Fra qualche giorno ricorre il primo anniversario della scomparsa (29 gennaio 2012) di Oscar Luigi Scalfaro, che fu onorato e stimato Capo dello Stato in un periodo drammatico (1992-1999) per la nostra Repubblica. L’ampia intervista che pubblichiamo con Michele Zolla, che è stato suo consigliere al Quirinale, vuole portare un contributo di verità e giustizia sull’attività istituzionale di Scalfaro sul tema del contrasto alla mafia.
Michele Zolla, collaboratore e amico da una vita del Presidente Scalfaro, già deputato Dc, sottosegretario e vicepresidente della Camera, è stato anche il suo consigliere speciale durante il settennato al Quirinale (1992-1999). A lui, che ha compiuto da pochi mesi 80 anni, e conserva memoria delle diverse esperienze politiche vissute, chiedo qual era lo stato d’animo del capo dello Stato negli anni 1992-93, quando le stragi della mafia colpirono più volte il paese (via D’Amelio, attentati a Roma e Firenze). Il presidente ebbe mai occasione di parlarne con lei?
“Non solo l’inizio ma tutto il settennato di Scalfaro presidente della Repubblica è stato un periodo che definirei incandescente, per la drammaticità degli eventi in cui si è svolto. In particolare nel 1992 e nel 1993 era esploso il fenomeno di “tangentopoli” che aveva generato un serio indebolimento della rappresentanza politica. Allo stesso tempo si era verificata una inquietante perdita della capacità di acquisto della moneta che, come sottolineavano le segnalazioni della Banca d’Italia (Governatore Ciampi), determinava gravi preoccupazioni per la tenuta del quadro finanziario generale. Inoltre il settennato era iniziato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio ove appariva chiaramente che una forza organizzata di natura criminosa voleva disarticolare lo Stato o quantomeno piegarlo ai suoi voleri. Per giunta gli osservatori internazionali descrivevano l’Italia come un autobus impazzito in viaggio su una strada di montagna.
In quei drammatici momenti non ho mai visto il Presidente, non dico preso dallo smarrimento, ma neppure titubante o incerto nell’assumere su di sé precise responsabilità, anche esponendosi a rischi. Durante tutto il periodo della sua presidenza sono numerose e circostanziate le minacce ricevute ma sempre ci raccomandava di fare in modo che nulla trapelasse all’opinione pubblica per non aumentare la tensione sociale già alta. Solo in un caso ne parlò quando disse di minacce che coinvolgevano quanto aveva di più caro, alludendo evidentemente alla figlia. Come testimoniano le sue esternazioni, sempre in occasioni ufficiali, Scalfaro non perdeva occasione, rivolgendosi ad interlocutori esteri ed alla opinione pubblica interna alquanto smarrita, per dimostrare che c’era ancora qualcuno a reggere il volante dell’autobus Italia ed a dare senso di stabilità alle istituzioni. Egli inoltre continuava a ripetere che “il Paese deve essere unito contro la mafia come lo fu contro il terrorismo”. Il messaggio di Capodanno del ’93 ebbe veramente il tono di un appello alla nazione”.
A metà settembre scorso, di fronte alla commissione antimafia, Claudio Martelli, Guardasigilli nel 1992, ha affermato testualmente che il presidente Scalfaro “fu il regista e il dominus della trattativa per normalizzare il rapporto con la mafia”, togliendo di mezzo quei politici che “avevano esagerato nel contrasto a Cosa nostra” per arrivare, invece, ad un “confronto morbido” con i boss. Sono opinioni e ricostruzioni convincenti ed attendibili del comportamento di Scalfaro in quel periodo?
“Solo di recente, leggendo centinaia di pagine delle audizioni della commissione parlamentare antimafia e decine di articoli ed interviste sulla vera o presunta trattativa Stato-mafia mi sono reso conto di quale valanga di accuse sia stata rovesciata addosso al presidente Scalfaro.
Nel ruolo di accusatore si è particolarmente distinto l’ex deputato socialista Claudio Martelli con un accanimento che rasenta l’acredine, quasi che avesse nei confronti del Presidente un fatto personale. Da tutta questa quantità di documenti ho cercato di enucleare tutti i fatti e gli episodi che costituiscono le fonti degli addebiti a lui ascritti e vorrei che li prendessimo in esame uno per uno per vedere se c’è modo di fare chiarezza”.
