L’idea di una “Seconda Repubblica”, centrata sull’esecutivo e non sul parlamento, nasce in odio ai partiti nel 1958, alla caduta del monocolore democristiano e al concomitante avvento in Francia del presidenzialismo gollista; senatori nominati, incriminabili in regione e immuni a Roma, che potranno ritardare i lavori della Camera, cambiare la Costituzione, ma non toccare il governo; la parola “governability” e l’obiettivo del minimo di democrazia.
Nel tuo ultimo libro, scritto insieme a David Ragazzoni, ricostruisci le origini e il percorso compiuto in Italia dall’idea della “Seconda Repubblica”, un’idea per lungo tempo minoritaria e poi, via via, affermatasi sempre più…
Sì, nel libro che ho scritto con Ragazzoni dimostriamo che l’espressione “Seconda Repubblica”, che secondo le nostre ricerche appare per la prima volta nel ’58 con la caduta del monocolore democristiano di De Gasperi, è una categoria politica vera e propria che contiene già tutti gli elementi che poi caratterizzeranno la Seconda Repubblica alla sua nascita. E a parlarne sono alla fine degli anni Cinquanta Randolfo Pacciardi, repubblicano cacciato dal partito, Giorgio Pisanò, fascista, e Baget Bozzo del partito democristiano, il quale parla di democrazia plebiscitaria e del bisogno di un leader della provvidenza. Quando Renzi dice che è da settant’anni che si aspetta la riforma in qualche modo ha ragione perché già nella Costituente c’era un gruppo di ex monarchici come Lucifero, o comunque antidemocratici come i rappresentanti dell’Uomo qualunque che pensavano che la democrazia parlamentare fosse una iattura per l’Italia, capace di produrre solo un pessimo governo, litigi, compromessi e governi di coalizione, ovvero tutto quello che secondo Hans Kelsen denotava la democrazia parlamentare moderna. Per loro il bicameralismo e la repubblica assemblearista, come la chiamavano, era solo il frutto della reazione contro il fascismo. Il fascismo si fondava sulla centralità dell’esecutivo: la repubblica, per reazione si doveva fondare sulla centralità del parlamento, ma non andava bene.
Quindi quest’idea che ci voglia l’uomo della provvidenza non è per niente una banalità, è conseguente a una concezione della politica profondamente critica del liberismo individualista e soprattutto timorosa della modernità, ovvero della visione politica che vede nella orizzontalità dello Stato moderno (di matrice Hobbesiana) ereditato dalla liberaldemocratica un grande problema.
La caduta del monocolore democristiano, con le dimissioni di De Gasperi nel ’58, coincide con l’avvento in Francia di De Gaulle, che in quattro anni con quattro plebisciti vara la Quinta repubblica, cambiando la costituzione in senso presidenzialista da parlamentarista che era. Questi due elementi insieme, caduta del monocolore e modello gollista, si sposano, e dentro la Dc, sommessamente prima (in una piccola minoranza), poi sempre di più (soprattutto negli anni Sessanta, a fronte di una società civile che ribolle di movimenti, sembra essere anarchica, disobbediente, problematica) si fa strada l’idea della necessità di un rafforzamento dell’esecutivo; allora, quella idea gollista sembra poter essere la soluzione a tutti i problemi di instabilità, come loro la chiamano. È un’idea che si fa avanti, sempre di più. Basta pensare a Craxi.
Da quella tradizione viene Barbera, viene Ceccanti, vengono tutti coloro che oggi vogliono mettere fine finalmente alla repubblica antifascista e fare una repubblica realmente postfascista, che non abbia bisogno di essere così orizzontalista o, come la chiamano, assemblearista. A loro avviso ci si può permettere, dopo tanto tempo, di avere una visione verticistica senza il timore di cadute fasciste.
Fino ai due partiti più grandi, la Dc e il Pci?
