Trump il gladiatore e la sfida alla democrazia

18 Luglio 2024

Articolo pubblicato su La Stampa
Annalisa Cuzzocrea, 16 Lug 2024

Titolo originale La democrazia offesa dal mito del gladiatore

Dopo il tentato omicidio, Trump potrebbe presentarsi come un Supereroe, o come l’unto dal Signore, per salvare l’America: in realtà l’obiettivo è allargare ancora di più il suo elettorato e capitalizzare lo scampato martirio.

Evan Vucci è l’autore dello scatto che ha stravolto la campagna presidenziale e cambiato il profilo della democrazia americana. È un premio Pulitzer, lavora per l’Associated Press, al Guardian dice: «Il bello della fotografia è che due persone possono avere reazioni completamente diverse davanti alla stessa immagine». E infatti, la metà del mondo – la parte maschile, machista senza sapere di esserlo, cresciuta nel mito della politica come sfida guerresca, imbevuta dello spirito del tempo riassumibile in: chi non vince soccombe – ha visto nel volto di Trump rigato di sangue, in quel pugno alzato al cielo con sullo sfondo la bandiera a stelle e strisce, un novello Captain America. Un supereroe che ha dimostrato al suo popolo di essere ferito ma invincibile, colpito ma indomito, protetto ma coraggioso.

Fermandosi per sollevare lo sguardo e il pugno e dire «Fight Fight Fight» Trump ha sfidato un pericolo di cui non poteva ancora conoscere i limiti e i contorni, ha fatto quello che farebbe un attore davanti alla telecamera, mostrare il profilo più adatto al proprio pubblico. Scrive sul New York Times Jason Farago: “Quella foto dice: sono salvo, sono forte, ma più potentemente dice: so che devo apparire salvo, so che devo apparire forte. La forza di quelle immagini non è in quello che rappresentano politicamente, ma in quello che trasmettono in termini di rappresentazione politica”.

Trump è naturalmente consapevole di tutto questo e si fa trovare pronto in un momento di estremo pericolo per se stesso e per il suo Paese. Ma la sua reazione, piuttosto che umana, appare dannunzianamente quella di un superuomo che non dimentica il suo ruolo e la sua lotta neanche mentre gli uomini del Secret Service lo tirano giù. E il superomismo non dovrebbe essere quel che serve alla democrazia. Non dovrebbe essere necessario in politica, come adesso sorprendentemente appare. È roba da despoti, Putin a petto nudo a cavallo, da tiranni d’altri tempi, e non c’è bisogno qui di scomodare l’ampia letteratura fascista al riguardo.

Il gladiatore, il Commander in chief, il combattente, sono moneta buona per le guerre civili e per gli Stati pronti a fare la guerra, cosa c’entrano con noi? Per quale ragione vediamo in quella foto la sfida e il coraggio, e non il rischio di un conflitto insanabile tra le due Americhe? Nell’ostensione del sangue che rischia di chiamare altro sangue lo spirito indomito, e non la minaccia del caos?

È, come dice Evan Vucci che pure crede di star parlando solo di composizione e fotografia, una questione di sguardo. Per la metà del mondo che ha visto in quell’istantanea il segno del vincitore, ce n’è un’altra – più femminile senza per questo essere femmina, meno machista e di certo lontana dalla politica come lotta – che legge altro. Non scambia per un attimo le parole “fight fight fight” per un’imprecazione; ricorda quanto Trump diceva solo il 16 marzo: «Se perdo per gli Stati Uniti sarà un bagno di sangue». Un pezzo di mondo che non dimentica che il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti non ha mai disconosciuto gli assalitori del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill: definisce gli arrestati «ostaggi», ha di fatto promesso loro la grazia. Nello sguardo “femminile” su quell’immagine, la cui struttura tanto assomiglia alla Libertà che guida il popolo di Delacroix, c’è il timore di due Americhe che non si riconoscono e non si parlano più. Che oppongono l’una all’altra verità sempre alternative. E che lo fanno con nella pancia – lo ha ricordato su questo giornale Lucio Caracciolo – 450 milioni di armi per 330 milioni di abitanti.

Ha scritto su Twitter lo scrittore Stephen King, cui possiamo senz’altro associare questo secondo sguardo: «Ho paura per il mio Paese». Gli ha risposto il padrone di Twitter, e sostenitore di Trump, Elon Musk: «Ahahaha». È la stessa risata con cui l’ex presidente Usa ha coperto le aggressioni fomentate dall’odio politico a danni di democratici come quella al marito di Nancy Pelosi, quasi ucciso a martellate nella sua casa. Ironia, sfottò, è stata questa finora la risposta dei trumpiani davanti alla violenza che ha colpito le persone che considerano nemiche. Adesso che a essere ferito è il loro idolo, sarebbe legittimo aspettarsi che le cose cambino.

Trump ha l’occasione di porsi come l’unto dal Signore che viene per salvare l’America intera, ed è probabile che tenterà di farlo per allargare ancora di più il suo elettorato e capitalizzare lo scampato martirio. Ma quel che dobbiamo chiederci noi, qui, ora, in un’Europa che appare lontana da quel grado di violenza seppure l’attentato allo slovacco Robert Fico dica altro, è se crediamo ai supereroi o ai costruttori di ponti.

È una domanda che serve per tutto: il dialogo in Parlamento, la convivenza civile, la pace, la guerra, il Medio Oriente, l’Ucraina. È una domanda che serve a capire se siamo ancora in grado di proteggere le nostre democrazie da un odio che rischia di corromperle dall’interno, o se dobbiamo darle per perse e vivere come fossimo dentro a un film di supereroi.

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