Priebke. Padoan: la democrazia e il cadavere

19 Ottobre 2023

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Condividiamo questo articolo di Daniela Padoan, Presidente di Libertà e Giustizia, pubblicato su La Stampa del 17 ottobre 2023 con il titolo “Negazionismo e rimozione della memoria, il cadavere di Priebke ci interroga ancora”

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L’11 ottobre 2013, l’ex capitano delle SS Erich Priebke, condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse ardeatine, moriva più che centenario nella sua casa romana. La traslazione della salma venne rifiutata dall’Argentina e dalla Germania e, il 15 ottobre, il Vicariato di Roma negò lo svolgimento delle esequie nelle chiese della Capitale. La cerimonia funebre venne officiata di nascosto ad Albano, nella comunità lefebvriana della quale facevano parte vescovi che avevano negato l’esistenza delle camere a gas. Nel trasporto, la bara fu scortata da una folla di nostalgici nazifascisti e presa a pugni e calci da manifestanti allontanati dalla polizia, tanto che, per evitare scontri nell’imminenza dell’anniversario del rastrellamento del Ghetto, il Prefetto di Roma decise che il corpo venisse condotto di nascosto all’aeroporto militare di Pratica di Mare e di lì su un’isola, tra le mura di un carcere abbandonato, sotto una croce senza nome, nella protezione di un segreto di Stato che tuttora permane a evitare episodi di culto o di sfregio della tomba.

Torna alla mente Il re e il cadavere, favola indiana che ci è stata restituita nella splendida prosa dello storico delle religioni tedesco Einrich Zimmer, morto nel 1943 dopo essere stato costretto all’esilio dalle persecuzioni naziste. Un re molto potente si trovò, perché la sua anima potesse vincere sul male, a dover compiere un viaggio iniziatico nell’oscurità abitata dagli spiriti, recidere la corda che teneva appeso a un albero il cadavere di un impiccato, trasportarlo sulle spalle fino alla città e dargli sepoltura. Ma ogni volta, prima dell’epilogo, il corpo si rianimava ed emanava una stridula risata per poi tornare in volo al ramo dell’albero, come abitato da uno spettro. La storia si ripeté per ventiquattro volte, e ogni volta il cadavere, prima di dileguarsi, chiedeva al re di risolvere un enigma. Solo quando il re rinunciò alla presunzione della risposta e accettò il proprio smarrimento, lo spettro si diede per vinto e abbandonò il cadavere, che tornò finalmente corpo inerte, inoffensivo, di cui divenne possibile la restituzione alla terra e, con essa, la liberazione.

Il cadavere di Priebke interroga a fondo la democrazia di un Paese che permise al torturatore di via Tasso, responsabile della fucilazione per rappresaglia di 335 persone rastrellate a caso, di vivere in una comoda residenza, essendogli stati benignamente concessi gli arresti domiciliari benché non avesse mai mostrato il minimo segno di pentimento, e addirittura di presiedere, pochi anni prima della morte, la giuria di un concorso di bellezza. A dieci anni da quella morte, in un progressivo rarefarsi della necessità collettiva della memoria, siede alla presidenza del Senato chi ha potuto, da poco insediato, definire il battaglione SS Bozen, responsabile dell’eccidio delle Ardeatine, una «banda musicale di semi-pensionati», senza che vi fosse alcuna conseguenza istituzionale. Eppure, in un’intervista-testamento raccolta in sette pagine e in un video, resa nota poche ore dopo il decesso, l’ex capitano delle SS non aveva negato nulla; aveva, anzi, affermato che «la fedeltà al proprio passato è qualcosa che ha a che fare con le nostre convinzioni. Si tratta del mio modo di vedere il mondo, i miei ideali, quello che per noi tedeschi fu la Weltanschaung e che ha ancora a che fare con il senso dell’amor proprio e dell’onore». Il racconto della Shoah, affermava in quel lascito, non è che «manipolazione delle coscienze», perché «le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio».

Preso atto della decisione dell’allora sindaco di Roma, Ignazio Marino, di proibire, in accordo con Questura e Prefettura, ogni esequia pubblica, il legale di Priebke dichiarò che la salma sarebbe stata trasportata in Argentina, a Bariloche, perché potesse riposare accanto a quella della moglie nella ridente cittadina di montagna che, grazie all’organizzazione Odessa (Organizzazione degli ex membri delle SS) e alle complicità in Vaticano, nell’immediato dopoguerra era diventata un rifugio per i gerarchi nazisti in fuga dai processi europei. Tra questi, Josef Mengele e Adolf Eichmann. Il destino – o forse lo spettro del cadavere che propone gli enigmi al re – fece sì che a decidere della sepoltura di Priebke fosse il figlio di Jacobo Timerman, il grande giornalista argentino di origine ebraica perseguitato dalla giunta golpista che nel 1976 precipitò nel nulla trentamila desaparecidos, molti dei quali ebrei, sospetti in quanto tali agli occhi di chi, nella triade Dio-Patria-Famiglia, era stato nutrito di ideologia antisemita. Hector Timerman, allora ministro degli esteri del governo di Buenos Aires, diede ordine di respingere ogni procedura che potesse consentire «l’ingresso nel Paese del corpo del criminale Erich Priebke». Le sue parole, affidate a Twitter, fecero il giro del mondo, e quando il Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro credette di poter risolvere il dilemma inviando il corpo in Germania, patria di Priebke, dovette incassare il rifiuto dei sindaci di quattro città e dei cimiteri militari tedeschi, perché l’ex SS non era deceduta in guerra. 

Un corpo-morto che nessuno voleva, un cadavere del quale la comunità ebraica di Roma aveva chiesto la cremazione e la dispersione delle ceneri, rifiutata dai figli. Un corpo che – come Hannah Arendt disse di Eichmann – si vorrebbe non avesse mai abitato il pianeta, e che tuttavia fino a pochi giorni prima della morte aveva passeggiato per le vie e i giardini del suo quartiere romano seguito da una scorta pagata dallo Stato, costantemente messa a presidio della sua abitazione, festeggiato nel suo centesimo compleanno da una folla di neofascisti ai quali solo una sollevazione sui social poté impedire di organizzare una celebrazione pubblica.

Il rovesciamento dei fatti, la riscrittura della storia, la rimozione della memoria, un subdolo negazionismo che getta la sua ombra sulla realtà che viviamo, cercando scorciatoie, complotti e colpevoli per negare o ridicolizzare le profonde crisi che ci affliggono – climatica, sociale, culturale, di diritti, di rappresentanza. E’ questo è il cadavere che la nostra democrazia deve caricarsi sulle spalle, fino a cacciare definitivamente lo spettro che continua ad abitarne il corpo.

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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