Si può subito ricordare che nel febbraio del 1993 fu recapitata al presidente Scalfaro (e ad altre personalità) la ben nota lettera dei familiari dei mafiosi detenuti in regime di 41 bis, nella quale si chiedeva una attenuazione di quelle severe misure. Dal presidente si recò in udienza pochi mesi dopo, l’ispettore dei cappellani nelle carceri (testimonianza di mons. Fabbri all’antimafia), che suggerì anche il nome del nuovo responsabile del dipartimento carcerario al ministero, al posto di Nicolò Amato (“il dittatore”, secondo i congiunti dei mafiosi). Scalfaro si adoperò presso il Guardasigilli Conso per sostituire Amato (giugno 1993) che peraltro era capo del Dap da ben dieci anni (fu nominato nel 1983)? Volle davvero mostrare condiscendenza verso le richieste dai boss e dei familiari, forse nella speranza di evitare altre stragi o omicidi della mafia?
E quando, nel novembre 1993, il ministro della Giustizia Conso revocò il 41 bis a oltre 300 mafiosi, il Presidente ne fu informato tempestivamente e quale giudizio manifestò? Era d’accordo e per quale motivo ( forse umanitario, dopo la segnalazione dei cappellani)?
“Si, partiamo dalla famosa lettera perché tutto sarebbe iniziato da lì. Io però non userei la forma assertiva assoluta da lei usata: “recapitata al Presidente Scalfaro”. Perché questa è solo una supposizione e quindi tutt’altro che una verità dimostrata. Dirò di più: quando la notizia di questa lettera cominciò ad affiorare in maniera frequente sui giornali pochi anni fa, io, che non ne avevo mai sentito parlare, preso dalla curiosità mi rivolsi ai funzionari del Quirinale che erano stati miei colleghi per rintracciare questo scritto negli archivi del Palazzo. La risposta fu assolutamente negativa e questo mi sorprese perché le lettere al Presidente non arrivavano mai a lui direttamente ma venivano prima protocollate e poi selezionate quelle da portare sul suo tavolo. Le mie perplessità sono poi aumentate quando ho appreso che altri destinatari non l’avevano mai vista, che alla Presidenza del Consiglio non se ne trovava traccia come al ministero dell’Interno e che al ministero della Giustizia, come dichiara alla commissione antimafia (pag.18) il magistrato Sebastiano Ardita (allora al DAP e oggi procuratore aggiunto a Messina): “quella lettera viene fuori molti anni dopo… in un fascicolo non classificato”. Giustamente Ardita si domanda come mai quel documento inviato anche alle redazioni dei giornali e circolato liberamente “non sia stato oggetto di valutazione essendo passato per le mani di organi centrali di Polizia, del DAP oltre che dell’Ufficio Centrale del ministero della Giustizia”. Quel documento, aggiunge il magistrato: “aveva di certo qualcosa di anomalo che andava verificato e su cui andava fatto un ragionamento, anche perché conteneva una minaccia grave al Capo dello Stato, con considerazioni personali e molto dirette”.
“E’ lecito quindi chiedersi se vi sia stata una ‘manina’ tanto potente da intercettare, prima che giungessero a destinazione, le lettere dirette al Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Interno e da occultare quella al Ministro della Giustizia? Oppure questa lettera è stata riposta in un fascicolo qualunque degli archivi del DAP quando si voleva farla ritrovare e le altre non sono mai state spedite o recapitate? Ho letto poi negli atti della commissione antimafia che il senatore Caruso del PdL ha affermato che: “la versione più accreditata è che la lettera è stata recapitata a Scalfaro ed al Presidente Giuliano Amato per mano del Vescovo di Trapani”. Ma questa versione deve avere una fonte attendibile, il senatore Caruso deve dire da chi lo ha saputo, perché l’accredito ha caratteristiche di ufficialità e non può essere… figlio di nessuno. Perché non è stato chiesto al senatore di essere più preciso e perché non si è cercato di fare verifiche di una affermazione tanto grave? Come si vede la vicenda di questa lettera è tutt’altro che chiara e le versioni fornite al riguardo sono tutt’altro che convincenti”.
