Quei consiglieri del principe

11 Aprile 2014

In questi giorni si moltiplicano gli attacchi contro i “professori”, accusati addirittura di avere bloccato le riforme negli ultimi trenta anni. Si tratta di una evidente falsità, sia perché i professori, e tra questi i costituzionalisti, hanno assunto posizioni diverse, firmando appelli e contrappelli, sia perché le vere cause che hanno determinato il fallimento di alcune riforme stanno altrove: nelle decisioni di Berlusconi nel 1998 e nel 2013 e nel rigetto popolare espresso a larga maggioranza nel referendum del 2006.

renziIn questi giorni si moltiplicano gli attacchi contro i “professori”, accusati addirittura di avere bloccato le riforme negli ultimi trenta anni. Si tratta di una evidente falsità, sia perché i professori, e tra questi i costituzionalisti, hanno assunto posizioni diverse, firmando appelli e contrappelli, sia perché le vere cause che hanno determinato il fallimento di alcune riforme stanno altrove: nelle decisioni di Berlusconi nel 1998 e nel 2013 e nel rigetto popolare espresso a larga maggioranza nel referendum del 2006. Inoltre la realtà dovrebbe avere insegnato che riforme fatte a colpi di maggioranza e con la fretta, come quella del titolo V nel 2001 e il c.d. Porcellum nel 2005, hanno prodotto effetti nefasti. Ma l’attacco ai professori è comunque un brutto segnale di imbarbarimento e di volontà di imporre un pensiero unico. La verità è che il potere politico non ama essere criticato e anziché fare fronte ai propri fallimenti, preferisce prendersela con chi lo critica, com’è avvenuto spesso nella nostra storia. Per rimanere all’Italia repubblicana, senza scomodare Mussolini i cui rapporti “problematici” con il ceto intellettuale sono noti, basti ricordare il “culturame” attaccato da Scelba nel 1949 (espressione ripresa da Brunetta nel 2009), e le critiche all’intellettuale “dei miei stivali” di craxiana memoria. Quanto a Renzi, prima di mettere sotto accusa i “professoroni”, non ha risparmiato neppure i 42 saggi nominati dal governo Letta. Così il 27 ottobre 2013 ha affermato che alla commissione dei saggi era preferibile “la commissione dei bischeri” e il 2 dicembre ha ribadito l’inutilità dei saggi “che vanno in ritiro a Francavilla”. Tutte manifestazioni di quel “rozzo stil novo” di cui ha parlato Revelli nei giorni scorsi.

Il fatto è che chi svolge una professione intellettuale è per sua natura portatore di un pensiero critico. Ma anche chi decide di diventare consigliere del Principe non dovrebbe mai dimenticare la sua vocazione originaria e asservirsi al potere. Sia per non smarrire la propria natura sia perché non contribuirebbe affatto ad un esercizio illuminato e democratico del potere, i cui errori sarebbero sempre giustificati e coperti. Purtroppo viviamo in tempi bui nei quali imperversano i populismi e le semplificazioni e molti leader preferiscono parlare più alla pancia che alla testa del paese. La proposta governativa di riforma del Senato ne è una dimostrazione. Pare fatta non per garantire la coerenza e la funzionalità di un modello bicamerale differenziato, ma per rispondere demagogicamente alla parola d’ordine della “riduzione dei costi”. E così viene proposto un Senato debole e infarcito di persone che cumulerebbero il proprio mandato con un mandato locale, proprio in un momento in cui la classe politica regionale e locale è in piena crisi e non ha dato buona prova di sé. Per giunta, ironia della sorte, vi sarebbero ventuno personalità illustri nominate dal Capo dello Stato, e quindi tra queste inevitabilmente anche un certo numero degli odiati “professoroni”.

In questo clima chi dissente viene scomunicato. È capitato a Rodotà, accusato di incoerenza per aver proposto nel 1985 l’abolizione del Senato. L’accusa è ridicola perché il disegno di legge da lui sottoscritto andava, all’opposto delle riforme Renzi, in direzione del rafforzamento del Parlamento di fronte al Governo e delle garanzie volte a limitare il potere della maggioranza, e si muoveva nel contesto di un sistema elettorale proporzionale. Il Ministro Boschi si può anche capire, anche se non giustificare: sta studiando molto per fare bene il suo nuovo mestiere e non ha avuto il tempo di leggere il testo del 1985. Ma il costituzionalista Ceccanti non può essere né capito né giustificato. In primo luogo perché conoscendo il disegno di legge del 1985 avrebbe dovuto coglierne la radicale diversità rispetto alle riforma prospettata da Renzi. E poi perché con la sua critica di incoerenza ha imboccato un terreno scivoloso. Infatti negli anni scorsi ha sottoscritto come senatore due disegni di legge costituzionali, nel 2008 e nel 2012, nei quali veniva proposto un Senato composto da cittadini eletti su base regionale contestualmente al rinnovo dei Consigli regionali e titolare di poteri più significativi in materia di leggi bicamerali e di potere di veto sulle leggi approvate dalla Camera. Quindi un Senato completamente diverso da quello proposto da Renzi. Non dirò che Ceccanti ha cambiato idea ed è incoerente, anche perché cambiare idea è legittimo purché se ne spieghino le ragioni. Ma non è accettabile che chi ha scelto di sostenere acriticamente il Principe di turno rivolga quelle stesse accuse, peraltro infondate, contro chi preferisce svolgere una funzione di critica nei confronti del potere. Insomma la polemica tra professori dovrebbe essere improntata ad uno spirito diverso: la ricerca del confronto critico e il rispetto reciproco. Di ciò i titolari del potere politico che volessero agire con saggezza non potrebbero che avvantaggiarsi.

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