Ci sono alcuni momenti decisivi, noi l’abbiamo riscontrato analizzando i documenti: prima la morte di Moro, che era un grande parlamentarista orizzontalista (ammiratore di Kelsen), poi quella di Berlinguer che, benché non disconoscesse la possibilità di un monocameralismo (come tutti i giacobini d’origine, del resto) era profondamente antipresidenzialista e contrario alla centralità dell’esecutivo e convinto proporzionalista (proprio in quando monocameralista). La scomparsa di questi due grandi protagonisti della scena politica ha liberato coloro che non avevano fin lì avuto spazio o legittimità, e messo in moto all’interno dei due rispettivi partiti uno sviluppo libero, senza autocensure, di questa visione presidenzialista, detta in modo più o meno esplicito, ma comunque leaderistica, o “per un premierato forte”, come si usa dire ora. Ci hanno provato in vari modi a realizzarla. Prima attraverso le commissioni, come sappiamo, dal 1983, con la prima commissione Bozzi e le seguenti, ma senza mai riuscirci. Fino a che il problema è rimasto dentro il parlamento, quindi con i partiti che si facevano lotta l’uno contro l’altro per non dare a nessuno, diciamo così, il riconoscimento della vittoria, i veti incrociati hanno impedito che andasse in porto. Quando l’iniziativa è partita dal governo ce l’ha fatta in tutti e due casi, con Berlusconi prima e adesso con Renzi. Partite dal governo, queste proposte riescono ad avere maggioranza parlamentare. Però è significativo che fino a che la discussione sulla Seconda Repubblica sta dentro il parlamento il presidenzialismo non riesce a nascere; perché nasca (in forma esplicita o implicita, come quella odierna) c’è bisogno che sia il capo dell’esecutivo e il suo governo a mettersi alla testa della revisione costituzionale per farla passare.
Ma gli stessi partiti, per come erano organizzati, erano forse un deterrente al presidenzialismo…
Infatti e questa è la seconda cosa interessante da sottolineare: tutto questo processo di Seconda Repubblica, ovvero di fine della repubblica assemblearista, o parlamentarista pura, non corretta dal carisma (come accennavo prima, questo adesso solamente implicito, ma basterebbe un tocco di mutamento e sarebbe già un presidenzialismo vero) si è fatta avanti man mano che i partiti sono decaduti nella loro dialettica, nella loro legittimità. Quindi più i partiti erano forti o di massa più questa idea era debole; più i partiti si sono indeboliti e fatti solo di eletti o amministratori più questa idea si è fatta avanti, quasi autonomamente, come una macchina che prende velocità. Dopo il ‘92 i partiti che non sono scomparsi, sono sfibrati e senza legittimità politica, usano l’ideologia della Seconda Repubblica come salvagente per costruire progetti politici che non hanno più.
Non è un caso che questa riforma sia passata in parlamento in maniera vergognosa, con varie maggioranze, addirittura con voti di fiducia!, dove tutti, in pratica, hanno contribuito a farla, perché è stata vista come la salvezza per partiti che ormai sono solo partiti istituzionali, “partiti cartello” che hanno nelle istituzioni l’unico loro aggancio di potere, un aggancio che deve essere tanto più forte quanto più debole è quello con la società; quindi fortissimo, perché fuori i partiti non ci sono più. I circoli del Pd sono una cosa di facciata. Quindi solo se incardinati nelle istituzioni, istituzioni cambiate all’uopo ovviamente, i partiti hanno l’unico modo per salvare se stessi.
La maggioranza ottenuta in un’elezione, quale che sia la partecipazione elettorale, cosa completamente irrilevante, si dovrà incardinare fortemente, strutturalmente all’interno dello Stato attraverso un meccanismo per cui chi vince prende tutto o quasi. E lo prende senza bisogno che nella società sia presente o sia qualcosa. Può essere anche niente nella società. Un signor no può arrivare a costruire la sua maggioranza e avrà un potere straordinario nelle istituzioni senza esistere fuori.
