Il dibattito sulle riforme (martedì 9 luglio)

09 Luglio 2013

Aula di Palazzo Madama: discussione di martedì 9 luglio

Discussione dei disegni di legge costituzionale:

(813) Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali

(343) DE POLI. – Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali

(Votazione finale qualificata ai sensi dell’articolo 120, comma 3, del Regolamento) (ore 9,40)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione dei disegni di legge costituzionale nn. 813 e 343.

La relazione è stata già stampata e distribuita. Chiedo alla relatrice se intende integrarla.

FINOCCHIAROrelatrice. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, il disegno di legge costituzionale n. 813, d’iniziativa del Governo, istituisce un Comitato parlamentare per le riforme costituzionali.

Come più volte è stato riferito dal presidente del Consiglio, onorevole Letta, e dal ministro Quagliariello, nel corso di numerosi incontri avuti in Commissione e anche in occasione di un dibattito d’Aula, il percorso non mira a inaugurare un processo costituente, ma si limita ad attivare quello che viene definito l’esercizio di un potere costituito, circoscritto peraltro alla revisione della seconda parte della Costituzione.

Preoccupazioni legittime e un dibattito molto acceso avevano accompagnato l’inizio del percorso di revisione costituzionale quando questo, sulla scorta delle indicazioni provenienti dal cosiddetto Comitato dei saggi costituito dal presidente Napolitano, sembrava orientato a contemplare l’ipotesi di una Commissione mista di parlamentari e di «laici», che provvedesse appunto alle riforme della seconda parte della Costituzione.

Questo testo ha un ben altro segno. Ribadisce la centralità del Parlamento; al Parlamento viene affidato, in via esclusiva, il percorso riformatore. Anche per quanto riguarda il contenuto delle riforme costituzionali, resta assolutamente centrale il lavoro delle Camere.

Il procedimento ha richiesto approfondimenti e analisi di ogni aspetto coinvolto, e devo dire che il lavoro in sede referente in Commissione ha visto riflessioni molto approfondite e considerazioni critiche che sono state assai utili, non soltanto per la compiutezza e la qualità del nostro lavoro, ma anche per la sua speditezza.

Io voglio cogliere proprio adesso l’occasione per ringraziare non soltanto tutti i colleghi che hanno partecipato, assai attivamente e con assiduità, ai lavori della Commissione per consentire oggi di arrivare in Aula con un testo meditato e devo dire assistito anche da una larga maggioranza, ma anche gli Uffici, che hanno contribuito con il loro lavoro e con la loro eccellente collaborazione alla definizione del testo.

L’articolo 1 prevede l’istituzione di un Comitato parlamentare, che è composto da venti deputati e da venti senatori, nominati dai Presidenti delle Camere tra i componenti delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato. I Presidenti delle due Commissioni in questione assumono di diritto la Presidenza del Comitato, ed è stato accolto un emendamento che specifica che essi fanno parte di diritto del Comitato in aggiunta ai membri nominati.

Non sfuggirà ai colleghi senatori che la composizione paritaria del Comitato viene incontro ad una esigenza e ad una preoccupazione, che io ritengo assolutamente fondate, circa la disproporzionalità esistente tra il numero dei componenti della Camera e quelli del Senato, disproporzionalità accentuata dal premio di maggioranza, che ha consentito la composizione della Camera dei deputati. Questa preoccupazione viene assolta dalla composizione paritaria del Comitato e, successivamente, anche dall’analisi dei testi che verranno esitati dal Comitato da ciascun ramo del Parlamento.

La nomina dei membri è effettuata su designazione dei Gruppi parlamentari sulla base di un criterio nuovo, sul quale la Commissione si è molto soffermata. È un criterio che combina la consistenza numerica del Gruppo con il criterio della percentuale dei voti ottenuti dalla lista o dalla coalizione di liste.

Uguale attenzione è stata posta al fatto che occorra assicurare la presenza di almeno un rappresentante per Gruppo e di un rappresentante delle minoranze linguistiche. Con un emendamento la Commissione ha ulteriormente ritenuto di precisare che il rappresentante delle minoranze linguistiche deve essere eletto in una delle circoscrizioni comprese in Regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela per tali minoranze.

Non sfugge a nessuno che la questione della composizione del Comitato e l’adozione di un criterio nuovo è un elemento sul quale, come è ovvio, occorrerà porre particolarmente attenzione, perché la rappresentatività dei Gruppi sia assicurata in maniera tale da consentire un lavoro, e anche un clima dentro il Comitato il più fecondo, fruttuoso e sereno possibile.

