Chi volesse avere un’idea degli obiettivi ai quali punta la “grande riforma” costituzionale può connettersi al sito, nel quale troverà ben due questionari, uno breve per le persone comuni, l’altro “di approfondimento” per i sapienti. Sarà un esercizio forse poco utile, ma sicuramente istruttivo su dove si voglia andare a parare. Intanto è evidente che la questione di fondo è quella del cambiamento della forma di governo, tema al quale sono riservate la domanda iniziale in entrambi i questionari e la maggior parte dei quesiti contenuti in quello lungo. Gli ispiratori dei questionari si sono guardati bene dal porre una domanda iniziale su quali fossero le opinioni sulle riforme istituzionali ritenute più urgenti. Se lo avessero fatto, avrebbero avuto una risposta netta sulla necessità di cambiare un sistema elettorale incostituzionale e antidemocratico come il Porcellum, che invece è totalmente ignorato. E poi, per quel che riguarda la Costituzione, si poteva chiedere un giudizio sulla sua validità complessiva e se fossero necessari revisioni puntuali e per parti omogenee oppure una grande riforma di quasi tutta la seconda parte, che avrebbe inevitabili ricadute sull’insieme della Costituzione. Ma la scelta è già stata operata dal Governo nel momento in cui ha proposto un d.d.l. costituzionale di deroga dell’art. 138 Cost., che ha come scopo quello di rendere possibile anche ciò che l’art. 138 non consente, cioè un cambiamento di Costituzione.
Ma torniamo ai questionari. La “polpa” del cambiamento è, come si è detto, la forma di governo. Come viene affrontata la questione? In entrambi i questionari si pone l’alternativa tra parlamentarismo e presidenzialismo. Ma in che modo? Con alcuni accorgimenti truffaldini. Intanto in quello breve la prima risposta possibile è “no” a qualsiasi modifica. Si potrebbe ritenere che si tratta di un passo avanti rispetto al d.d.l. costituzionale proposto dalla prima commissione permanente del Senato alla fine della scorsa legislatura, relatori Rutelli e Viespoli, che proponeva un “referendum di indirizzo” nel quale si sarebbe chiesto agli elettori di scegliere tra “forma di governo del Primo ministro” e “forma di governo semi-presidenziale”, senza neppure interrogarli sul mantenimento di quella parlamentare. In pratica il termine “parlamentare” spariva dall’orizzonte del referendum e si preferiva fare ricorso ad una categoria ambigua e priva di valenza scientifica, come quella di “governo del Primo ministro”, che l’allegato al d.d.l. rinveniva non nella forma di governo “neo” o “semi” parlamentare basata sull’elezione popolare del Primo ministro (come quella praticata in Israele tra il 1992 e il 2001 e che ha avuto in Italia vari sostenitori, quasi tutti oggi convertiti al semipresidenzialismo francese), ma in alcune misure di razionalizzazione riprese in gran parte dall’esperienza tedesca, che si colloca a pieno titolo tra le forme di governo parlamentari.
Il termine “parlamentare” ricompare nei questionari, ma per chi volesse introdurre qualche cambiamento al testo della Costituzione l’alternativa che il questionario breve propone è tra una forma di governo parlamentare che rafforzi i poteri del Governo o una di tipo presidenziale fondata sull’elezione popolare del Presidente della Repubblica. Insomma chi ritiene che si debba razionalizzare la forma di governo parlamentare (e quindi adottare alcuni meccanismi di tipo tedesco, come la sfiducia costruttiva), ma anche e soprattutto rifondare il Parlamento irrobustendo le sue funzioni di indirizzo e di controllo e rinsaldando la fiducia tra gli elettori e l’organo rappresentativo del pluralismo, non resta che segnare la casella “altro”. Che non ha alcuna valenza anche perché può rientrarvi di tutto e di più. Si potrebbe obiettare che i quesiti successivi si occupano del Parlamento, ponendo le questioni del superamento del bicameralismo perfetto, dell’età richiesta per diventare parlamentari, delle misure necessarie per garantire l’“efficienza del Parlamento” (numero dei parlamentari, indennità, tempi di approvazione delle leggi, trasparenza). Questioni certo importanti, ma che non risolvono il problema delle funzioni che deve essere chiamato a svolgere l’organo rappresentativo, che nelle ultime legislature è stato ridotto a ratificare le decisioni adottate dal Governo. E per chi lamenta la lentezza delle Camere emerge dalle note esplicative che nella scorsa legislatura il tempo medio di approvazione delle leggi di iniziativa del Governo è stato di 116 giorni, cioè meno di quattro mesi, un tempo non certo storico come si vuol far credere, derivante in parte dal fatto che si trattava in molti casi di leggi di conversione dei decreti legge varati dal Governo.
