Il bombardamento sul campo profughi di Jabalia del 31 ottobre rende ancora più urgente un cessate il fuoco. Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu su questo punto è stato tuttavia chiaro: «nessun cessate il fuoco, è il momento della guerra».
L’operazione di terra di Israele, che nelle intenzioni dichiarate era intesa a breve termine, si protrae da cinque giorni. La direttrice generale dell’organismo Onu per l’infanzia, Catherine Russell dell’Unicef ha confermato l’alto numero di morti e feriti civili palestinesi, anche tra i più piccoli: «Ogni giorno, 420 piccoli sono uccisi o feriti. Cresce il rischio anche di morti per disidratazione», come riporta anche Avvenire in un articolo titolato “Gaza è un cimitero per bambini”.
Il New York Times parla di invasione e di una “ambiguità intenzionale” da parte di Israele: lo scrivono Patrick Kinglsey, capo dell’ufficio di Gerusalemme della testata americana, e Ronen Bergman, giornalista israeliano, che hanno parlato con militari e analisti militari. Questo l’inizio dell’articolo pubblicato col titolo “Sotto il velo di segretezza, l’invasione israeliana di Gaza è iniziata”:
Nei tre giorni trascorsi dall’inizio dell’invasione tanto attesa, l’esercito israeliano ha operato con un’ambiguità simile, sfidando le aspettative effettuando un’operazione di terra più potente di quanto inizialmente previsto. Mentre ha continuato a decimare Gaza e la sua popolazione con bombardamenti aerei, gran parte delle forze di terra sembrano essersi ritirate da Gaza City, la roccaforte di Hamas nel nord di Gaza, e sono rimaste invece nelle campagne ai margini della città.
Sotto la pressione degli Stati Uniti che hanno chiesto di moderare la risposta all’uccisione di oltre 1.400 persone da parte di Hamas sul suolo israeliano, Israele ha persino evitato di descrivere l’operazione come un’invasione. La perdita di vite umane, tuttavia, a Gaza continua ad aumentare, con il bilancio delle vittime palestinesi che finora ha superato le 8.000 persone, secondo i funzionari di Hamas.
«Tutto avviene nell’oscurità”, ha detto Andreas Krieg, esperto di guerra al King’s College di Londra, aggiungendo che “c’è un gruppo molto piccolo di persone che sanno veramente cosa sta succedendo, anche all’interno di Israele» […]
La sicurezza di Israele dipende dalla sicurezza dei palestinesi e viceversa, scrive sul Domani del 30 ottobre Nadia Urbinati, politologa e membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia. Qui il testo, condiviso dalla stessa Urbinati sul proprio profilo Facebook.
Dovrebbe essere chiaro a tutti, ai potenti leader di governo come agli opinionisti e ai cittadini, a coloro cioé che contribuiscono, in forme e con autorità diverse, a creare l’opinione nelle nostre democrazie, che anche qualora Hamas venisse sconfitto, resterebbe comunque la questione palestinese. Resterà fino a quando non si tradurrà in una forma statuale (o insieme o accanto a quella di Israele), fino a quando cioé quel popolo potrà contare su un sistema nazionale di difesa come tutti gli stati, senza affidarsi a milizie, fanatici e fondamentalisti al soldo di chi mira ad esercitare un’egemonia sulle popolazioni arabe e mussulmane (e non solo) della regione. A queste forze (che sono Stati, non popolazioni) la questione del popolo palestinese interessa poco, disposte come sono a creare le condizioni per una carneficina della quale non sono meno responsabili del governo israeliano guidato da Netanyahu.
La sicurezza di Israele dipende dalla sicurezza dei palestinesi. Insistere su questo legame, mostrarne la forza morale e la ragionevolezza politica, comporta lasciar cadere gli argomenti che si stanno cucinando ora dopo ora nei nostri paesi; argomenti che generano un odio di tipo religioso, come quello che presenta questa guerra in Medio Oriente come uno “scontro tra e di civiltà”, una lotta tra il “bene” e il “male” che comanda di stare in religiosa identificazione con un popolo contro un altro. La sicurezza dei due popoli dipende dalla sicurezza di ciascuno di loro. Diversamente c’è sterminio, eliminazione dell’altro, guerra permanente. Questa logica è stata all’origine dell’antisemitismo del Novecento che ha fatto scrivere all’Europa una delle pagine piú vergognose della storia dell’umanità, e che ha avuto un peso non indifferente nelle scelte su come chiudere il libro, per risolvere quel che l’Europa aveva prodotto.
