Non è cosa vostra

03 Giu 2013

Siamo tanti. Qui, di questi tanti, non c’è che una minima, per quanto numerosa, rappresentanza. Isolati, però, non contiamo e non conteremo niente. È giunto il momento di dare forma, dimensione e consistenza generale e continuità a questo movimento. Scadenze politiche importanti attendono il nostro Paese e anche noi dobbiamo assumerci le nostre responsabilità.

La legge delle oligarchie
Da anni, ormai, invocando efficienza si tenta di cambiare il senso delle istituzioni, da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo rischio d’involuzione, che dovrebbe essere il punto essenziale. Dopo più di mezzo secolo di vita della Costituzione democratica, è pienamente all’opera l’eterna “ferrea legge delle oligarchie”: i grandi numeri fanno spazio ai piccoli numeri e, così, il potere si concentra in poche mani. Parlando di oligarchie, non dobbiamo pensare solo alla politica, ma all’enorme complesso d’interessi materiali, nazionali e internazionali, che ruotano attorno alla politica e la condizionano.

Consolidamento o chiusura
Quando i piccoli numeri si cristallizzano e la politica si riduce a un gioco, o a una lotta interna a circoli chiusi, la democrazia si svuota. E se poi la pressione degli esclusi – tanto più forte in tempi di crisi e malessere sociale quando le risorse da distribuire scarseggiano o mancano del tutto – genera sindromi d’accerchiamento, si mette mano alle istituzioni: per consolidarle, si dice; per arroccarsi, in realtà. Niente di nuovo sotto il sole. Non sono in questione solo forme del governo che, per motivi tecnici, possono piacere l’una più o un’altra meno. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la solidarietà, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, dell’egoismo, del potere nascosto, illegale e irresponsabile, cioè del governo che i pochi considerano “naturalmente”, “ovviamente” riservato a sé stessi e che difendono come cosa loro, magari con feroci lotte interiori, ma con unità d’intenti nei confronti dei pericoli esteriori. Sempre gli stessi si stagionano nel tempo e, quando occorre, si riproducono per cooptazione e affiliazione, cioè, per lo più, per connivenze e clientele. A che cosa stiamo pensando? A cose che non ci riguardano? Non è forse questo uno dei grandi e atavici mali italiani? Chi non appartiene a questi giri, chi si appella “solo” alla legalità e ai meriti, non ha qualcuno dietro di sé e non può quindi esibire protezioni e raccomandazioni, né offrire qualcosa in contraccambio, nella ricerca d’un posto di lavoro come nell’assunzione in un pubblico impiego; nelle professioni come nella politica; nell’alta amministrazione, civile, finanziaria e militare e perfino nelle attività d’impresa, condizionate dal potere discrezionale della burocrazia e della finanza dove dominano clientele: costui, il cittadino comune, il cittadino sovrano, che cosa conta?