Ma perché venne sostituito il direttore del Dap Nicolò Amato? Quale peso ebbe in questa decisione il presidente Scalfaro? Le ricordo che i pm di Palermo affermano che l’allora Capo dello Stato “ebbe un ruolo decisivo” nella scelta dei successori di Amato, il duo Capriotti-Di Maggio (forse attraverso i cappellani delle carceri, mons. Curioni e Fabbri).
“La sostituzione del professore Nicolò Amato secondo Claudio Martelli (e non solo lui) è la prima mossa per giungere alla attenuazione del 41bis. Negli ambienti politico-parlamentari dove si riflettono le vicende del ministero di via Arenula, Amato era ritenuto una personalità di notevole rilievo, anche se si diceva che non godesse delle simpatie dei colleghi per i suoi atteggiamenti di superiorità. Inoltre si riteneva anche che non fosse gradito a chi di volta in volta aveva la guida politica del ministero perché quasi pretendeva che essi scrivessero sotto dettatura. Se poi si tiene conto che ricopriva quell’incarico da circa undici anni, un tempo enorme per la permanenza di un direttore generale nello stesso incarico, si capisce perché si riteneva che quanto prima sarebbe stato sostituito.
Martelli che definisce Scalfaro “il regista e il dominus della trattativa” nella sua deposizione all’antimafia dice che i cappellani hanno raccontato di essere stati convocati dal Presidente perché egli, colpito da quella famosa lettera, voleva che indicassero qualcuno che potesse sostituire Amato (pag.39). Tuttavia, in una intervista rilasciata da monsignor Fabbri a Giovanni Fasanella di ‘Panorama’ si afferma testualmente, non, come dice Martelli, che i due cappellani erano stati “convocati” al Quirinale ma che “quell’incontro l’avevamo chiesto per discutere la sistemazione logistica dei nostri uffici”. E’ vero che mons. Curioni aveva buoni rapporti con Scalfaro e quindi è credibile che sia andato a sfogarsi da lui per un qualche atto sgradito. D’altronde Scalfaro conobbe don Curioni tra il 1955 ed il 1958, quando era sottosegretario alla Giustizia con delega (del Ministro Moro) per gli istituti di pena. Lo so per scienza diretta in quanto allora ero il suo segretario. Inoltre, nella intervista a Fasanella che chiedeva se in quella udienza del 31 Marzo 1993 avessero parlato del 41bis, mons. Fabbri risponde che non ne avevano parlato, così come afferma che il Capo dello Stato, pur avendo consapevolezza che il ruolo di Amato come direttore del DAP stesse volgendo al termine, non fece alcun nome per la sua sostituzione, ma suggerì loro di assistere e consigliare il ministro Conso nella scelta. A conferma di questo, alla commissione antimafia il citato monsignore afferma che il nome di Capriotti (successore di Amato), accettato dal Ministro, fu fatto da lui a Conso con il consenso di mons. Curioni partecipe al colloquio. Inoltre a pag.17 della stessa audizione, ad una domanda del presidente Pisanu che chiede se Scalfaro avesse mai parlato con loro del 41bis risponde testualmente: “No. Con noi no”. In proposito bisogna anche ricordare che il ministro Conso, interrogato dai magistrati, ha dichiarato che le decisioni sul 41bis le aveva prese in assoluta solitudine; e che il procuratore della Repubblica di Firenze dr. Quattrocchi, sempre all’antimafia, ha detto (facendo proprie le parole di Martelli o di Capriotti che aveva ascoltati come testi): “il 19 Luglio 1992 il 41bis era stato applicato a cani e porci”. Di fronte ad affermazioni così precise dei protagonisti di questa storia si può quindi rispondere solo con fatti inoppugnabili e non con suggestioni”.
I pm di Palermo (Antonio Ingroia e gli altri), nella memoria depositata a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio nel processo per la trattativa Stato-mafia, in corso davanti al Gup Morosini, affermano (pg.20) che Scalfaro “come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso”. Ritorna quindi, addirittura nella memoria dei procuratori palermitani, l’ipotesi di Scalfaro “dominus” della trattativa e della sostituzione dei ministri Scotti (Interni) e Martelli (Giustizia) con due nuovi responsabili (Mancino e Conso) più “morbidi” nei confronti dei boss.