Lo scontro religioso identitario che giustifica la guerra santa è il baratro nel quale rischiamo di cadere, nuovamente. Dovrebbe essere la missione delle opinioni pubbliche del mondo, a partire da quelle dell’Europa e dei paesi democratici, profferire parole chiare, senza balbettii. Per questo, l’argomento dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale è il più forte. Messo oggi sotto i piedi dalle logiche del consenso mediatico e da leader politici improvvidi, questo argomento è la sola strada per aiutare il processo di sospensione delle ostilità, primo passo di un processo verso un nuovo ordine politico nella regione, che sarà oggettivamente difficile e lungo. Ad esso non si può rinunciare, come sempre nei casi di guerra. Ma in questo caso soprattutto, perché non c’è soluzione, ora che tutte le soluzioni di ripiego o del meno peggio sono state esplorate, e si sono rivelare perdenti e foriere di conseguenze terrificanti. La debole e frammentata voce dell’Unione europea, l’andare spesso in ordine sparso dei leader di governo dei suoi paesi membri, è indicativa di una logica binaria che è la peggiore nemica della pace. L’Europa, quella che abitiamo, è nata su un patto chiaro, quello dell’anti-antisemitismo. Identificare quel patto con le posizioni che si possono avere sulle decisioni del governo israeliano è irresponsabile. La crescita di forme di anti-semitismo è un fatto che non si deve minimizzare. E che non si argina ne’ con la logica della guerra santa ne’ con la repressione delle opinioni – la strada autoritaria è come ossigeno per l’anti-semitismo.
Il 31 ottobre lo scrive sul Washington Post anche il segretario di Stato americano, Antony Blinken: «Difendere Israele è fondamentale, così come aiutare i civili di Gaza».
Il 31 ottobre è stato anche l’ultimo giorno in cui Craig Mokhiber, giurista, ha ricoperto il ruolo di direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR). Avvocato e specialista in diritto internazionale, politica e metodologia sui diritti umani, prestava servizio alle Nazioni Unite dal 1992. Mokhiber si è dimesso il 28 ottobre con una lettera dura: “Ancora una volta stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo”.
“La parola genocidio è troppo pesante per essere utilizzata a cuor leggero, anche perché sovente è strumentalizzata dalla politica e quindi banalizzata”, scrive su Volere La Luna Domenico Gallo, giurista e membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia. “Tuttavia, se l’obiettivo perseguito è quello della guerra per distruggere Gaza, identificata come il male assoluto, la condotta di Israele, anche in senso tecnico-giuridico, rientra nel concetto di “genocidio” come definito dalla Convenzione Onu del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio”.
L’utilizzo delle parole in tempo di guerra è parte della guerra stessa e più che mai il loro uso consapevole è un esercizio inevitabile soprattutto per chi ne parla in pubblico. Per questo un altro membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia, la filosofa Roberta De Monticelli, dopo aver ascoltato la rassegna stampa di Radio 3, Prima Pagina del 30 ottobre, in cui si è parlato di “bandiera ebraica”, ha scritto un accorato appello a una maggiore cautela dei termini impiegati nel riportare i fatti:
Questa mattina (30 ottobre) il pubblico attento di Prima pagina – la rassegna stampa di Radio 3 – si è sentito dire una cosa bizzarra: che in alcune dimostrazioni contro i bombardamenti su Gaza è stata bruciata la bandiera “ebraica”. Ma com’è possibile? Ne esiste una? Esiste senza dubbio la bandiera dello stato di Israele: ma lo stato di Israele comprende anche gli Arabi Israeliani, oltre ad altre minoranze non ebraiche. Inoltre ci sono numerosi ebrei che non sono israeliani e molti di essi in quella bandiera non si riconoscono. Dunque non sono ebrei? Eppure, il conduttore di questa settimana è addirittura il Direttore dell’Ansa, Luigi Contu! Una delle massime fonti di informazione in Italia, si deve presumere. Il fatto che l’abbia ripetuto un paio di volte farebbe temere che non sia un lapsus.
