Sarà solo un equivoco, un’incomprensione? O nasconde un riflesso conservativo, un istinto rinunciatario? Stiamo parlando dell’ultimo inciampo che sta frenando il cammino verso la ricostruzione di una sinistra in Italia: intendiamoci, l’ultimo in linea cronologica, ma non il solo, purtroppo. Riguarda la persistente riserva di riesumare alleanze elettorali con il partito democratico, sebbene soltanto a scala locale. Nonostante la deriva ormai incontrovertibile di quel partito, tuttora sopravvive un’ingannevole speranza d’incontro e collaborazione con quei segmenti, quelle soggettività che si segnalano per il loro disagio, dichiarato o solo potenziale, verso la leadership di Matteo Renzi.
A conforto di tale eventualità si sostiene che non si possono abbandonare esperienze amministrative dove in coalizione con il Pd si è riusciti a far qualcosa di buono, connotando positivamente la politica locale. È un’argomentazione che in sé non sembra particolarmente dannosa, né si possono escludere casi che fondatamente si segnalino come eccezioni pur sempre dignitose. Ma in generale è del tutto illusorio, se non impossibile, gestire città e territori sottraendosi al rigido involucro in cui le politiche economiche governative li hanno imprigionati. Gli esempi sono innumerevoli e non riguardano solo le autonomie locali, ma anche le prerogative parlamentari, sempre più sottomesse alle decisioni di ministri, tecnocrati e vincoli commerciali. Grida ancora vendetta la conferma dell’acquisto dell’intera commessa degli F35, nonostante la Camera abbia «eroicamente» votato il loro dimezzamento: a conferma che neanche le mezze misure possono essere accolte. E cosa dire della contrarietà della Regione Puglia alla realizzazione del metanodotto in Salento, completamente ignorata dal governo Renzi? O delle trivellazioni petrolifere autorizzate dai decreti di Palazzo Chigi malgrado il dissenso delle amministrazioni regionali, a cui non è rimasto altro che ricorrere a referendum abrogativi? Per le città è la stessa cosa, anzi ancor peggio. Si tagliano ferocemente i bilanci con la conseguenza di ridurre allo stremo il sostegno sociale, chiudere i servizi, indebolire il trasporto pubblico e la raccolta dei rifiuti, rinunciare alle manutenzioni urbane, azzerare l’offerta culturale. E per compensare i mancati trasferimenti si costringono le amministrazioni a intensificare la pressione fiscale, a rilasciare generosissime concessioni edilizie, a svendere il patrimonio e le aziende comunali, a ridurre gli stipendi dei propri dipendenti, a organizzare collette per salvare dal degrado i beni culturali, anzi a concederli in uso come un qualsiasi affittacamere. Si può aderire con zelo e trasporto a questo sgraziato modello amministrativo, o al contrario lamentarsene e protestare. Ma non è consentito discostarsene. Se non ribellandosi, disobbedendo cioè all’indirizzo sovraordinato e, laddove possibile, modulando diversamente le proprie risorse e così cercando di corrispondere a necessità, bisogni, diritti sociali. E tranne qualche sparuta eccezione, non sembra proprio che le giunte di centrosinistra, anche quelle meglio connotate, si siano distinte per combattività o anche soltanto rivendicando maggiore autonomia. Ebbene, nonostante ciò, si è tentati dal riproporre in primavera un ormai consumato centrosinistra, immaginando vanamente di allearsi con un Pd derenzizzato. Come sembra di capire si voglia fare a Roma, contando sul contrasto tra il sindaco dimissionario (?) e il suo partito. Non è con il politicismo che si può porre rimedio ai guasti amministrativi e rilanciare una nuova stagione per questa città martoriata e delusa. Né saranno i volenterosi sostenitori di Marino che si radunano in Campidoglio a determinare la prossima geografia elettorale. Ma sarà al contrario la critica all’ex (?) sindaco che animerà la prossima campagna elettorale e che, con tutta probabilità, stabilirà i nuovi assetti politici. Cercando di difendere gli ultimi brandelli di credibilità del centrosinistra, a Roma si esprime forse il desiderio di avere una sinistra migliore, di salvare il salvabile, ma in realtà ci si accontenta di un male minore, ma che minore non è, e si rinuncia a costruire una nuova prospettiva politica.
il manifesto, 28 ottobre 2015
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