Ma a quale razionalizzazione della forma di governo parlamentare si pensa? Qui viene in soccorso il questionario lungo. Tutto è giocato sui poteri del “Capo del Governo”, necessari ad evitare “l’instabilità politica derivante” da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre.
Per gli estensori del questionario il parlamentarismo non può che provocare l’instabilità politica. L’unico antidoto sta nel riconoscimento di maggiori poteri al “Capo del Governo”. Come se non incidessero per nulla sul funzionamento di una forma di governo parlamentare la configurazione del sistema dei partiti e la formula elettorale. E come se la questione di fondo non fosse quella dell’esistenza di una maggioranza parlamentare coesa e in sintonia con il paese e del riconoscimento del ruolo della opposizione. Ancora più pesante è la qualificazione del vertice del Governo non come Presidente del Consiglio o Primo ministro, ma come “Capo del Governo”, che riprende senza ritegno il termine impiegato nella legge “fascistissima” n. 2263 del 1925. Può darsi che sia sfuggito alla penna degli estensori. Ma è indicativo di un modo di concepire il ruolo della persona posta alla direzione del Governo. Non a caso quel termine viene costantemente riproposto in tutti i quesiti successivi, discendenti dall’ipotesi in cui si preferisca una forma di governo parlamentare. Dai quali emerge che il “Capo del Governo” possa essere nominato dal Presidente della Repubblica in quanto “leader del partito o della coalizione vincente”, cioè di quella “che nelle ultime elezioni ha ottenuto il maggior numero di voti” (quindi anche una maggioranza relativa risicata) senza un voto di fiducia iniziale del Parlamento. Che possa direttamente nominare e revocare i ministri, senza dover sottoporre la sua scelta al prudente apprezzamento del Presidente della Repubblica (che in passato ci ha risparmiato scelte infauste, come nel 1994 quella di Previti come ministro della giustizia nel primo governo Berlusconi).
Che possa chiedere lo scioglimento delle Camere al Capo dello Stato “in caso di crisi politica”, termine ben più ampio e vago di quello di “crisi di governo”, che può consentire la più ampia discrezionalità. Insomma si ripropone qui un sistema simile al “premierato assoluto” previsto dalla legge costituzionale approvata nel 2005 dalla maggioranza di centro-destra e sonoramente bocciato dall’elettorato nel referendum del 25/26 giugno 2006. Certo, manca l’incredibile norma “antiribaltone” contenuta nel testo del 2005, anche perché il “Capo del Governo” risulta già sufficientemente blindato. Inoltre sono prospettate anche ipotesi di razionalizzazione
condivisibili, mutuate dal sistema tedesco, come la concessione della fiducia al solo Primo ministro e la sfiducia costruttiva. Ma sono annegate nel quadro dell’attribuzione al “Capo del Governo” di un insieme di poteri che lo renderebbero superiore gerarchico nel Governo, padrone della durata del Parlamento e nel contempo sminuirebbero il ruolo del Presidente della Repubblica sia nella nomina del Governo sia nello scioglimento delle Camere.
