Dieci anni fa Gustavo Zagrebelsky era al Lingotto ad ascoltare Walter Veltroni. Ora, dopo la campagna per il No al referendum, il presidente emerito della Corte Costituzionale osserva da lontano mentre lavora alla quinta edizione di Biennale Democrazia, intitolata «Uscite d’emergenza». «L’emergenza è il pericolo incombente che si affronta con lo stato d’eccezione per non naufragare – dice -. Ma emergenza è anche la vita nuova che si affaccia e chiede d’essere riconosciuta. La prima è figlia della disperazione; la seconda, della speranza».
L’Europa a quale emergenza appartiene: naufraga nel populismo o spera in una vita nuova?
«Quando il pensiero s’inaridisce, pullulano gli slogan. Oggi trionfa il populismo. Fino a qualche tempo fa, l’antipolitica di cui si parla sempre meno, perché quelli che usavano questa parola accusatrice hanno dimostrato di avere essi stessi poco a che fare con la politica».
Considera anche il populismo solo uno slogan?
«Ma chi è il populista? Populisti erano i socialisti russi della seconda metà dell’800 che si battevano per l’abolizione della servitù della gleba; Simón Bolívar che lottava per il riscatto delle plebi in America Latina; Perón e suoi descamisados; ma anche Napoleone I e III con i loro plebisciti; Hitler è stato detto populista da papa Francesco e la stessa parola è stata usata per Obama, Clinton e ora Trump. Da noi Berlusconi e Renzi non sono populisti, così come Grillo, ciascuno a modo suo? Finiamola con le etichette».
Davvero lei crede che la parola su cui ci si divide nel mondo sia in fondo vuota e ingannevole?
«Forse un significato generico ce l’ha, ma è tale da sconsigliarne l’uso. Chi si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia; populista è chi è contro. Dunque il significato è altamente politico, attiene a un aspetto dello scontro in atto nelle nostre società».
Tra le parole dell’ambiguità annovera anche il tanto evocato e temuto «sovranismo»?
«La globalizzazione ha ridotto gli Stati a gestori dell’ordine pubblico e ha privato masse di individui di tutele giuridiche e sociali. Non mi pare sbagliato rivendicare qualche parte di sovranità. Il punto è che dilaga un sovranismo aggressivo e nazionalista, a scapito di uno democratico».
Come si fa a distinguerli?
«Tutti, a cominciare dal Pd, dovrebbero chiarirsi con se stessi invece di insistere nella retorica inconcludente del “battere i pugni sul tavolo”. Il punto di partenza deve essere la Costituzione che non prevede affatto la liquidazione della sovranità nazionale. Ne consente “limitazioni” e non senza condizioni: devono servire alla costruzione della pace e della giustizia tra le Nazioni».
L’Unione Europea serve a questo?
«Mi pare che sia sempre più diffusa la risposta negativa. E allora occorre ripartire dall’interesse nazionale: non per chiuderci, ma per aprirci a una fattiva politica d’integrazione per quegli scopi. Riaffermazione della sovranità ed Europa non sono incompatibili. Se manca la prima, saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia».
Il Lingotto 2017 può affrontare questi temi?
«Come tutti quelli che hanno a cuore politica e democrazia, lo spero. Ma temo il profluvio di slogan e di parole vuote. Wittgenstein ha scritto qualcosa del genere: di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Si potrebbe aggiungere: si deve tacere anche di ciò di cui è inutile parlare. Solo delle cose che potrebbero essere diverse da ciò che diciamo merita parlare».
Che c’entra Wittgenstein con il Lingotto?
«Se sottoponessimo i discorsi pubblici a questo semplicissimo test, resterebbe molto poco. Il culmine si è toccato nell’esordio di un documento del Pd di qualche anno fa: “Noi, i democratici, amiamo l’Italia”. Perché, qualcuno sospettava il contrario?».
E l’idea dei tavoli di ascolto?
«Il rischio delle vuote parole che svaniscono nel nulla mi pare assai alto. Invece che generici giri di opinioni su temi quali “populisti e democrazia” o “il potere del sapere”, non sarebbe più congrua una discussione su proposte specifiche del partito? Un partito che dice: non ho idee, datemele voi, dichiara impotenza e superfluità».
Come vede Renzi?
«Sfibrato e sempre più isolato, vittima d’una certa viltà di coloro che gli sono stati intorno non senza adulazioni e connessi benefici e ora, nella difficoltà, lo stanno abbandonando. Soltanto per questo, merita simpatia».
Come uscirà il Pd dalle primarie?
«Corre un gran rischio. Se Renzi, malgrado ciò che sta accadendo, vince le primarie è altissimo il rischio che il partito cada nella fossa, perda definitivamente la sua identità».
Come finirà la partita sulla legge elettorale?
«Sebbene si dovesse approvare “subito!”, non se ne parla più. Sembra comunque che tutti, volenti o nolenti, siano rassegnati a ritornare alla proporzionale, la formula che fa meno paura in un sistema tripolare. Oltretutto, è quella più funzionale a una grande coalizione per poter arginare l’ascesa dei 5Stelle: il fantasma che turba i sonni di tanti».
Si ripiomberà nella prima Repubblica?
«Potrebbe essere un’uscita non voluta ma subita. Con prospettive inquietanti che spetta ai professionisti della politica scongiurare. Se la Repubblica di Weimar è in vista, spetta a loro agire per evitarla».
Anche ai Cinquestelle?
«Certo. Non mi piace l’ostracismo nei loro confronti. Al pari, pur apprezzando lo spirito di novità che portano nella vita politica, non mi piacciono i settarismi, i riti inquisitoriali che portano alle espulsioni e l’indisponibilità a cercare accordi, mediazioni».
Come vede l’evoluzione del M5S?
«In assenza di responsabilità nazionale potrà ancora gonfiarsi di voti protestatari. Ma attenzione: nella protesta possono confluire cose d’ogni genere, anche contraddittorie e pericolose. La diffidenza reciproca con coloro che potrebbero contribuire a costruire un gruppo dirigente all’altezza della situazione non è un buon viatico verso il governo».
Rifiutare alleanze è il loro Dna.
«Mettersi e mettere in gioco, qui è il problema della democrazia nel nostro Paese. La democrazia è il regime del compromesso. Non lo dico io, ma il grande giurista Hans Kelsen. Il punto è: compromessi con chi, con quali contenuti, in vista di che cosa. Non ogni compromesso è, come si dice, “inciucio”».
Nemmeno quello con Berlusconi?
«Se non è un compromesso corrotto, sugli interessi, chi l’ha detto che è inciucio per definizione? Le cose cambiano, bisogna leggere bene le carte. Se sono pulite, a costo di scandalizzare, dico che non vedo a priori lo scandalo».
La Stampa, 09 Marzo 2017