e le domande di revisione e modificazione della cornice. Questa oscillazione è, nella mia prospettiva, un elemento intrinseco alla natura dei regimi democratici, e può naturalmente assumere una particolare e variabile intensità al variare delle circostanze di sfondo, generate dal mutamento sociale.

Resta il fatto fondamentale a proposito della qualità di una democrazia: per quanto instabile, deve darsi un punto d’equilibrio fra il pezzo liberale, la cornice, e il pezzo democratico, la procedura. In assenza di tale equilibrio, il male pubblico consiste nella tirannia della maggioranza che, scippando diritti, usurpa poteri. Questa prima conclusione ci induce a esaminare ora, con qualche dettaglio, l’altra tessera del mosaico dello sfondo democratico: il pluralismo come presupposto e come esito.
L’espressione “il pluralismo come presupposto” designa un insieme di precondizioni o di condizioni al contorno che debbono darsi, se vogliamo che abbiano successo l’insorgenza e il consolidamento di un regime democratico o se vogliamo che la qualità di un regime democratico maturo non subisca un severo degrado. La democrazia presuppone l’esercizio dell’arte della separazione fra arene, sfere e poteri sociali.Si consideri una varietà di sfere sociali quali quelle della credenza e del carisma religioso, della ricchezza e del denaro, del mercato, della forza militare, della competenza scientifica e tecnologica. In tali sfere riconosciamo facilmente poteri sociali e risorse o beni sociali che ci sono familiari. Ora, dato che la democrazia presuppone che l’esercizio del potere politico sia intrinsecamente limitato, essa deve presupporre anche che le sfere sociali siano separate e non si dia il fenomeno dell’agglutinamento di risorse e poteri sociali di tipo differente, né quello della conversione di risorse e poteri di una sfera in risorse e poteri in altre sfere, in primis, in quella in cui si esercita autorità politica.

Quando si dia questo fenomeno, allora riconosciamo l’altra faccia del male pubblico della tirannia, nella forma della dominanza che mina ed erode le basi di una democrazia decente, distorce i suoi fondamentali. Nella nostra tradizione di giudizio e credenza politica, che è una fra le grandi tradizioni del mondo che condividiamo con molti altri che hanno differenti tradizioni, l’esercizio paradigmatico dell’arte della separazione resta quello che ha fissato e distinto i confini fra l’arena dei potenti temporanei sui corpi e quella dei potenti durevoli sulle anime: politica e religione, in parole povere. E si consideri l’altro caso cruciale di separazione: quello che ha distinto l’arena del potere politico da quella del potere sociale di mercato. Questa volta, politica ed economia, in parole povere. Sempre, naturalmente, entro il contenitore di comunità politiche segnate da confini. E’ infatti sempre entro questo contenitore che si sono definiti gli equilibri della costellazione pluralistica, fra politica, religione ed economia. E si consideri una implicazione a prima vista sorprendente di questo modo di definire il pluralismo come presupposto: potremo dire che la democrazia come regime politico presuppone una certa distribuzione e dispersione delle risorse di identità. La lotta fra poteri temporali e spirituali è una lotta fra potenti sulle identità delle persone. Ma non diverso è il caso del potere economico e della proprietà che conferisce identità sociale alle persone.

Riprenderò più avanti questa implicazione. Veniamo ora al pluralismo come esito.
L’espressione “pluralismo come esito” designa un insieme di processi che sono stati generati o, in ogni caso, risultano associati allo sfondo di istituzioni modellate dall’idea dell’eguaglianza democratica o dall’individualismo normativo. Naturalmente, vi è una connessione con il pluralismo come presupposto, ma non è di questa complicata questione che voglio ora occuparmi. Vorrei suggerire piuttosto una considerazione lineare sul nesso fra gli eguali diritti fondamentali delle persone, in quanto cittadini, e il loro diritto ad associarsi con altri per perseguire fini comuni e collettivi. Dopo l’arte della separazione, potremo dire, entra così in scena la libera arte di associarsi di Tocqueville. E con essa, come vedremo, torna in gioco la nostra implicazione a proposito dell’identità e assume una luce più chiara il ruolo delle domande di riconoscimento o delle presentazioni sociali di identità differenti o del conflitto per identità vecchie e nuove nel paesaggio democratico. La considerazione lineare è la seguente: l’assioma dell’individualismo normativo caratterizza il processo democratico come un processo che muove dalle scelte individuali (o dalle preferenze individuali) e perviene alla scelta sociale. “Una testa, un voto” è, dopo tutto, un’espressione familiare e indica l’eguaglianza democratica nel senso aggregativo: date certe preferenze individuali, la loro aggregazione, ponderando variamente ma in modo eguale le preferenze, genererà la scelta sociale.