Questa cosa è molto interessante perché partiti così evanescenti dal punto di vista della presenza nella società civile avranno la possibilità di incardinare se stessi nelle istituzioni, quando vincono; ma quando perdono e diventano completamente irrilevanti in parlamento, cercheranno di esercitare l’unico potere che potranno ancora esercitare, quello di ricatto, che sarà sempre più forte perché anche le maggioranze monocolori o granitiche come le prefigura il premier Renzi saranno attraversate da fazioni, ricatti, pretese… Questa sarà la logica oligarchica della Seconda Repubblica, una logica antidemocratica nello spirito, con partiti ombra di se stessi, ridotti a essere un insieme di personaggi di potere.
Rispetto a questo problema penso che la spaccatura tra istituzioni e cittadini e tra partiti istituzionali e cittadini sia tale che votare “no” oggi significhi votare per la nostra cittadinanza. Noi abbiamo già visto cosa vuol dire avere una cittadinanza senza voce. L’abbiamo visto coi referendum, l’abbiamo visto con l’astensionismo elettorale che arriva al 70 per cento in alcune regioni come l’Emilia-Romagna, che però non fa assolutamente più notizia, non incide più. In questo senso la riforma della Costituzione è una presa d’atto, è una codificazione di un fenomeno e di un processo che già esiste in società, profondo, quello di una forma di eletto-oligarchia. E questo sarà un problema serissimo per l’intera legittimità del sistema.
Perché questo?
Ma perché in questo bailamme di distruzione dell’etica pubblica, finora almeno le istituzioni avevano retto. Hanno retto con vent’anni di schifezza berlusconiana, e prima di allora hanno saputo resistere al terrorismo e sconfiggerlo, hanno retto negli anni di Mani pulite. E hanno mantenuto ancora un’aura di imparzialità e di superiorità rispetto alle parti. Ma quando le parti le occuperanno direttamente, come avverrà con questa riforma combinata elettorale e costituzionale, lo Stato stesso perderà la sua aura di imparzialità e superiorità rispetto alle parti; e a quel punto la crisi di legittimità dalla opinione tracimerà alle istituzioni.
Allora, perché io devo obbedire o devo sentire di avere dei doveri rispetto a chi? A chi occupa le istituzioni? A chi fa leggi per sé? Quindi il rischio che a una crisi dei partiti risolta in questo modo occupazionale delle istituzioni, segua anche la crisi di legittimità delle istituzioni statali è fortissimo.
Tu stessa dici che il bicameralismo perfetto potrebbe essere anche corretto. Il Senato proposto va nella direzione di cui stiamo parlando o è solo una cosa sconclusionata?
È vero che la democrazia rappresentativa non deve necessariamente essere bicamerale. Come ho già detto noi abbiamo avuto due grosse tradizioni del Settecento, una liberale, profondamente timorosa delle maggioranze e delle tirannie delle maggioranze, che vuole due camere, una di legislazione e una di contenimento, di limitazione e di controllo, e abbiamo avuto l’altra tradizione, quella giacobina, favorevole a una camera sola. A parte che forse non abbiamo amato molto gli esiti giacobini della democrazia rivoluzionaria, ma essi stessi sono stati corretti nel corso del tempo con forme di limitazione del potere della maggioranza parlamentare monocamerale.
Quindi non c’è dubbio che il bicameralismo aumenta la funzione di controllo. Ora, cosa succede con la riforma Renzi-Boschi? Intanto non è vero che scompaiono le due camere, le due camere restano, resta il Senato, però con una funzione che non è solo confusa (e lo è tanto, visto che avrà bisogno di una legge ordinaria per diventare effettiva; anche questo è un fatto straordinario, che una legge costituzionale sia zoppa di suo quando nasce e rimandi a una legge ordinaria è veramente un ossimoro) ma certamente non ha la funzione di limitare il potere del governo, perché non entra nella questione di fiducia.