Congelamento
Questo sistema di giri del potere che ha travolto il confine tra la sfera pubblica e quella privata, oggi, è in affanno. I cittadini che non ne fanno parte e, anzi, ne sono vittime, prendono vistosamente le distanze. Il voto, il preziosissimo diritto primo della democrazia, pare sempre più degradarsi a rituale di cui non si riesce a vedere il valore. Gli equilibri interni, a loro volta, sono scossi da una litigiosità crescente. Il sovraccarico d’interessi, unito alla diminuzione delle risorse da spartire, porta al rischio d’implosione. Una crisi di legittimità si somma così a una crisi di efficienza. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. La prima, spontanea, reazione è il congelamento. I problemi cui non si sa dare risposta, si rinviano. La, in altri tempi, inverosimile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di connivenze bloccato, che vuole sopravvivere senza cambiare e, a questo fine, è disposto a unire le forze e far tacere le differenze. L’ancor più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione – segno di disfatta d’un intero ceto di governo – è la dimostrazione del sentimento, sia pure temporaneo, di scampato pericolo. Il governo “delle larghe intese”, a sua volta, è facile vederlo come il prolungamento del congelamento. Alla prima reazione, segue la seconda, che si rivolge alle istituzioni, per razionalizzarne il funzionamento, conformemente alle esigenze del sistema in crisi. Non c’è bisogno di ricorrere agli esempi storici, recenti e meno recenti, anche del nostro Paese; basta far uso della ragione per comprendere che questo è il significato delle riforme costituzionali nei tempi di crisi. Se tutto va per il meglio, di nessuna riforma si sente la necessità (onde Felicité de Lammenais poteva dire che l’attivismo costituzionale non è segno di vitalità politica, ma di decomposizione). E basta far uso della ragione per comprendere che si può finire in due modi: o nell’inconcludenza che accelera il disfacimento, o nell’accentuazione dei caratteri del sistema che si vorrebbe correggere. Motus in fine velocior. Se il sistema da correggere è oligarchico, la riforma di cui l’oligarchia è capace potrebbe essere diversa dalla razionalizzazione, dalla stabilizzazione, dalla munizione di se stessa, contro i pericoli che l’insidiano? Chi pensa alla democrazia, non alla oligarchia, ha bisogno d’aggiungere altro? Chi potrebbe essere tanto ingenuo da credere che chi è al potere, per quanto sia in crisi, voglia agire contro se stesso? I frutti dipendono dall’albero.
Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non sarebbero che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherebbe ancora di più. Contro gli accordi che prefigurano contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti esistenti, per impedirle, e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente circa la garanzia che, comunque, gli elettori abbiano la possibilità di esprimersi con il referendum, se e quando ne fosse il momento.

Mandato costituente?
Oggi si ritorna a parlare di “grande riforma” per cambiare costituzione. Si vuole aprire un’immancabile “stagione di riforme costituzionali di ampio respiro” durante la quale, oltre ai cambiamenti su aspetti particolari (seconda Camera, numero dei parlamentari, procedure decisionali), si metta mano mano, niente di meno, alla “forma di Stato e di governo”: cioè, potenzialmente, a tutto. Siamo ben al di là delle “revisioni costituzionali”, autorizzate dall’art. 138 della Costituzione. Ma, a chi si propone un tale grande intento si deve chiedere innanzitutto: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità e siete usurpatori. Se non vogliamo usare parole grosse come questa, diciamo almeno che siete come la ranocchia che si gonfia per diventare bue, o come i Lillipuziani che vogliono catturare Gulliver. Non è la prima volta. E’ già accaduto, sempre con esito fallimentare.
Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro, agendo senza mandato. Ci si risponde che allora siamo noi a considerarla cosa solo nostra. La Costituzione è diventata materia controversa. Quando si apre la questione costituzionale, la materia diventa incandescente perché riguarda la distribuzione o la concentrazione del potere: è questione democratica. Non esistono questioni solo tecniche. Quando diciamo che la Costituzione è di tutti e non di pochi, vogliamo dire questo: che il mutamento della costituzione di cui si parla oggi è promossa da una parte, per i propri scopi e non è neutra, rispetto alla democrazia. Riguarda la società nel suo insieme. E da questa dovrebbe provenire il mandato a modificarla. In mancanza, saremmo di fronte a un’appropriazione indebita. Quando diciamo che la Costituzione è di tutti e non di pochi, vogliamo dire proprio questo, che è tutt’altra cosa che dire che “la Costituzione è nostra”. Non siamo noi a volercene appropriare.

Riformare prima la politica o le istituzioni della politica?
La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. Ma, la colpa è sua? Non sarà invece che la colpa è loro? La qualità della politica dipende dalle istituzioni o da coloro che ne fanno uso? La domanda è antichissima. La risposta è: certo, dalle prime; ma di più dai secondi. Le istituzioni non possono tutto. La corruzione dei governanti corrompe anche le migliori tra le istituzioni possibili. Onde, diciamo: cambiate prima di tutto voi stessi perché, se questo non accade, come potete pretendere che le vostre promesse di buon governo e i vostri progetti di riforma siano realistici e attendibili?
Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Esiste però anche un riformismo gattopardesco: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica, salvaguardare se stessi e rabberciare un sistema di potere in affanno. Ma, allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.