Non mi occupo qui del fondamentale teorema di impossibilità di Arrow. Mi limito a indicare che nella silhouette dell’individualismo normativo vi è un rapporto diretto fra individui e autorità democratica, fra cittadini governati e cittadini governanti. Vi è naturalmente un insieme di ragioni storiche, che rinvia alle circostanze contingenti dell’insorgenza di processi e regimi democratici e che rende facilmente conto della pretesa dell’individualismo normativo. Si tratta della rottura con l’organizzazione cetuale o corporata degli stati d’ancien régime. Fra l’autorità e i cittadini, non più sudditi, nessun corpo intermedio. Ora, la recente storia delle democrazie è la storia della rivincita dei corpi intermedi, costituiti e ricostituiti sulla base della libera arte di associarsi e dell’azione collettiva, durevole nel tempo, di attori sociali che promuovono, difendono o sostengono interessi collettivi. Buona parte della vicenda dei movimenti collettivi, delle agenzie sociali e delle agenzie politiche di rappresentanza di interessi di frazioni della popolazione ha origine in questa storia, che è poi la storia dell’insorgenza dei moderni sindacati e partiti politici di massa, a largo insediamento sociale, almeno in Europa continentale.Ci sono familiari i tratti di questa storia: azione collettiva, movimenti, conflitti che hanno generato come esito, a volte non atteso, l’inclusione universalistica e la generalizzazione della eguale dignità di cittadinanza per le popolazioni incluse entro gli stati-nazione.

Il modello familiare è quello del conflitto democratico della modernità: il ridisegno delle istituzioni e la ridefinizione del tempo del contratto sociale come risposta alla domanda di inclusione nella cittadinanza democratica di frazione escluse di popolazione. Anche la storia della costruzione variegata degli stati sociali e la connessa generazione dei diritti di cittadinanza sociale, nella seconda metà del secolo appena concluso, è coerente con il modello familiare.Gioverà ora soffermarsi su una considerazione e riflettere su un interrogativo. La considerazione chiama in causa la questione dell’identità, cui ho già fatto cenno. Si consideri: la democrazia sembra essere un regime politico caratterizzato dalla mutua compatibilità di differenti identità collettive con la comune lealtà civile o identità di cittadinanza. Il celebre slogan sulla società democratica come società aperta può allora, forse, essere riformulato nel senso che una società aperta è quella che massimizza l’opportunità della costituzione e della ricostituzione di identità collettive alternative entro la medesima comunità politica. Questa sembra essere, alla fine, la definizione meno controversa della differenza fra un regime democratico e regimi non democratici: la libertà di identificazione collettiva, religiosa, politica, etica, culturale, per i partner della polis. L’esercizio di questa libertà richiede che sia tutelata la possibilità che persone e gruppi di persone mirino alla conversione di altre o al riconoscimento delle vecchie e nuove devozioni politiche.L’interrogativo è il seguente.

Se riconosciamo che questo modo di parlare della democrazia presuppone il riferimento al contenitore di uno stato-nazione; se accettiamo che esso chiama in causa direttamente i modi di costruzione dell’identità di cittadinanza e della comune lealtà civile sulla base della libertà di identificazione collettiva, del conflitto e della differenza fra le devozioni politiche, è naturale chiedersi: come è possibile mantenere lealtà al nucleo della forma di vita democratica in un quadro mutato, in cui vistosi processi di globalizzazione e di interdipendenza alterano il quadro di riferimento e la geografia delle identità, degli interessi e dei poteri? Nelle dieci lezioni di La bellezza e gli oppressi ho cercato di abbozzare i lineamenti di una teoria della giustizia globale proprio a partire dallo sfondo della tradizione della cultura pubblica democratica, sottoposta a pressione dalla trasformazione di molte delle sue categorie di base, in una fase in cui sembrano salienti la crescente debolezza del potere politico nei confronti di poteri sociali senza frontiere e l’erosione delle basi della comune lealtà civile di cittadinanza. I miei prolegomeni a una teoria della giustizia senza frontiere hanno carattere normativo, riguardano in parole povere cose come valori e ideali politici. E questo mi suggerisce di dedicare, in conclusione, qualche osservazione al significato e al senso della democrazia per noi, per come l’abbiamo conosciuta cammin facendo, nei termini della sua cultura pubblica e del nucleo della sua moralità politica.
Il nucleo dell’etica democratica è incentrato sull’idea di valore dell’eguaglianza delle persone in quanto partner di pari dignità della polis.