Quello che può fare è allungare i tempi di decisione parlamentare; questo sì, perché le procedure di intervento che può mettere in atto, per bloccare e far riaprire una discussione di legge, sono varie. Quindi questa seconda camera potrà bloccare l’attività del parlamento per lungo tempo. Altro che celerità! Ma questo al governo non interessa, anzi! Va bene purché non vada a limitare il potere del governo, come appunto sarà. Il governo sarà libero di fare quello che vuole, è il parlamento che sarà sempre più impotente e con un Senato confuso e che però potrà allungare i tempi del suo lavoro… e portare l’acqua al mulino dell’esecutivo, che potrà invece vantare celerità.
La seconda caratteristica di questo Senato, a mio avviso è che questi personaggi che lo comporranno, pur non avendo alcun potere di partecipare alla legislazione in maniera diretta, hanno quello di condizionarla indirettamente, rallentandone i lavori, ricattando, e godranno inoltre dell’immunità parlamentare. Qualcuno ne capisce la ragione? Come amministratori regionali non sono immuni, ma quando arrivano a Roma diventano immuni! La ragione che loro adducono è che a Roma sono considerati per la loro funzione senatoriale non per la loro funzione regionale. Ma sono le stesse persone che si portano dietro lo stesso carico di più o meno marcata disonestà!
La terza caratteristica di questo brutto bicameralismo è il fatto che questi senatori, pur non avendo alcun potere di fermare l’esecutivo, avranno la possibilità di intervenire direttamente sulla Costituzione. Io questo lo trovo addirittura scandaloso. Non essendo eletti, se non indirettamente, cioè nominati, non provenienti dal seme della sovranità nazionale, potranno intervenire sul testo più importante, la Costituzione.
Non potranno intervenire sull’attività del governo ma sulla nostra Costituzione sì, senza che noi li abbiamo eletti direttamente. Anche questo alla fine dimostra una cosa sola: che per questa riforma costituzionale la priorità è l’azione del governo e tutto il resto è secondario. E la secondarietà è tanto più forte quanto più i partiti sono solo nelle istituzioni, lontani da noi. In primo piano c’è l’esecutivo, in secondo piano il parlamento, in terzo piano i cittadini e la Costituzione, e quest’ultimo è il piano su cui potranno intervenire i senatori, ma sul presidente del consiglio no.
C’è una preferenza chiara per il potere delegato, per il governo cioè. Il governo non è democraticamente eletto, è formato dal parlamento, non viene direttamente da noi, ed è un potere che ha a che fare con la gestione delle forze repressive e coercitive e che opera nel settore dell’amministrazione, nella struttura, cioè, più antidemocratica dello Stato. Lì va la preferenza di questa riforma. Tutto quello che è democraticamente eletto è di secondaria importanza. La nuova normativa parla da sola.
Quarta ragione per essere preoccupati per questo nuovo Senato è il numero. Non sappiamo ancora quanti saranno i senatori. Anche qui: si dice che verranno dati in rapporto alle regioni, ma ci sono regioni con milioni di abitanti e regioni con centinaia di migliaia di abitanti. Questo sarà un problema serissimo; non siamo una federazione, non abbiamo un Senato americano dove ogni regione indipendentemente dal numero di abitanti ha due senatori. Ci sarà un problema serio nell’attribuzione del numero dei senatori. Poi le città metropolitane: quante sono? Anche quelle avranno la loro rappresentanza. E chi abita fuori dai confini delle città metropolitane?
Infine, l’ultimo aspetto, che forse grida più vendetta di tutti: il Presidente della repubblica senza alcuna ragione o giustificazione potrà nominare cinque senatori che non sono a vita ma decadranno con lui. Avrà cioè un borsino di cinque voti. Ma perché il Presidente deve avere una sua rappresentanza personale in Senato? Chi saranno poi? Personaggi riconosciuti, celebri o comunque che danno lustro allo stato? Ma se danno lustro non lo danno per cinque o sette anni, lo danno per sempre. Io già ero contraria ai senatori a vita, ma ora c’è un aspetto che sembra patrimonialista come il dare al Presidente un possesso di cinque voti. Quindi il Presidente avrà un potere di trattativa e anche di ricatto all’evenienza.