Pacificazione o normalizzazione?
Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di ristabilire connessioni, cioè di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima, meglio di prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.
Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in patti di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto alla disperazione, spingendoli ai margini o fuori della società e della vita. Solo questa sarebbe pacificazione, cioè convivenza operosa e veritiera.
Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno lo scopo di riconciliare i cittadini con la politica. Ma, senza un’autentica pacificazione nel segno della ricerca della verità del potere e della promozione della giustizia, il risultato sarebbe l’opposto. Sarebbe “normalizzazione”.

La procedura
Esiste nella Costituzione (art. 138) una procedura per la sua “revisione”, incentrata sulle Camere. Si immagina invece (riferimento all’ordine del giorno, a firma Speranza, Brunetta, Dellai, Pisicchio, approvata dalla Camera dei Deputati il 29 maggio) di spostare verso l’esterno il baricentro. Un “comitato referente” (ciò che resta dell’originaria, pomposa, “Convenzione”: di Filadelfia, di Robespierre?), composto proporzionalmente (?) di deputati e senatori, dovrebbe predisporre testi di legge di “revisione costituzionale” (?), sottoposti, per l’approvazione finale (tutti insieme o uno per uno?), alle Camere, con la possibilità dei deputati e senatori di “proporre” (?) emendamenti, “fermi restando i deliberativi di cui all’articolo 138 della Costituzione” (?), non senza un qualche “partecipazione diretta” dei cittadini (via web?), con la garanzia (?) che tutto si concluda entro 18 mesi e con la possibilità di referendum (unico o su singole parti?). I lavori si svolgerebbero sotto l’egida del governo (?), che si dovrebbe avvalere d’una inedita “commissione d’esperti” fidelizzati, reclutati tra persone di sua fiducia e chiamati a fornire un avallo “tecnico” all’operazione. Un’operazione che, tramite il governo, dovrebbe svolgersi sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e sotto la pressione del rischio, ventilato dal Presidente stesso, di sue dimissioni, in caso d’insuccesso. Come si usa dire: una macchina da guerra, per di più super-blindata, quale mai, finora, s’era vista in campo, pensata per piegare eventuali resistenze parlamentari.
Per sciogliere i punti interrogativi e mettere in piedi questo procedimento, molto più farraginoso di quello che c’è, s’immagina di approvare una legge costituzionale (come già fatto in precedenti, infelici, occasioni) in deroga all’art. 138. Riassumiamo: l’art. 138 consente revisioni e non “grandi riforme”; per le grandi riforme si vuole un procedimento per mettere in piedi questo procedimento e fare ciò che l’art. 138 non consente di fare, si approva una legge di revisione per mezzo dell’art. 138 stesso. C’è qualcosa che non funziona: se l’art. 138 incontra limiti, si può usarlo per permettere di superarli? C’è un principio fondamentale in ogni stato di diritto, che è questo: nessuno (nessuna fonte) può attribuire ad altri un potere ch’esso stesso non possiede. Se fosse il contrario, sarebbe il caos, la prepotenza. La verità è che, dietro questo progetto, c’è qualcosa di a- o anti-costituzionale, che nell’art. 138 non trova il fondamento. Questo “qualcosa” è l’instaurazione di fatto d’un ordinamento nuovo. E nessun garante della Costituzione – la Costituzione che c’è – ha qualcosa da eccepire?
Nel frattempo, prima della modifica dell’art. 138, la procedura dovrebbe iniziare a operare, contando sull’eventualità che, poi, la legge costituzionale venga a ratificare, legittimandolo ex post, ciò che ha iniziato a succedere, senza alcuna legittimità costituzionale.
Può darsi che questa macchina s’incagli prima di partire o poco dopo e, dunque, non se ne faccia nulla, oppure che produca solo aggiustamenti nel senso della Costituzione che c’è (seconda Camera, numero dei parlamentari, procedure di decisione: cose per le quali basterebbero le procedure ordinarie), oppure ancora che finisca per mettere mano alle sue strutture portanti. Ma è chiaro che questo spinge l’interesse di buona parte dei neo-costituenti. Vediamo, allora, che cosa c’è in ballo.

