La riforma costituzionale e il lessico orwelliano di cui è necessario liberarsi

24 Marzo 2016

Sì, forse è vero. L’ Italia ha davvero bisogno di riforme, anzi di una vera grande riforma.

Ma il problema è capire cosa si intenda davvero per riforma. Bisogna ragionare sulle parole. Ma per ragionare sulle parole bisogna attribuire il senso suo proprio ad ogni parola. Altrimenti non servono più per ragionare, per dia-logare, ma solo per polemizzare. E allora si finisce per odiare, disprezzare o anche disdegnare ogni ragionamento (considerato roba da  “gufi”!)  – magari in nome della velocità, del decisionismo e del “fare”.

Riforma purtroppo una di queste parole, oggi privata del senso suo proprio.

 All’inizio la parola ri-forma, come sa chi abbia studiato un po’ di storia, designa la re-formatio che ci si prefiggeva di introdurre nella Cristianità ai tempi di Erasmo e di Lutero, cioè il ritorno alla forma originaria del Cristianesimo, depositata nelle Sacre Scritture. Si diceva: Ecclesia semper reformanda, la Chiesa è sempre da  riformare, secondo un motto che pare avere validità permanente. La riforma è stata dunque intesa all’inizio come il ripristino di una forma originaria, che si era corrotta e deformata col tempo.

L’idea di riforma è poi passata nel mondo della politica. Qui ha assunto il significato di una forma nuova che si vuol imprimere alla società, alla luce delle istanze della ragione e del “progresso” da  essa costruito. L’Illuminismo è stato l’età della ragione e delle riforme. Le riforme nascevano dall’uso pubblico della ragione, dalle battaglie culturali e filosofiche, dalle opinioni pubbliche ed erano l’effetto di una uscita degli uomini da uno stadio di minorità e sudditanza all’autorità. Il socialismo ha ereditato poi e sviluppato questa idea di riforma.

Oggi però l’idea stessa di riforma, ancora usata nell’accezione originaria entro la cultura cristiana e cattolica, in politica ha cessato di essere una bandiera di rivendicazioni  popolari contro l’establishment. E’ divenuta un’idea sostenuta dai “politici” e/o dai “tecnici”, o dalle grandi banche d’ affari, ma avversata dai cittadini comuni, che accorrono verso partiti che promettono muri e sbarramenti per difendere soltanto ciò che esiste oggi e che non si propongono di “riformare” alcunché.

Perché questo cambiamento? Perché l’etichetta “riforma” nasconde un contenuto diverso da  ciò che la parola suggerisce, come nel “double thinking” descritto da  Orwell in 1984. Il termine, che mantiene un vago appeal di “sinistra” ( quello del socialismo democratico otto e novecentesco), ora però indica un cambiamento senza alternative, doloroso, imposto non più dalla ragione, né dalla pubblica opinione, ma dalla necessità, in genere dalla necessità  del “libero mercato” o del denaro.  Magari per qualcuno imposto dall’“intelligenza del denaro”.  Per questo oggi pubblica opinione e Parlamenti devono essere educati dai governi o dai tecnici, come “graziosamente” si è detto,  ad accettare le riforme. E per questo la destra può agevolmente vestirsi dei panni della sinistra, lasciando  disorientata una crescente parte dell’elettorato popolare.

Secondo questo nuovo pensiero, nei fatti impolitico o antipolitico,  la necessità, che è l’ “argomento del tiranno”, deve sempre e comunque prevalere. Whatever it takes, come recita il nuovo articolo di fede. Perciò si cerca di nascondere  che il Parlamento italiano, nella nuova configurazione che i “riformatori” vorrebbero, diventerà un organo docile e subordinato al governo ed alla “necessità” dei mercati. Per questo però, bisognerebbe  per coerenza, chiamare riforma ciò che è riforma e solo cambiamento ciò che è cambiamento.

De-forma costituzionale, il nomignolo che si è usato dalla sponda opposta è un termine nato con intento polemico , ma logicamente fondato. Ciò che si persegue è infatti comunque una “democrazia senza una forma”.

Ma su una cosa non si riflette. Possono esistere una riforma elettorale, una riforma fiscale, una riforma del lavoro ecc. Ma si può riformare una Costituzione? E’ importante saperlo, anche per capire se questa può essere annoverata tra le “riforme” che “ci chiede l’ Europa”.  La Costituzione è già la forma (e il limite) dei poteri dello Stato, una forma fatta per durare nel tempo, non per adeguarsi alle mutevoli, ancorché legittime, esigenze dei governi.

Ri-forma costituzionale non potrebbe significare allora altro che cambiare forma,  oppure recuperare una forma che si è corrotta col passare del tempo. Il primo caso vorrebbe dire abbandonare una Costituzione per sostituirla con un’altra, il secondo caso significherebbe riconoscerne l’inesistenza. se non la perdita della Carta come forma che ordina e struttura la realtà sociale e politica. In entrambi i casi saremmo “fuori dalla Costituzione” in una condizione di illegittimità permanente del potere.

In effetti il testo della legge non può usare il termine riforma. Esso usa parcamente il termine revisione, recitando cosi:   “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.

La Costituzione si può e si deve sottoporre a revisione nello spirito dei suoi principi inderogabili,  riconosciuti come tali dalle sentenze della Corte costituzionale. Il bicameralismo paritario non era certo nelle decisioni finali ed unanimi  dei Costituenti che stabilirono due cadenze diverse per Camera e Senato ( cinque anni la Camera e sei anni il Senato sino alla modifica del 1963), anche se poi nella prassi vi fu una deroga alle due cadenze differenziate.  Ma la revisione non è una riforma, se le parole hanno un senso. La decisione pro o contro una revisione ( che è termine neutro) non è una decisione pro o contro una riforma ( che è un termine a valenza positiva).

E tuttavia Riforma non è oggi una parola inutile. Nel suo senso corretto e non manipolato c’è una grande riforma di cui ha bisogno l’ Italia. Non solo “per ripartire”, a qualunque costo, ma per mantenere viva la repubblica e per ricostruire le basi della democrazia. Anche per far crescere il Pil senza mafie e camorre,  senza umiliare il merito,  senza devastare lo stato sociale  e senza svendere il paese.

Si tratta di tornare alle proprie radici, alla propria Costituzione ed inaugurare una nuova stagione di leggi attuative della Costituzione che ricostruiscano la dignità del lavoro, della cultura, della scuola e salvaguardino lo stato sociale. L’esatto contrario della Rottamazione del passato. La vera riforma della repubblica si fa ritornando ai principi. Lo scriveva molto tempo fa un pensatore forse anche lui improvvidamente “rottamato”:

A volere  che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio…E  però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare..,.Ed è cosa più chiara della luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso è principi suoi” ( Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,  Libro terzo, cap.1).

(*) Socio del circolo toscano di LeG, del Comitato del No costituitosi a Lucca e del Coordinamento di democrazia costituzionale.

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