l rapporto con il gruppo del Pd si era logorato. Se rivedo il film degli ultimi mesi, ho votato in dissenso su jobs act, scuola, Rai, Italicum e legge costituzionale. Cosa che mi metteva un po’ in imbarazzo e capisco che mettesse in imbarazzo anche chi aveva approvato quelle scelte sbagliate. Inoltre la battaglia nel gruppo aveva perso appeal, aveva minore agibilità dopo che la maggioranza della minoranza si era messa a lavorare Renzi ai fianchi, per logoralo.
Ma senza contestarne la narrazione che è, secondo me, parte fondante della sua politica. Io penso al contrario che solo una generosa assunzione di responsabilità politica possa aiutare il paese, e quel che resta della sinistra, a uscire dal cono d’ombra lo sta cacciando una politica tanto pirotecnica quanto inconsistente.
Sono queste le ragioni politiche delle mie dimissioni dal gruppo. Poi c’è la cronaca, il motore ultimo di una scelta. Quella provo a raccontarla da cronista. Martedì 27, Luigi Zanda convoca i senatori in assemblea, non si sa per discutere cosa. Il direttore del gruppo mi chiama due volte: «Vieni?», «partecipo a tutte le riunioni», «Stavolta Zanda ti vuole». Capisco.
Si aprono le danze. Il capogruppo loda i suoi senatori, «siete il sostegno della legislatura — dice — e dunque della Repubblica». Loda persino chi «gli ha fatto male» votando in dissenso sulla riforma costituzionale, «ma almeno con loro ho parlato, con la Amati, con Casson, ho parlato con Tocci». Solo Mineo è stato sleale: «Non è venuto nella mia stanza a dirmi che avrebbe votato contro. E questo (severo!) viola il nostro statuto».
Ma lo sapevano tutti, l’avevo detto nel gruppo, nei corridoi, ovunque. Cosa non ho fatto? Ho omesso di baciare la pantofola del Presidente. Subito si scatena il processo: durerà due ore e mezzo. Protagonisti, nel ruolo della base indignata, senatori incravattati e senatrici tiratissime.
«Mi ha fatto male vederlo inviare un tweet dopo che il governo era andato sotto sul canone Rai». «Lo hanno applaudito i grillini! (Alzando la voce)». «Raggiungiamo un compromesso sul senato, neppure siamo contenti e lui viene in aula a demolirlo!». «Vuole farsi espellere perché cerca visibilità». «Un partito non è un pollaio e Renzi ha vinto».
Ci sono stati anche interventi di tenore diverso, pochi!. Tocci, sull’assurdità di imporre una disciplina da centralismo democratico nel partito in franchising di Matteo Renzi. Fornaro, che ha ricordato come la narrazione renziana demonizzi la minoranza prima che la minoranza parli o pensi. Lo Giudice, per il quale la libertà non può valere solo quando conviene al vertice (come per le unioni civili).
Poi Zanda conclude pronunciando la parola «incompatibilità» (tra me e il suo magnifico gruppo). E cala l’asso: li avrei definiti «servi», in aula, quando avevo obiettato alla Finocchiaro che Ponzio Polito non era stato affatto, come ella pretendeva, un politico incapace di decidere, ma un servo ipocrita del suo padrone, l’imperatore, che condivideva le ragioni del Sinedrio e voleva che si mandasse a morte Gesù. Se qualcuno del gruppo si è sentito offeso — avevo scritto a suo tempo a Zanda dopo aver subito una contestazione in aula ad opera di taluni del Pd– se qualcuno s’è sentito offeso deve avere una gigantesca coda di paglia. Zanda sapeva.
Nel partito della nazione convive tutto e il contrario di tutto, ma la narrazione deve essere una sola, quella del segretario premier. Tutto qui. Ora imbiancheranno i sepolcri dicendo che la mia uscita era scritta, che l’assemblea non c’entra, che il partito di Renzi non espelle. E questo è vero, non espelle, usa la sua macchina narrante per far sì che i dissidenti si auto espellano, uno alla volta. Civati, Fassina, Mineo. E domani, chi? Mentre gli iscritti e gli elettori se ne vanno più numerosi. Ma che importa, basta vincere anche per un voto, anche se al ballottaggio voterà meno della metà degli italiani. L’importante è vincere, contro un avversario che si cerca di costruire come perdente.
E ora? Gruppo misto, battaglia in senato dove la maggioranza balla e ballerà ancora. Lavoro nelle città perché e con le persone, perché «c’è vita a sinistra». A condizione di saper essere unitari e generosi. E di rilanciare una battaglia culturale, dopo un quarto di secolo di subalternità alla cultura della destra.
Il Manifesto, 29.10.2015