Considerando poi il traino che, con la nuova legge elettorale, la maggioranza eserciterà sulle cariche elettive istituzionali, dalla presidenza della repubblica ai membri laici della Corte costituzionale, a questo punto noi abbiamo disegnato un nuovo stato. Non è una semplice revisione costituzionale. Questa è un’altra Costituzione.
Quindi anche tutta la modalità con cui si è arrivati al referendum è discutibile. Basterebbe pensare al fatto che a decidere un cambiamento così vasto della Costituzione è stato un parlamento viziato da un premio di maggioranza giudicato incostituzionale. E non si dica che il referendum assolve questo peccato perché è pura demagogia. E così, poi, il precedente diventa molto grave…
È chiaro che l’art. 138 della Costituzione dà la possibilità di fare revisioni della Costituzione, però parla di revisioni, perché presumeva alla Costituente che gli interventi sulla Costituzione fossero settoriali, legati a questo o quell’altro articolo. Ce ne sono state tante dal 1948 di revisioni. Una delle ultime, rilevante e ampia, è stato il Titolo quinto, un’apripista di questa riforma mastodontica.
La Renzi-Boschi non è una revisione, quindi presumibilmente anche chi va a votare per il sì e per il no, parteciperà non a un referendum, ma a un vero e proprio plebiscito. Per necessità delle cose, perché non può essere che si dà un sì o un no a tutti i 47 articoli. Perché su alcuni uno può trovare un senso, su altri no, e invece ci si chiede di comprare a scatola chiusa tutto. In realtà, allora, ci si chiede un voto di fiducia al leader. Insomma, che ora Renzi dica di non voler mettere più la faccia e metta in scena questo ambaradan di falsa umiltà, non cambia nulla perché in realtà la riforma è così estesa che non può che avere un “sì” o un “no” identificato con lui per necessità; perché proporci di cambiare 47 articoli con un sì o un no, significa chiederci non già di giudicare il contenuto di quel cambiamento, ma di votare sulla nuova visione di Costituzione.
Quindi noi esprimiamo fiducia in chi ci fa questa proposta, non nella proposta medesima. Un sì o un no su 47 articoli vuol dire questo. Non è lui che fa del plebiscitarismo, è la struttura medesima della sua proposta di riforma che lo comporta, per necessità. Non raccontiamoci balle.
Il loro grande argomento è quello della governabilità…
Si può avere una riforma nella quale oltre alla rappresentanza nostra sia anche garantita la nostra capacità di governo? Ma certo, perché le democrazie vogliono costruire maggioranze, non minoranze, ovvio che sia così. Tuttavia in tutti i paesi dove ci sono sistemi che consentono alle maggioranze di governare con continuità e per il periodo in cui la legislazione funziona, ci sono dei sistemi di controllo straordinari, istituzionali ed extraistituzionali. L’ultima boutade del nostro leader è stata: “Anche noi come la Gran Bretagna”.
Per ribattere basterebbe ricordargli solo che la Gran Bretagna ha la Bbc, la quale non dipende dalla maggioranza parlamentare e quindi dal partito di governo o dal governo; è completamente indipendente, quindi è un potere veramente autonomo. Da noi il sistema dell’informazione è in mano alla maggioranza.
In realtà si sta preparando un accumulo di poteri tali, istituzionali ed extraistituzionali, che in teoria potrebbe rendere le maggioranze granitiche per lunghi anni. D’altra parte noi andiamo di ventennio in ventennio, questa è la realtà. C’è fortissima l’idea dell’uomo della provvidenza che gestisce il teatro della politica italiana. è una visione papale della politica. Siamo in Italia, nel paese della cattolicità di sistema, abituati a diffidare di una democrazia senza capo.
Ma qui non si torna al problema dei partiti che non ci sono più?