Presidenzialismo
Ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L’argomento sul quale, da ultimo, questa volontà si basa è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso (pur con il non trascurabile dettaglio della mancanza d’una investitura popolare diretta: ciò che, per l’appunto, si vorrebbe introdurre). Non è allora naturale – si dice – che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto ed è sotto gli occhi di tutti? Questo è un argomento, ma è anche convincente? Distinguiamo. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale finalizzata a preservare le istituzioni parlamentari, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Così, più volte, il Presidente della Repubblica ha interpretato il suo ruolo. Ma, altra cosa sarebbe l’azione che prelude all’instaurazione di diverse istituzioni e di una diversa legalità. Se fosse questa seconda cosa, la fedeltà alla Costituzione sarebbe in questione. Si comprende che si gioca una partita rischiosa, sul filo del rasoio. La posta è elevata. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. S’insinua che il “garante della Costituzione” agisce non per preservare la Costituzione che c’è, ma per cambiarla.
Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe nella costituzionalizzazione, nel coronamento di una degenerazione oligarchica. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta sempre più forte nella nostra società al tempo presente, tutte le volte che se ne offre l’occasione. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.
Noi temiamo la superficialità con la quale si guarda a esperienze lontane dalla condizione del nostro Paese. L’estrema debolezza dei partiti o movimenti politici o – incidentia oppositorum – il dominio padronale che si esercita su alcuni di essi non farebbero che esaltare il potere dell’uomo solo e metterebbero a rischio i già non troppo solidi pesi e contrappesi della democrazia liberale. In più, l’elezione diretta si risolverebbe presumibilmente nella non trasparente cristallizzazione, in capo al capo, d’assetti di poteri di fatto che troverebbero lì la garanzia della loro intangibilità. Chi pensa al presidenzialismo, pieno o “semi”, invece di volgere lo sguardo solo agli Stati Uniti o alla Francia, farebbe bene a dare un’occhiata a quanto accade nei presidenzialismi d’altri Paesi, forse più simili al nostro, quanto a concentrazione, inamovibilità, opacità del potere.

Controlli
Il senso concreto del presidenzialismo proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei nostri riformatori: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Quale rimedio il costituzionalismo ha escogitato contro la chiusura del potere politico su se stesso, cioè contro l’erosione della democrazia a opera della “ferrea legge” delle oligarchie? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza, se non le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche? Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi a esercitare poteri oligarchici sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Questo, perché il potere giudiziario e il cosiddetto “quarto potere” possono deviare dalle finalità loro proprie e diventare strumenti di lotta politica, perdendo legittimità. Nulla di sorprendente. Non è sorprendente, ma certamente è inquietante la concomitanza dei progetti di riforma costituzionale con proposte che miranti non a garantire l’oggettività, fin dove è possibile, ma il raggio dell’azione giudiziaria e giornalistica. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, senza considerare a chi questa libertà possa giovare o nuocere.