In quanto cittadino o cittadina, ciascuna persona ha diritto a eguale considerazione e rispetto, come avevamo osservato a proposito dell’assioma dell’individualismo normativo. Questo richiede la definizione del sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza: il primo principio dell’etica democratica prescrive l’eguale libertà per le persone. Come è stato osservato, il primo principio esemplifica nel tempo l’idea greca e classica di isotimia, della eguale stima o dignità che compete alle persone, in quanto incluse entro una qualche comunità politica. Tutto il resto deve essere coerente, o deve essere reso coerente, con quanto prescritto dal principio della isotimia: i modi dell’acquisizione del potere di governo su persone che hanno eguale dignità e i modi di esercizio di tale potere di governo.Quanto all’acquisizione da parte di alcuni del potere di governare altri, la logica del consenso e dell’autorizzazione o del mandato temporaneo a governare, con il corollario della competizione fra persone e gruppi che mirano a ottenere il consenso, riflette il principio dell’isotimia. Come si usa dire, in democrazia le élites di governo si propongono, e non si impongono. Quanto all’esercizio del potere di governo, osserviamo in primo luogo che l’eguaglianza democratica opera come un vincolo severo sui modi di impiego dell’autorità legittima, nel senso indicato a proposito dei vincoli costituzionali sul dominio ristretto della scelta sociale e della tensione fra il pezzo liberale e il pezzo democratico degli assetti e delle istituzioni democratiche.

In secondo luogo, dobbiamo aggiungere che i fini collettivi o gli scopi che devono essere perseguiti da chi eserciti autorità politica sono al centro della controversia o del conflitto democratico per eccellenza. Che cosa la politica debba fare per onorare la promessa dell’eguale considerazione e rispetto cui hanno diritto i cittadini di una buona democrazia, questo è nel centro focale del conflitto politico paradigmatico nelle società a tradizione democratica. Si consideri in proposito, con una rude semplificazione, la tensione fra destra e sinistra entro il contesto degli stati-nazione: e si avranno, grosso modo, risposte diverse alla domanda su che cosa è giusto la politica democratica persegua come scopo essenziale, in un regime politico modellato dall’idea dell’eguale dignità di cittadinanza. A partire dalla condivisione della priorità dell’eguale libertà delle persone, destra e sinistra divergono quanto alle politiche e ai provvedimenti che assicurino, tutelino e promuovano tale eguale libertà. Il contrasto fra una qualche forma di libertarismo o liberismo, che ci dice che la politica deve limitarsi alla tutela e all’assicurazione dell’eguale libertà, e una qualche forma di egualitarismo democratico che ci dice che la politica deve andare oltre e generare un’eguaglianza di opportunità o di capacità perché le persone possano usare responsabilmente la loro libertà, è un contrasto dopo tutto familiare entro la cultura pubblica delle società democratiche.Il nucleo di un’etica democratica ci chiede, in parole povere, di giudicare istituzioni e provvedimenti, adottando come punto archimedeo il punto di vista dell’eguale cittadinanza.

Le differenti interpretazioni di questo punto di vista fanno parte della genuina controversia democratica e sono al centro di distinte e confliggenti devozioni e identità politiche, esemplificando le tensioni cui è sottoposto il senso di giustizia di una comunità politica data. Ora, è naturale chiedersi come stiano le cose, a proposito delle lealtà politiche fondamentali della cultura pubblica democratica, se allarghiamo lo sguardo e ci mettiamo alla prova, in un mondo che ospita una geografia mutata e conosce essenzialmente la porosità dei confini, con l’ingiustizia della terra. Si consideri che tutti i termini che ho impiegato per illustrare i tratti salienti di un’etica democratica hanno un riferimento, implicito o esplicito, a comunità politiche definite da confini e a popolazioni incluse stabilmente entro confini dati. Il contesto mutato di un mondo di incessante deformazione ci chiede semplicemente quali risposte la lealtà alla forma di vita democratica e ai suoi elementi fondamentali deve dare a dilemmi e sfide che attraversano i confini e scompaginano il quadro di sfondo della costellazione nazionale. Ci chiediamo: quale democrazia nella costellazione postnazionale?Tentare risposte in questo campo è un esercizio intellettuale e politico difficile, molto difficile. Ma, al tempo stesso, ineludibile, come ho suggerito nei miei ultimi lavori sull’idea di giustizia senza frontiere. Il percorso che abbiamo fatto insieme, a proposito della democrazia, delle sue trasformazioni e delle sue sfide nella recente vicenda della modernità, dalle nostre parti e – ora, nei tempi ardui e opachi dell’avvio del ventunesimo secolo – alle nostre spalle, può forse darci qualche ragione.

Qualche ragione per non mollare e per continuare, con un filo tenace di coerenza, nel cammino complicato e senza esiti garantiti, in un mondo di incessante deformazione. Così, almeno, spero.
*Salvatore Veca, vicedirettore dello IUSS, Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, è direttore della Suola di formazione politica di LeG. A Pavia, in questi giorni, è in corso l’ultimo modulo della scuola dedicato ai livelli di governance.

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