Si arriva lì, certo. Il problema però è che i seguaci della Seconda Repubblica, e anche qui siamo nella tradizione, nutrono una repulsione fortissima verso i partiti politici e il pluripartitismo. Li odiano perché li identificano con le fazioni, parti che gestiscono il tutto, eccetera, eccetera. Ai tempi della Costituente lo chiamavano il Cln-ismo, una combutta di partiti che scriveva la Costituzione… Questo fu il primo argomento di Lucifero ma anche di Maranini, uno dei primi a scrivere contro la democrazia dei partiti, chiamandola “partitocrazia”.
E questo lo vediamo anche oggi, solo che a parlare contro i partiti sono i loro stessi capi: “La riforma toglierà i soldi ai partiti”, “Le poltrone a cui sono attaccati i politici”, “I piccoli partitini” così dannosi… tutto questo argomentare populista che ormai è dilagante, è nato e nasce così, in odio ai partiti.
Invece la nostra Costituzione è molto chiara e così la stessa concezione della democrazia rappresentativa: senza i partiti non c’è democrazia rappresentativa, ci sono forme senz’altro di democrazia delegata, diciamo, governativa, ma la democrazia dei partiti è quella che ci consente come cittadini di influire nella costruzione di strategie o nella costruzione di progetti, di controllare, di decidere anche chi andrà in parlamento. I partiti sono fondamentali, senza di loro la democrazia rappresentativa è un cumulo di voti o di non voti, senza alcuna possibilità di controllo, ed è quello che sta succedendo.
Noi siamo uno “stabilimento di voti”, elettoralistico, con una produzione di elezioni, primarie o non primarie, senza alcuna possibilità di contare. Perché questo è. Quindi un antipartitismo profondo che ci porta a volerne meno, pochi, il capo che ci governa ne vorrebbe al massimo due, ma se potesse ne farebbe uno solo…
Mi sa che ci ha anche provato, con il partito asso pigliatutto…
Ci ha provato. E però con una visione che se non è ingenua, è davvero in malafede. Perché anche questa idea di riforma elettorale, che dovrebbe creare il partito della maggioranza, il partito che governa, perché a lui interessa solo questo, è un’illusione. Un partito unico che governa con una grande maggioranza, che dalla sera delle elezioni può decidere tutto, non sarà mai omogeneo ed è ovvio che se vuoi tenere la maggioranza sarai sempre sotto ricatto perenne di ogni tipo di fazione interna. Queste conteranno molto di più. Altro che inciuci, quindi.
Oggi il ricatto è evidente, lo fa un Verdini che sta fuori, poi sarà dentro e nessuno vedrà più nulla. In realtà il leader terrà Palazzo Chigi, ma per tenere il partito di maggioranza avrà sempre dei problemi, perché questo fa parte della transizione politica in tutte le democrazie. La politica è fatta di trattative dopotutto.
Ma sulla questione della governabilità, che ormai è un mito, vorrei dire ancora qualcosa, perché l’uso che se ne fa è veramente disonesto.
La parola governability è un concetto che viene sviluppato negli anni Settanta in un gruppo di pressione internazionale che è la Trilateral, la Commissione trilaterale. Siamo nel periodo della guerra del Vietnam e per reazione alla società degli anni Settanta, senza autorità, si forma un think tank, che ha sede a Washington, che ha fra i suoi più importanti rappresentanti Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki. È costruita dai paesi dell’Alleanza atlantica, da quei paesi che hanno vinto la Seconda guerra mondiale non solo contro i nazifascisti, ma anche contro i sovietici (le bombe atomiche, lo sappiamo, furono fatte esplodere contro i sovietici).
Quindi i paesi dell’Alleanza atlantica producono questo comitato di studio che ha il compito di analizzare, a vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, lo “stato della democrazia” in tutti quei paesi in cui i movimenti stanno attaccando i partiti. Sull’onda del ’68-’69. Incominciano questo lavoro di ricerca in tutti i paesi del blocco atlantico. Alla fine di un’analisi che viene effettuata molto capillarmente, con dei rappresentanti paese per paese (in Italia i rappresentanti che sedevano in questo Trilateral Committee erano Agnelli, La Malfa e Guido Carli) pubblicano un unico grande documento intitolato proprio “The crisis of democracy”. Perché crisi della democrazia? Perché è in crisi la governabilità.