Devo dire che su questo punto sono stati presentati dai colleghi della Lega degli emendamenti, in particolare uno che riguarda appunto il potere dei Presidenti circa la composizione del Comitato e l’assegnazione della quota proporzionale a ciascuno dei Gruppi parlamentari rappresentati alla Camera e al Senato. È un punto di approfondimento ulteriore. Lasciatemi dire che, d’accordo con i colleghi, la discussione generale di questo provvedimento non sarà un atto rituale. Su questo punto e su altri il relatore, d’accordo con i componenti della Commissione, intende utilizzare la discussione generale per formulare eventuali emendamenti successivi che siano in grado di meglio corrispondere alle esigenze proposte, non soltanto dai componenti della Commissione, ma da quanti colleghi senatori intenderanno intervenire e proporre proprie posizioni.

Una questione centrale è quella della scansione temporale del procedimento. È ovvio che la fissazione di termini non svolge soltanto una funzione regolatoria dell’iter, ma ha anche il compito di imporre delle scadenze che siano verificate e verificabili in ordine all’andamento dei lavori. Tutte le volte in cui era possibile correggere questi termini in modo più ragionevole, la Commissione è intervenuta approvando degli emendamenti.

È chiaro che non ragioniamo di termini perentori. Forse è bene chiarirlo, perché anche il dibattito pubblico sul punto talvolta non è preciso. Non sono termini perentori, ma sono termini che hanno un significato squisitamente politico, perché da una parte sono espressione della volontà di pervenire a un risultato positivo, dall’altra significano la determinazione che il Parlamento assume circa la necessità assoluta delle riforme, soprattutto considerando i molti, troppi fallimenti che hanno segnato il percorso delle riforme costituzionali negli ultimi anni.

Per quanto riguarda i termini di cui all’articolo 1, la Commissione si è soffermata, in primo luogo, sul termine previsto al comma 2. Abbiamo ridotto tutti i tempi che potevano essere ridotti con un’attivazione dei Gruppi parlamentari tale da consentire al più presto la costituzione del Comitato che riguardassero la convocazione dello stesso entro la data di approvazione della legge. Questo ci consente non soltanto di accelerare il processo, ma anche di recuperare tempo da destinare ad una migliore meditazione dei testi da parte del Comitato. In questo senso, come ricorderete, su un percorso che viene individuato e che deve durare diciotto mesi, abbiamo ritenuto di ampliare il tempo a disposizione del Comitato per l’istruttoria dei disegni di legge da quattro a sei mesi.

In Commissione abbiamo inoltre ritenuto di ridurre il numero dei componenti dell’Ufficio di Presidenza del Comitato: oltre ai due Presidenti che ne fanno parte di diritto e ai due vice Presidenti, abbiamo previsto due segretari in luogo dei quattro inizialmente previsti, ed è stata poi inserita una norma che vieta la possibilità di sostituire i membri del Comitato, neppure per una singola seduta.

È un punto sul quale ovviamente ha avuto luogo un approfondimento e una discussione in Commissione, ma che la Commissione stessa, ha ritenuto centrale: il Comitato deve lavorare nella stessa composizione, anche per esaltare quello che riteniamo – parlo a nome della Commissione, naturalmente – uno dei suoi pregi, quello cioè di seguire tutte le riforme dall’inizio alla fine e di essere quindi in grado di cogliere e di attuare la necessità di coerenza del lavoro che viene svolto, non soltanto con riferimento alla coerenza interna di ciascun provvedimento ma anche – potrei dire soprattutto – con riguardo alla coerenza sistematica complessiva del lavoro che sarà svolto sui diversi versanti di riforme.

Un altro punto di prima attenzione della Commissione è stato quello che riguarda la competenza del Comitato. Il disegno di legge prevedeva che esso fosse chiamato ad esaminare i progetti di legge relativi agli articoli di cui ai Titoli I, II, III e V della Parte II della Costituzione afferenti alla materia della forma di Stato, della forma di Governo e del bicameralismo, nonché i coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali.

Su queste due questioni la Commissione si è mossa per passi successivi. In primo luogo, si è ritenuto di eliminare il riferimento esplicito alle parole «forma di Stato», «forma di governo» e «bicameralismo», per la ragione che l’espressione «forma di Stato», come molti colleghi sanno, è stata ed è oggetto in dottrina di un dibattito particolarmente acceso che poteva deviare circa l’interpretazione dell’ambito di competenza e delle possibilità del lavoro di riforma; e inoltre perché abbiamo ritenuto di non adoperare espressioni che non ricorrono in Costituzione e che quindi, seppur adoperate, per esempio, nella legge istitutiva della Commissione bicamerale, potevano apparire atecnici.

La seconda preoccupazione era quella di assicurare la coerenza del lavoro definitivo del Comitato, come dicevo, sia con riguardo alla coerenza sistematica di ciascun disegno di legge e alla sua autonomia sia con riguardo alla coerenza complessiva del sistema che si otterrà alla fine del percorso di riforme. In questo senso, come è ovvio, al Comitato viene attribuita la competenza ad agire esclusivamente – non adopero la stessa espressione che troverete nell’articolo, ma tornerò ancora su questo – quelle modificazioni che siano indispensabili per mantenere la coerenza sistematica dell’intervento riformatore.

