Sechi: «Lo Stato ha trattato con la mafia»

04 Dic 2012

«Di sicuro c’è stata più di una trattativa fra Cosa Nostra e lo Stato». Lo storico sardo Salvatore Sechi tira le sue conclusioni dopo lunghi studi che l’hanno visto impegnato come consulente della commissione parlamentare antimafia. Leggi l’articolo di Attilio Bolzoni su Repubblica

«Di sicuro c’è stata più di una trattativa fra Cosa Nostra e lo Stato». Lo storico sardo Salvatore Sechi tira le sue conclusioni dopo lunghi studi che l’hanno visto impegnato come consulente della commissione parlamentare antimafia. Al centro della questione, appunto, i negoziati segreti tra uomini delle istituzioni e rappresentanti
dei boss. Ora che la legislatura volge al termine e che si avviano a conclusione le attività di tutti gli organismi d’indagine del Senato e della Camera, il presidente Beppe Pisanu sta per redigere la relazione finale. Al testo ha collaborato uno staff di esperti, tra i quali lo stesso Sechi. È prevedibile che ne verrà fuori un dossier ricco d’ipotesi, ric le opinioni di chi ha svolto dall’interno un lavoro che, forse per la prima volta, consente di gettare sprazzi di luce su un tema tanto delicato e scottante. Argomento che in qualche modo si lega a vicende accadute nelle carceri sarde.
Quali studi ha svolto in passato su questi sconcertanti rapporti?
«Da diversi anni mi occupo di terrorismo e criminalità organizzata. In un doppio compito. Il primo è di consulente: prima della commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e sui nostri servizi segreti, ora di
quella sulla mafia. Il secondo ruolo è di docente con una preparazione a carattere storico, il mio mestiere».
Parlando dei negoziati con la mafia, chi è stato ad avviarli? Lo Stato?
«La sua domanda coglie un punto reale. L’Italia è una nazione debole, incapace di far prevalere ogni volta le regole dello Stato di diritto».
Perché?
«L’opinione pubblica, in maggioranza cattolica, non accetterebbe mai che le ragioni della forza, anche se imposte dallo Stato, cioè legali, prevalgano su mediazione e compromesso in nome della salvezza delle vite umane».
Che cosa intende?
«Mi spiego attraverso esempio banale. Se qualcuno vuole ampliare un immobile come la legge gli consente, può ritrovarsi un vicino di casa che lo ricatti esigendo che lui si accolli anche l’onere dell’estensione del suo terrazzo. Ecco: intendo sottolineare che in quest’Italia a vincere è spesso il ricatto più spudorato».
Vuol dire che per esercitare un suo diritto il cittadino deve pagare il doppio con un’estorsione para-legale che lo Stato non riesce a contrastare?
«Certamente. Rilevo che quando uno Stato è vulnerabile, debole, fa due cose contemporaneamente: in segreto, a cortine abbassate, avvia una trattativa con i poteri criminali e, contemporaneamente, in pubblico fa la faccia truce, distillando ferocia da ogni poro. Ma questa seconda è una soluzione retorica. Io l’ho chiamata “la metafora della debolezza” ».
Prima che con la mafia, questo comportamento di doppiezza quando e con chi si è manifestato?
«Fra gli altri, nei casi del politico napoletano Ciro Cirillo e di Aldo Moro. Nelle lettera dal carcere delle Br lo statista dc ricorda che il governo italiano non ha mai praticato, pur proclamandolo, il principio della fermezza. Lui stesso fece liberare i terroristi palestinesi arrestati e condannati per la strage di Fiumicino nell’inverno del 1985».
Moro perorava in questo modola sua salvezza…
«Lasci che lo dica in forma più esplicita: l’Italia, proprio perché è uno Stato fragile, debole, “buonista”, ha sempre trattato con i terroristi. Con Moro è stata stata fatta un’eccezione in nome di una uniformità di comportamenti pregressi che non era dimostrabile. E con la mafia si è ripetuto lo stesso scenario».
Tuttavia Nicolò Amato, per 10 anni direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in questi giorni ribadisce di non aver preso provvedimenti per alleggerire il carcere duro nei confronti degli “uomini d’onore”. Come si spiega allora quel che lei sostiene?
«Mi risulta che Amato si oppose, nelle ore immediatamente successive alla strage di via D’Amelio a Palermo costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e alla sua scorta (compresa la poliziotta sarda Emanuela Loi), al trasferimento di numerosi capimafia a Pianosa e all’Asinara. Ma il 16 marzo 1993, in nome di principi garantisti, chiede di fatto la revoca immediata di tutti i provvedimenti legati al 41 bis. Quelli che erano stati varati dai ministri Martelli e Scotti per reagire all’uccisione prima di Giovanni Falcone a Capaci e poi dello stesso Borsellino».
Secondo le informazioni in suo possesso, chi si mosse nella linea della trattativa nel periodo delle stragi del 1992-93?