A meno che non volesse proprio sottolineare che la bandiera dello stato di Israele è la bandiera “ebraica”, come è (soltanto) “ebraico” lo stato di Israele. In effetti, con la legge Stato-Nazione del 2018 lo stato di Israele, pur riconoscendo cittadinanza alla sua minoranza araba (che, attenzione, non è quella dei territori occupati: quelli non sono cittadini israeliani ma appunto soggetti al regime di occupazione, diviso dopo Oslo nelle tre zone A B e C), nega esplicitamente loro i diritti di nazionalità, distinguendo dunque fra due classi di cittadini. E’ in questo senso che Nietanyhau ha potuto dire pubblicamente, nel 2019, che lo Stato di Israele “non è lo stato di tutti i suoi cittadini, ma degli ebrei solamente”. Strano però: perché invece lo stesso conduttore ha ripetuto sovente che Israele è una democrazia, l’unica del medio Oriente. Ora non c’è dubbio che per gli ebrei lo sia: ma in che senso lo è in generale? O esistono democrazie che formalmente non riconoscono pari dignità e diritti a tutti i lori cittadini?
Ma era solo l’inizio. Lo stesso Direttore dell’Ansa ci ha spiegato che Hamas ha in programma la distruzione “degli ebrei come tali”. Grazie al cielo un ascoltatore ha corretto il conduttore, ricordando che dal 2017 Hamas riconosce l’esistenza dello stato di Israele, ma solo entro i confini anteriori al 1967. E tuttavia non è stato corretto l’errore peggiore. Possibile che il Direttore dell’Ansa si ostini a identificare “gli ebrei” e lo stato di Israele? Da non credere alle proprie orecchie.
Postilla. Hamas ha mai decretato come suo scopo la distruzione degli ebrei in quanto tali? Lo chiedo a chi sa l’arabo e può tradurresenza ambiguità l’articolo 7 dello Statuto del 1988. Certamente anteriormente al 2017 non riconosceva la legittimità dello STATO di Israele, come tale, nella Palestina storica. YEHUDI non sarà il termine usato dai palestinesi per dire “sionista”?
Naturalmente questo non toglierebbe che sia un crimine di guerra l’azione del 7 ottobre scorso. Ma anche il diritto internazionale presuppone che l’identità degli imputati sia riconosciuta per quello che è. O no?
Se dall’Ansa viene un linguaggio tanto disinvolto, non stupisce più che perfino Ezio Mauro affermi che i miliziani di Hamas abbiano compiuto il loro crimine di guerra non contro i civili israeliani, in quanto cittadinidello stato che ha bombardato Gaza cinque volte prima di questa guerra, ma contro “gli ebrei come tali” (Repubblica, 30 ottobre). Come lo sa, Ezio Mauro? Facciamo, per rispondere, un esperimento mentale. Supponiamo che l’Iran e un mago atroce abbiano dato a un manipolo di miliziani di Hamas invisibilità e superpotenza tale da metterli in grado di sterminare senza alcuna conseguenza mille e cinquecento ebrei di New York. Potendo, l’avrebbero compiuto giusto perché erano ebrei? Sarebbe la sola riprova, mi pare. E se la risposta di Mauro è “sì”, davvero diventa interessante la domanda come lo sappia.
In un’intervista concessa il 28 ottobre (Il Fatto Quotidiano) Francesca Albanese lamenta che, a fronte della pressante richiesta fatta da tutti gli esperti di diritto internazionale perché la comunità internazionale intervenga a fermare lo sterminio in corso, si chiede fra l’altro: “Dov’è l’Italia? Non stiamo tutti avallando questo massacro?” – Ecco, se questa è l’informazione cui ci abbeveriamo, non c’è da stupirsi che la risposta sia desolata. Sì.