Ma qual è l’alternativa che viene prospettata? Qui c’è un vero e proprio gioco delle tre carte. Infatti le note esplicative del questionario lungo affermano che “nell’ambito delle forme di governo di tipo presidenziale rientra anche la forma di governo cosiddetta “semi-presidenziale”, come ad esempio quella francese”. Anche qui c’è la massima ambiguità e la distorsione di una categoria scientifica. Che si distingue sia da quella parlamentare, perché prevede un Presidente eletto dal popolo titolare di importanti poteri propri, sia da quella presidenziale, perché contempla un Governo con un Primo ministro legato al Parlamento da un rapporto di fiducia. Una
forma di governo che può dare vita ad esiti molto diversi. Ad un funzionamento di tipo parlamentare, come quello che caratterizza tutte le democrazie indicate da Duverger come rientranti nel modello (Austria, Irlanda, Islanda, ma ormai da vari anni anche Finlandia e Portogallo). O ad uno di tipo “ultrapresidenziale ad eccezione coabitazionista”, per usare una terminologia impiegata da tanti costituzionalisti e politologi francesi, come quella che si è verificata nella Quinta Repubblica francese. Ma perché mescolare capre e cavoli? Per lasciare intendere che il modello americano e quello francese sono equivalenti, mentre non è affatto così. Da una parte c’è un sistema presidenziale fondato sull’equilibrio tra i poteri nel quale il Presidente non può essere sfiduciato, ma non può sciogliere le Camere e vi sono “pesi e contrappesi”, come il veto presidenziale sulle leggi da un lato e i forti poteri di indirizzo e di controllo parlamentari dall’altro. Per non parlare del potere del Congresso di decidere prima la messa in stato d’accusa poi la destituzione dalla carica del Presidente colpevole di “tradimento, corruzione e altri gravi reati”. Dall’altra parte c’è un sistema, come quello francese, squilibrato nel quale il Presidente, che di regola è sostenuto dalla maggioranza parlamentare, assomma nelle sue mani le funzioni di Capo dello Stato e di Primo ministro effettivo, può sciogliere liberamente l’Assemblea nazionale, ricorrere al referendum anche per modificare la Costituzione, impugnare una legge di fronte al Consiglio costituzionale, utilizzare poteri di emergenza …. e non è politicamente responsabile nel corso del mandato.
I quesiti successivi, relativi alla scelta tra forma di governo presidenziale e semi-presidenziale, solo in minima parte chiariscono le differenze. E soprattutto non c’è una parola sulla responsabilità del Presidente eletto dal popolo. L’unico contrappeso adombrato è quello dell’eventuale limite dei mandati, punto sul quale gli estensori prevedono anche la risposta negativa che con-sentirebbe la rieleggibilità illimitata. È stupefacente, visto che negli Stati Uniti il Presidente non può essere eletto più di due volte e in Francia il Presidente non può svolgere più di due mandati consecutivi e il limite dei mandati è previsto in tutti gli ordinamenti democratici che prevedono l’elezione popolare del Capo dello Stato. Ma evidentemente quel che conta non sono i contrappesi, ma l’affidamento del governo del paese ad un uomo, sia questi il “Capo del Governo” o il Presidente eletto dal popolo, titolare di poteri prevalenti nei confronti degli altri poteri dello Stato e per nulla o poco responsabile. Questo è il cuore dei questionari. E la presentazione di quesiti relativi agli strumenti di democrazia diretta e di partecipazione figura come una foglia di fico che serve a coprire l’essenziale. In definitiva i questionari, lungi dall’essere uno strumento di partecipazione popolare, assumono una valenza plebiscitaria nel momento in cui, anche con accorgimenti truffaldini, pretendono di condizionare e di orientare in una precisa direzione le persone interrogate.
* Mauro Volpi è Professore Ordinario Diritto costituzionale Università di Perugia e socio di LeG. L’articolo è apparso il 12 luglio scorso sul sito Costituzionalismo.it