Vale tuttavia la pena di ricordare: nel governo Amato (estate 1992, Scalfaro già al Quirinale) il ministro della Giustizia Martelli fu confermato, e si dimise invece spontaneamente a febbraio 1993 dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. Scotti, agli Interni, in un suo libro pubblicato nel 2004 (“Un irregolare nel Palazzo”) rievoca così la data del 29 luglio 1992 (pg.43): “Da poco più di un mese sono ministro degli Esteri. Giuliano Amato ha formato il nuovo governo d’accordo con il segretario della Dc Arnaldo Forlani. Pochi giorni prima il mio partito aveva deciso di introdurre l’incompatibilità tra il mandato parlamentare e gli incarichi di governo. Avevo per questa ragione deciso di non accettare la riconferma agli Interni, ma il presidente del consiglio (…) mi fece sapere che mi avrebbe ugualmente nominato ministro nel suo governo(…) “.
In conclusione: secondo lei quale fu “il ruolo decisivo” di Scalfaro, “dominus” di questi avvicendamenti – secondo i pm di Palermo e anche Martelli e Scotti – provocati da vicende politiche e giudiziarie, alle quali certamente il Capo dello Stato era estraneo? Ricorda come Scalfaro giudicò, nelle conversazioni con lei, la nomina dei nuovi ministri Mancino e Conso, nel governo Amato?
“Per attuare il deprecabile cedimento dello Stato alla mafia, Martelli addebita al presidente Scalfaro la sostituzione di Scotti con Mancino alla guida del ministero dell’Interno e la sua sostituzione con Conso al ministero della Giustizia. Vorrei ricordare l’intervista rilasciata a questa testata dall’on. Gerardo Bianco, al tempo di queste vicende presidente del gruppo parlamentare Dc della Camera, e quindi partecipe di tutte le fasi relative alla formazione del governo: egli dice chiaramente che la sostituzione di Scotti fu dovuta a problemi interni della DC. Questa versione è confermata da Giuliano Amato, presidente incaricato di formare il nuovo governo il quale, alle pagg. 5 e 9 della sua deposizione all’antimafia, afferma che la richiesta di destinare Mancino agli interni gli venne fatta da Forlani, segretario DC, di cui riferisce le motivazioni. Inoltre, sempre in quella audizione, ad una domanda specifica del Presidente Pisanu, Amato risponde: “Scalfaro a me non fece alcuna pressione.
Quanto alla sostituzione di Martelli con Conso anche qui mi pare doveroso ricordare gli avvenimenti. Martelli venne raggiunto da un avviso di garanzia e, a suo merito, va detto che presentò immediatamente le dimissioni da ministro della Giustizia come allora era consuetudine e come in precedenza avevano fatto altri suoi colleghi. Scàlfaro, in visita ufficiale a Trieste, ritenendo che un ministero di quella importanza non potesse restare neppure un minuto privo di guida politica, firmò subito i decreti con i quali venivano accettate le dimissioni di Martelli e affidato l’interim della Giustizia al presidente Amato. Come avvenne poi la scelta di quell’incarico è scritto alle pagg. 22 e 23 della deposizione di Amato all’antimafia. Egli afferma: “Conso venne in mente a me perché era il più illustre processual-penalista d’Italia, con una grande competenza tecnica e persona stimata anche sul piano etico. Chiesi al Presidente Scalfaro cosa ne pensasse e lui mi disse che andava benissimo e così chiamai Conso che accettò”. Anche queste sono parole chiare di coloro che sono stati protagonisti delle due vicende e mi sembrano molto diverse e credibili rispetto alle versioni dell’on. Martelli. Aggiungo che, con me, Scalfaro non fece alcun commento relativo a queste nomine, anche perché non vi era nulla di rilievo per il Quirinale da commentare”.
Ma ci furono motivi di contrasto in quel periodo tra il presidente Scalfaro e il ministro della Giustizia Martelli ? E perché il politico socialista fu ricevuto da Scalfaro al Quirinale insieme al ministro Dc Scotti (procedura inusuale), prima dell’incarico ad Amato per la formazione del governo? A cosa puntava il movimentismo politico di Martelli in quel momento delicato?