«A disapprovare il carcere duro nei confronti dei mafiosi e avallare l’impostazione della trattativa furono in parecchi: i cappellani delle case di reclusione, il capo della polizia Vincenzo Parisi, lo stesso ministro dell’Interno Nicola Mancino, altri dirigenti dell’amministrazione penitenziaria come Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Tutti uomini che ruotavano intorno all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che ne aveva favorito la nomina ad incarichi di responsabilità».
A che cosa allude esattamente?
«Non mi pare esistano elementi probatori per dire che Scalfaro può aver condiviso l’affievolimento del regime duro nelle carceri o l’idea della trattativa. Però non si può negare che la cerchia degli uomini di cui aveva facilitato la carriera si è mossa in maniera convergente verso questa direzione ».
Ma i negoziati non potrebbero essere stati avviati prima del 1992-1993?
«Dopo l’uccisione di Salvo Lima (accusato di non essere riuscito a impedire un episodio insopportabile per i mafiosi come la celebrazione delmaxi-processo), ci furono contatti. Si ravvisò l’esigenza di scambiare la garanzia dell’incolumità di politici minacciati di morte con alcune concessioni dello Stato».
Di che tipo?
«L’attenuazione dell’attività repressiva dello Stato o l’emanazione di altri provvedimenti favorevoli a Cosa Nostra. Insomma: il contenuto del “papello” redatto dal capo dei corleonesi Salvatore Riina e consegnato da Vito Ciancimino all’allora colonnello dei carabinieri Mori».
Ma il destino di Falcone e Borsellino sembrava segnato già primadel “papello”: come mai?
«Parte della magistratura siciliana, e penso all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, aveva creato il pool anti-mafia. Guidato da Rocco Chinnici (che verrà eliminato dalla mafia), fra gli altri annoverava Falcone e Borsellino, che a distanza di tempo faranno la sua stessa fine. Il pool sperimentò tecniche d’indagine nuove, come i controlli incrociati sulle informazioni. Nascerà da quel gruppo di magistrati la decisione storica di sottoporre a processo, nel 1980, 474 imputati, condannarne 360, infliggendo oltre 2.500 anni di carcere e 19 ergastoli. Neanche il prefetto Mori nel1924 aveva osato tanto».
Ed è stato questo a decretare la loro condanna a morte?
«Esattamente: Cosa Nostra non poteva sicuramente lasciare impunita una situazione che aveva messo alle corde
la sua organizzazione».
Come giustificare, a maggior ragione, l’esistenza di più trattative con la mafia?
«Il negoziato a mio avviso è stato un grande errore. Cosa Nostra mostrò che era riuscita a piegare lo Stato, costringerlo a venire a patti. Comunque alla fine, la trattativa consentì agli organi di prevenzione e di repressione di arrestare Riina e Provenzano, e assestare all’organizzazione criminale un colpo forse mortale».
Eppure, anche in quelle occasioni, si parlò di supposte fratture tra capimafia proprio a proposito del negoziato: quali sono le sue informazioni in questo senso?
«Riina e Bagarella avevano deciso di allargare il conflitto con lo Stato, estendendolo sulla penisola e colpendo anche il patrimonio artistico nazionale. Provenzano invece era contrario. Lui mirava a gestire soltanto le faccende siciliane o che partivano dalla Sicilia. Preferiva muoversi in una logica di contrattazione nella quale la mafia e lo Stato avrebbero dovuto muoversi ciascuno nei propri ambiti».
Che ruolo hanno avuto in tutto questo gli apparati d’intelligence?
«Il caso di Bruno Contrada, condannato sino alla Cassazione, dice qualcosa in proposito. Così parlano da sole le vicende che vedono protagonista Mori, poi divenuto generale e capo dell’Aisi. Infine, dopo l’attentato fallito all’Addaura, è lo stesso bersaglio, Giovanni Falcone, a parlare di “menti raffinatissime” nascoste nell’ombra: sarà una coincidenza ma a distanza di pochissimo tempo due agenti dei “servizi” muoiono in circostanze misteriose.
Nel complesso della questione, tuttavia, la presenza di 007 italiani nei contatti con mafiosi detenuti allo stato attuale delle indagini non risulta approfondita».
In questo discorso, a proposito del negoziato e dell’attenuazione del regime carcerario duro, rientrano penitenziari sardi come Badu ’e carros e l’Asinara, all’epoca ancora isola-bunker?
«Di Nuoro non so dire. Ma mi risulta un fatto certo: subito dopo la strage di Capaci, il ministro Claudio Martelli mette insieme tutti i provvedimenti normativi studiati contro i mafiosi da Falcone. E rende esecutivo il 41 bis. In quel contesto, viene disposto il trasferimento all’Asinara di pericolosi boss. Sino ad allora riuscivano ad avere contatti con l’esterno. Poi non più».

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Leggi anche

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.