La nostra band, gli U2, ha dato avvio al tour europeo due mesi fa con un’idea che pensavamo potesse risultare un po’ provocatoria, un po’ trasgressiva. Appigliandoci alla presunzione bonaria delle rockstar impegnate in una causa, abbiamo annunciato che avremmo sventolato una grande, sgargiante bandiera blu dell’Ue. Non sapevamo che tipo di reazioni questo gesto avrebbe suscitato. Il che, in un certo senso, era esattamente il motivo per cui intendevamo farlo. Volevamo scoprirlo.
Da due mesi, e mentre adesso ci prepariamo a sventolare la bandiera a Milano, rimaniamo sorpresi nel vedere il pubblico ai concerti alzarsi in piedi e applaudire un simbolo oggetto di grandi polemiche, persino di disprezzo in alcuni ambienti. L’Europa, che a lungo ha suscitato sbadigli, oggi provoca aspre e accese discussioni. L’Europa è teatro di forze potenti, impulsive e contrastanti destinate a dare forma al nostro futuro. Dico il nostro futuro perché non si può negare che ci troviamo tutti sulla stessa barca, in mari agitati da condizioni meteorologiche estreme e politiche estremiste.
L’idea di Europa non è particolarmente in voga di questi tempi, e ciò malgrado negli ultimi 50 anni non vi sia stato posto migliore in cui nascere dell’Europa stessa. Sebbene si debba lavorare molto più duramente per estendere i vantaggi del benessere, gli europei sono più istruiti, più al riparo dagli abusi delle grandi multinazionali e, rispetto alle persone che vivono in ogni altra regione del mondo, conducono una vita migliore, più lunga, più sana e in generale più felice. Esatto, più felice. C’è chi le misura queste cose!
L’Irlanda è un posto con un legame emotivo speciale con l’Europa, e con l’idea di Europa. Forse perché l’Irlanda è un piccolo scoglio in mezzo al vasto mare, desiderosa di far parte di qualcosa di più grande di noi (perché la maggior parte delle cose sono più grandi di noi). Forse perché ci sentivamo più vicini all’Europa che ad altre persone che vivevano sulla nostra stessa isola.
L’appartenenza all’Europa ci ha permesso di diventare una versione migliore e più sicura di noi stessi. Camminiamo un po’ più a testa alta tra i nostri amici. E più il Nord e il Sud dell’Irlanda si sono avvicinati all’Europa, più noi irlandesi ci siamo avvicinati gli uni agli altri. La vicinanza ha oltrepassato il confine e ha abbattuto le barriere.
Per dolorose ragioni storiche, non prendiamo alla leggera il concetto di sovranità. Se per sovranità si intende il potere di un Paese di governare sé stesso, l’Irlanda ha constatato che collaborare con altre nazioni le ha dato un potere maggiore di quello che avrebbe potuto esercitare da sola, e una migliore capacità di agire sul proprio destino.
Da europeo mi sento orgoglioso pensando agli italiani e ai tedeschi che hanno accolto così tanti rifugiati siriani quando questi, terrorizzati, hanno cominciato a fuggire dalla guerra civile (mi sentirei ancora più orgoglioso se fossero stati molti più Paesi a farsi avanti); orgoglioso della lotta dell’Europa per porre fine alla povertà estrema e al cambiamento climatico; e, sì, estremamente orgoglioso dell’accordo di pace del Venerdì Santo (Good Friday Peace Agreement) e di come altri Paesi si siano stretti attorno all’Irlanda sulla questione dei confini, riaccesa dalla Brexit. Mi sento privilegiato ad aver assistito al più lungo periodo di pace e prosperità della storia del continente europeo.
Ma tutti questi successi sono ora minacciati, perché il rispetto per la diversità – premessa dell’intero sistema europeo – viene messo oggi in discussione. Come ha detto il mio connazionale John Hume: “Ogni conflitto ruota attorno alla differenza, che si tratti di una differenza di razza, religione o nazionalità. Gli architetti dell’Europa hanno deciso che la differenza non è una minaccia… La differenza è l’essenza dell’umanità” e dovrebbe essere rispettata, esaltata e, persino, coltivata.
Stiamo assistendo a una impressionante perdita di fiducia in questa idea. Fomentati dalle asimmetrie della globalizzazione e dal fallimento della gestione della crisi migratoria, i nazionalisti affermano che la diversità è un pericolo. Rifugiatevi – ci dicono – nell’omogeneità; scacciate il diverso. La loro visione per il futuro mi sembra molto simile al passato: politica identitaria, risentimento, violenza. Abbiamo sentito questo appello pieno di odio in Polonia, ad esempio, e in Ungheria, nonché il mese scorso alle elezioni in Svezia. Il nazionalismo è tornato e ha un impatto penalizzante sulle pari opportunità.
La generazione che ha subìto la guerra mondiale ha assistito ai risultati funesti di quel modo di pensare. Ha scorto un sentiero fuori dalle macerie, oltre i muri di cemento e il filo spinato, per far arretrare la cortina di ferro tratteggiata sul cavalletto di Stalin, e ha respinto l’idea che le nostre differenze siano tutto ciò che ci definisce.
Ha compreso che il pensiero a somma zero era un patto suicida.
L’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione europea. Il sogno che ci ha uniti era tanto italiano quanto francese o tedesco o ancora, anche se abbiamo aderito anni dopo, irlandese. L’Italia è sempre stata al centro di questo grande progetto comune. Adesso invece si trova al centro di una crisi che minaccia tutti noi e che, se lasciamo che le nostre divisioni ci definiscano, potrebbe consumarci.
Amo le nostre differenze: i nostri dialetti, le nostre tradizioni, le nostre peculiarità, “l’essenza dell’umanità”, come diceva Hume. E credo che lascino ancora spazio a quello che Churchill chiamava “un patriottismo allargato”: una pluralità di appartenenze, identità stratificate, che consentano di essere al contempo irlandese ed europeo, italiano ed europeo, non l’uno o l’altro. La parola patriottismo ci è stata rubata da nazionalisti ed estremisti che esigono che vi sia uniformità. Ma i veri patrioti riconoscono l’unità al di sopra dell’omogeneità. Riaffermare questo primato è, per me, il vero progetto europeo.
Può sembrare che non ci sia romanticismo in un “progetto” o fascino in una burocrazia ma, come ha detto la grande Simone Veil, “l’Europa è il grande progetto del XXI secolo”. Di sicuro alcuni elementi di quel progetto devono essere ripensati e aggiornati. Ma i nostri valori e le nostre aspirazioni no. Rendono l’Europa molto più di una semplice istituzione o di un luogo geografico. Rappresentano il vero nucleo di chi siamo come esseri umani, e di chi vogliamo essere. Su quell’idea di Europa vale la pena scrivere canzoni, e sventolare grandi e sgargianti bandiere blu.
Per trionfare in quest’epoca travagliata, l’Europa è un’idea che deve diventare un sentimento.
La Repubblica, 9 ottobre 2018