“Ecco, su questo fatto vorrei fare qualche precisazione in relazione al racconto che ne ha fatto l’on. Martelli. Egli ebbe udienza, insieme all’on. Scotti, dal Capo dello Stato alle ore 19 del 10 giugno 1992 come è annotato nel diario presidenziale che viene tenuto dagli uffici del Quirinale. Qui la memoria dell’on. Martelli è piuttosto confusa perché, a pag. 36 della sua seconda audizione alla commissione antimafia, dice:” Voglio fare presente che io incontravo Scàlfaro per la prima volta in vita mia”. E questo non è vero perché in realtà nel diario presidenziale, anche solo riferito all’anno 1992, sono riportate due udienze di pochi giorni prima, il 2 giugno alle ore 17 e l’8 giugno alle ore 20.
Quel 10 giugno quando i due arrivarono al Quirinale io ero assente per un impegno fuori Palazzo e quando tornai in ufficio, sul tardi, mi avvertirono che il Presidente era ancora nel suo studio e che desiderava vedermi. Mi recai da lui e trovai Scalfaro pensieroso ed anche un poco sconcertato. Mi disse che aveva ricevuto, insieme, Martelli e Scotti e che l’udienza era stata propiziata da una telefonata agli uffici di una alta carica di rilievo istituzionale estranea al mondo politico che riteneva utile un colloquio con loro da parte del Presidente ai fini della soluzione della crisi. Scalfaro mi raccontò che la conversazione aveva riguardato l’analisi delle difficoltà del quadro politico, le possibili ipotesi di conclusione della crisi e poi che, a conclusione dell’incontro, i due avevano dichiarato la loro alternativa disponibilità a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo.
Che nel mondo democristiano non fosse inusuale che qualche esponente giocasse le proprie chances il Presidente lo sapeva bene, e perciò non si meravigliò più di tanto di Scotti, ma che questo fosse possibile nel partito socialista, guidato da un segretario di forte personalità come Craxi, questo gli suscitava perplessità. Perciò rivolgendosi a Martelli in forma diretta gli chiese: “Ma il tuo capo questo lo sa?”. La risposta dell’interpellato fu altrettanto lapidaria: “il mio capo è Nenni”. Questo stava a significare che Martelli, facendo riferimento al vecchio leader socialista scomparso nel 1980 ed avendo già ricoperto la carica di vicepresidente del Consiglio e di vicesegretario del Psi, non riteneva di avere altri sopra di sé e si sentiva pronto ad essere il numero uno nel suo partito.
Il giorno seguente, o quello immediatamente successivo, Scalfaro incontrò l’on. Andò, un esponente di primo piano del Psi con il quale aveva cordiali rapporti ed a lui raccontò l’accaduto. Questi con ogni probabilità lo riferì a Craxi che, sentendosi scavalcato, da quel momento non volle più ricevere Martelli. Questa versione l’ho sentita più volte raccontare dal Presidente ai suoi consiglieri ed anche ad altre persone. Il fatto poi che le conseguenze presso Craxi siano quelle ammesse anche da Martelli non lascia il minimo dubbio sulla sua veridicità.
Da qui probabilmente anche il risentimento di Martelli che addebita a Scalfaro l’interruzione della sua brillante carriera politica. Ciò che non capisco, leggendo i resoconti della commissione antimafia, è perché il presidente Pisanu e il sen. Caruso del PdL mettano in collegamento questo episodio con l’avvicendamento ai vertici dei “Servizi Segreti” che hanno per fine istituzionale la tutela della sicurezza dello Stato e quindi nulla a che vedere con i retroscena ed i pettegolezzi della politica. Allora perché questo riferimento?
Ma vi è poi un altro punto in cui la memoria dell’on. Martelli non è precisa e mi riferisco alla sua affermazione che la rosa dei nomi fatta da Craxi al termine della consultazione sarebbe stata un raggiro dello stesso Scalfaro, tanto che lo stesso segretario socialista si sarebbe sentito in dovere di aggiungere che “l’ordine (in cui erano stati pronunziati i nomi) non era solo alfabetico”. Infatti afferma ancora Martelli: “La rosa e la scelta di Giuliano Amato sono state fatte indubitabilmente da Scàlfaro”. Io, siccome credo che da qualche parte esista ancora qualche copia audiovisiva della dichiarazione, sono certo che chi vuole controllare si renderà conto che il leader socialista disse esattamente il contrario e cioè che i nomi erano stati fatti “rigorosamente in ordine alfabetico”. Per la verità noi consiglieri, secondo voci raccolte da giornalisti in ambienti socialisti, ritenevamo che le preferenze di Craxi andassero a De Michelis ma dovemmo constatare che la convergenza degli altri componenti la coalizione di governo sul nome di Amato ne fece determinare la scelta. In favore di Martelli si espresse telefonicamente solo l’on. Occhetto, allora Segretario del Pds, ma la sua preferenza non ebbe molta rilevanza perché il Pds era estraneo alla compagine governativa”.