Ma cosa vuol dire governability? Non è il governo. È la capacità dello Stato di governare ovvero domare la società. La società bisogna che sia governata. Una società che produce movimenti, associazioni che chiedono allo stato e a cui lo stato deve rispondere se vuole mantenere la pace sociale, questa permanente richiesta allo stato e altrettanto permanente risposta dello stato, porta a una società in permanente crisi di governabilità. La società, cioè, è troppo partecipata, troppo vociante, vuole, propone, critica, in una parola dialoga con lo Stato. Quindi questo finisce per non essere autonomo dalla società. Ecco, questo è ciò che loro chiamano “mancanza di governabilità”, di capacità di governare la società.
Huntington usa una frase oltremodo significativa: questa società è malata di mancanza di autorità, si schiera a favore dell’umanità, quindi contro la guerra in Vietnam, contro l’autorità. Si tratta di fare in modo che la società torni a rispettare l’autorità. Quindi governability sta per autority over society. Come? Cambiando i sistemi costituzionali dove possibile. Ecco, di lì nasce l’idea che tutti i paesi del sud dell’Europa, che sono i più turbolenti, perché sono quelli nati in reazione al fascismo e che quindi hanno scelto una democrazia troppo orizzontale, troppo assemblearistica, troppo partecipata, devono cambiare.
L’obiettivo è quello di arrivare a forme di democrazie minime, o minimaliste, come la chiamano, nelle quali il cittadino è come il cliente che va al mercato e chiede quello e quell’altro. E se non va al mercato è perché non ha bisogno di comprare niente, ha tutto in casa. Quindi la partecipazione è un riconoscimento che le cose non vanno tanto bene. Se noi cittadini fossimo davvero soddisfatti non andremmo nemmeno a votare. Ci vuole un poco di apatia; questo è segno di stabilità e buon funzionamento. Se partecipiamo in troppi è segno che le cose non funzionano bene. Quindi troppa democrazia è segno di disfunzione, non segno di salute. La buona democrazia è quella nella quale di democrazia ce n’è poca, c’è solo un momento elettorale che designa tutto. La democrazia delegata è il modello della governabilità.
Noi oggi siamo qui. Oggi grazie a questa riforma completiamo un processo di addomesticamento della democrazia per portarla a essere una democrazia esclusivamente elettorale nella quale l’apatia svolge una funzione di stabilità terapeutica. Ecco che allora la crisi dei partiti diventa funzionalissima.
I partiti come associazioni che vivono nella società e sono partecipati da iscritti sono continui bastoni fra le ruote. I loro compiti dovranno essere solo quelli di selezionare una classe dirigente e di gestire la distribuzione delle risorse per poter mantenere il loro stabile potere di notabili. Su una massa disorganizzata, oggi si dice “disintermediata”, il leader eserciterà le sue capacità plebiscitarie con grande facilità attraverso i media e ammasserà un potere (e una corruzione) grande. I cittadini manterranno un unico potere, quello di dire “sì” o “no”, ogni cinque anni, in elezioni che saranno delle specie di plebisciti.
Per il resto, tra un’elezione e l’altra, apatia. Sarà questa la democrazia, la democrazia non sarà che un governo di aristocrazie elettive, o elette. Che poi tutto questo porti veramente a una società pacificata è un altro discorso.
(*) Nadia Urbinati, presidente di Libertà e Giustizia, insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie riviste di teoria e filosofia politica. Recentemente, con David Ragazzoni, ha pubblicato “La vera Seconda Repubblica”, Raffaello Cortina, 2016.
UNA CITTÀ n. 233 / 2016 settembre