La legge elettorale
La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile un referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia, tutti dissero in coro: subito la nuova legge elettorale. Si è visto e stiamo vedendo.
Anche a questo proposito, basta fare uso della ragione per comprendere quanto il compito sia difficile e quanto l’affaccendarsi in Parlamento difficilmente possa portare a un risultato. In una materia dove si giocano con la massima evidenza gli interessi di partito, tanto più nella prospettiva di imminenti nuove elezioni, si può credere che esista un orientamento, come si dice, “condiviso”, o è più ragionevole pensare che, dietro le virtuose dichiarazioni d’intenti, prevalgano i calcoli interessati e, dunque, le divisioni? Dai singoli individui ci si può talora aspettare sacrifici in nome dell’interesse comune. Ma dai partiti, che per definizione fanno coincidere il proprio interesse con quello di tutti? Questo tema è, tra tutti, il più “divisivo”, secondo il gergo senza fantasia dell’epoca nostra; ma, fino a qualche tempo fa, sembrava il più “unitivo”. Ma quando si viene al momento delle decisioni, tutto sembra fermarsi, arenandosi in accuse reciproche, non solo sui contenuti della legge che dovrebbe sostituire quella attuale. Ora, fatti i conti sui vantaggi e gli svantaggi, a breve e a medio termine, inizia manifestarsi la fronda sulla necessità stessa di una riforma. In fondo, un Parlamento di nominati non dispiace affatto a chi li può nominare, distribuendo favori e, al contempo, assicurandosi fedeltà incrollabili. Gli accoliti possono essere più utili di rappresentanti della Nazione. E anch’essi possono riporre nel sistema delle nomine dall’alto la speranza di “rielezione”, in cambio della fedeltà ai capi. Il premio di maggioranza, poi, così come previsto, è desiderabile in misura direttamente proporzionale alla sua abnormità, per chi, sondaggi alla mano, immagina di potersene avvalere. Si dice: il sistema elettorale non è indipendente dalla riforma generale delle istituzioni costituzionali. C’è una misura di verità. Ma, non c’è nesso di conseguenzialità con ciò che se ne vuol fare derivare: prima la riforma della Costituzione, poi la riforma della legge elettorale. Il che è come dire: rinvio alle calende greche e, nel frattempo, la tanto vituperata (a parole) legge vigente. Chissà perché non: le due cose insieme; o, prima la legge elettorale e poi la riforma costituzionale e, se occorrerà, revisione della prima alla luce delle esigenze della seconda.
La distanza che separa una moltitudine di cittadini dalla classe politica dipende da molte e profonde ragioni. Ma la (riforma della) legge elettorale e le sue peripezie assurge a simbolo della separatezza. Se c’è una legge che dovrebbe essere nell’interesse esclusivo dei cittadini, questa è la legge elettorale. Da questa dipende quello che si diceva un tempo lo ius activae civitatis. Se guardiamo a ciò che succede, vediamo che la logica prevalente è l’interesse di questo o quel partito: un vero e proprio rovesciamento.
Possiamo, dunque, confidare d’avere una legge elettorale conforme alla democrazia, per quando si sarà chiamati a votare? Difficile. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, per fare pressione. Altri hanno immaginato una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando tutti nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, posto che esse sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare – ma chi presta più attenzione a questi dettagli – che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale?

E allora?
C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. Nella democrazia pericolante, c’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Qui siamo uniti tra semplici cittadini, associazioni culturali, sindacali, strutture di volontariato, uomini e donne impegnati in politica, a diversi livelli e con diverse responsabilità. Tutto questo è società civile: quella che abbiamo non solo in mente, ma davanti agli occhi. L’Italia ribolle e questo è motivo di speranza. Siamo diversi tra noi, ma coerenti nella difesa delle istituzioni democratiche volute dalla Costituzione e persuasi che in essa si trovi ancor oggi la traccia per cercare d’uscire dalle difficoltà del presente, per riconciliare i cittadini alla politica, per combattere le oligarchie che li hanno espropriati, per portare luce di verità nelle tante zone d’ombra del potere e per promuovere l’uguaglianza e la giustizia attraverso un rinnovato patto sociale basato sulla legalità e la solidarietà. Legalità e solidarietà: due parole impegnative per tutti, noi compresi. Significano non ricercare protezioni e privilegi particolari, ma combatterli esigendo il rispetto di diritti uguali per tutti; disporsi a sacrificare parte dei vantaggi, anche se legittimamente acquisiti, per aiutare a reinserirsi nella vita sociale i nostri concittadini che la crisi economica odierna ha posto ai margini o ha estromessi nella disperazione. Siamo uniti, in fine, nel chiedere la riappropriazione sociale della politica e, in assenza, nel dire no alla retorica di riforme che, allo stato attuale, si presentano come tecniche di razionalizzazione dell’esclusione. Abbiamo bisogno, in breve, di liberazione dal sentimento d’impotenza senza speranza che avvolge la società e la condanna al declino, non meno civile e culturale che economico.
Dobbiamo crescere, diffondendo consapevolezza e cultura politica, fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni. Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.
Siamo tanti. Qui, di questi tanti, non c’è che una minima, per quanto numerosa, rappresentanza. Isolati, però, non contiamo e non conteremo niente. È giunto il momento di dare forma, dimensione e consistenza generale e continuità a questo movimento. Scadenze politiche importanti attendono il nostro Paese e anche noi dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Nelle prossime settimane, con tutti coloro che avvertono le medesime urgenze, apriremo tra noi una rete di libere consultazioni, al di fuori da ambizioni personalistiche, gelosie e primogeniture, per stabilire i modi necessari per non disperdere le energie, la passione e il senso dell’urgenza che ci ha animati facendoci convergere qui, oggi, in questa piazza di Bologna.

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