I pm di Palermo (nella memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio di fronte al gup) sostengono inoltre che il ruolo di concorrenti nel reato di minaccia al governo dell’epoca venne “assunto da uomini delle istituzioni oggi deceduti. Ci si riferisce all’allora capo della polizia Vincenzo Parisi ed al vicedirettore del Dap Francesco Di Maggio che, agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l’allora presidente della Repubblica Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”. Le pare che quest’accusa -molto grave per il Capo di Stato- sia plausibile?
“Non so su quali elementi si basi la convinzione che il Presidente fosse influenzato da Parisi. In quasi 60 anni di conoscenza e collaborazione con Scalfaro non ho memoria di qualcuno che sia mai riuscito a condizionare le sue decisioni. Ricordo che un esponente di primo piano della DC ebbe a definirlo “una testa al corindone” che, com’è noto, è il minerale con il massimo grado della durezza secondo la scala di Moss. Certamente i magistrati di Palermo non hanno scoperto tutte le carte sulle quali si basa il loro impianto accusatorio, e quindi sono curioso di conoscere nelle fasi processuali future il contenuto “delle varie e convergenti deposizioni testimoniali” che se vengono poste alla base del giudizio di un comportamento, quanto meno discutibile – anzi, al limite della infedeltà- di un Capo dello Stato, non potranno che contenere fatti incontrovertibili e non soltanto opinioni o supposizioni. Aggiungo poi, come cittadino che ha sempre avuto ed espresso fiducia nella giustizia, che mi dispiace che il dr. Ingroia abbia lasciato il campo. Capisco che l’offerta ricevuta era difficile da rifiutare, comprendo che la fase istruttoria, come lui stesso afferma, sia conclusa, tuttavia mi sarebbe piaciuto che fosse rimasto a finire il lavoro ed a sostenere l’accusa anche nella fase dibattimentale ove si forma la prova”.
Infine, qual è il suo giudizio su tutta la vicenda della trattativa Stato-mafia che sta lacerando il mondo politico e solleva polemiche sull’operato della magistratura palermitana? C’è stata davvero in quegli anni una trattativa con i boss (forse da parte di organi infedeli dello Stato, servizi deviati, politici impauriti…) per raggiungere una ‘convivenza’ o un ‘patto’ con il sistema mafioso?
“Non credo che una trattativa Stato-mafia, nel vero significato che si dà a questa parola, ci sia stata. Lo stesso Martelli, sempre così sicuro nelle sue asserzioni, a pag.30 della sua deposizione all’antimafia si definisce “molto circospetto nell’usare tale espressione”. Altro caso è se organi dello Stato abbiano agito in forma autonoma ed autoreferenziale compiendo qualche passo oltre quanto loro consentito. Io però non ho elementi per pronunciarmi anche su questa seconda ipotesi. Sta alla capacità degli inquirenti ed ai giudici dare la risposta giusta.
Ma adesso vorrei ricordare le parole rivolte al Presidente Scalfaro da due magistrati che in tempi diversi si sono occupati di fenomeni mafiosi. L’uno è Sebastiano Ardita (già citato come magistrato del DAP e poi come procuratore aggiunto presso il Tribunale di Messina) che nel suo libro “Ricatto allo Stato” (pag.43) riferendosi alle minacce contenute nella famosa lettera dei familiari di mafiosi, così si esprime: “Scàlfaro mantenne un profilo rigoroso e distaccato rispetto a quelle sollecitazioni, negandosi ad ogni richiesta di intervento. Non una parola, non un commento, non un intervento istituzionale per attenuare il regime del 41bis ed allontanare da sé quei pericoli”. L’altra citazione riguarda il compianto giudice Paolo Borsellino, del quale nel libro a lui dedicato (“RCS- Corriere della Sera” editore) è riportata la seguente frase: “Non era raro che Scàlfaro, allora ministro dell’Interno, scendesse a Palermo all’improvviso, per incontrare noi giudici e restare a cena. Mai come in quelle occasioni abbiamo percepito di avere lo Stato vicino”.”