L’altra questione riguardava il potere del Comitato, o meglio, rectius, l’attribuzione al Comitato della competenza in materia elettorale. Anche lì la Commissione si è sforzata di definire con esattezza l’ambito di competenza del Comitato riservandolo in materia elettorale esclusivamente alla modifica dei sistemi elettorali di Camera e Senato conseguenti alle modificazioni costituzionali eventualmente apportate.

Resta quindi integro il potere delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato di procedere, qualora assegnassero e inserissero nel calendario provvedimenti di riforma elettorale, indipendentemente dal lavoro del Comitato, e direi in via precedente alla riforma costituzionale e alle conseguenti riforme dei sistemi elettorali di Camera e Senato, a una modificazione dell’attuale legge elettorale vigente.

Poiché abbiamo preso molto sul serio le questioni sollevate, sulle quali mi sono appena intrattenuta, cioè quelle relative alla competenza del Comitato e in particolare alla sua delimitazione rigorosa, questo è un punto sul quale il relatore, in esito alla discussione, si riserva di tornare ed eventualmente anche di presentare ulteriori proposte emendative, qualora dal dibattito in Assemblea dovesse emergere che le formulazioni adottate non sembrino pienamente soddisfacenti rispetto alle esigenze che si sono manifestate in Commissione: e ciò nonostante che il testo presentato all’esame dell’Assemblea, a parere di ciascuno di noi, contenga già una definizione puntuale e precisa dell’ambito di competenza del Comitato.

Un’ulteriore innovazione tronca l’acceso dibattito che si era sviluppato prima della presentazione del disegno di legge del Governo, riguardante i poteri parlamentari del Comitato. Come i colleghi sanno, è stato ovviamente previsto che il Comitato esamini i disegni di legge in sede referente (in ossequio alla previsione dell’articolo 72 della Costituzione, che vieta l’esame in sede redigente per le modifiche costituzionali) secondo le norme del Regolamento della Camera dei deputati. Come è già accaduto per altre Commissioni bicamerali, si è previsto che il Comitato possa adottare, a maggioranza assoluta dei componenti, norme integrative per il proprio funzionamento e per lo svolgimento dei propri lavori. Si tratta di una facoltà analoga a quella prevista nella legge costituzionale che istituì la Commissione bicamerale per le riforme nella XIII legislatura. Ovviamente, in proposito è stata introdotta una clausola che ribadisce il valore primario delle norme del Regolamento della Camera dei deputati.

Circa la nomina dei relatori, accogliendo una suggestione emersa nel dibattito in Commissione, si è precisato che i Presidenti del Comitato nominano uno o due relatori per provvedimento e che, ove i relatori siano due, uno debba essere un deputato e l’altro un senatore. Si tratta di un altro modo per operare quel riequilibrio sul quale tanta parte del dibattito si era incentrata, prima della presentazione del disegno di legge del Governo.

Il comma 6 dell’articolo 2 prevede che, alla conclusione dell’esame, il Comitato trasmetta ai Presidenti delle Camere i testi dei progetti di legge ovvero i testi unificati, adottati come testo base. Saranno dunque i Presidenti delle Camere a ricevere gli emendamenti formulati rispettivamente dai deputati e dai senatori, per poi trasmetterli all’organismo bicamerale. Questo è un punto importante, che probabilmente va chiarito: saranno i Presidenti delle Camere a ricevere gli emendamenti, per operare la prima valutazione in ordine alla ricevibilità degli emendamenti stessi. Spetterà poi ai Presidenti del Comitato, nel corso dell’esame del disegno di legge da parte di tale organismo, la valutazione circa l’ammissibilità dei testi, e poi ci saranno i pareri sui profili di merito.

Con un emendamento presentato dai colleghi della Lega Nord è stata introdotta un’innovazione importante: si attribuisce al Comitato il potere di disporre la consultazione delle autonomie territoriali, ai fini di un loro coinvolgimento nel processo di riforma. Si tratta naturalmente di un punto importante, giacché il campo delle riforme costituzionali prevede la riforma del Titolo V della Costituzione e dunque una materia sulla quale la consultazione delle autonomie territoriali è doverosa, oltre che estremamente utile e opportuna.

Con l’articolo 3 abbiamo regolato un altro punto delicato, che riguarda il lavoro delle Assemblee di Camera e Senato, le quali esaminano i testi definiti dal Comitato in sede referente; e abbiamo escluso che i due rami del Parlamento si occupino contemporaneamente di distinte proposte. Ciò è dovuto anche ad una ragione pratica: il Sottocomitato (o il cosiddetto Comitato dei nove, per adoperare la terminologia del Regolamento della Camera), che è composto ovviamente da deputati e senatori, non sarebbe altrimenti in grado di seguire, in un ramo e nell’altro del Parlamento, il lavoro delle due Assemblee.

Credo però di dover sottolineare un’altra esigenza, che è esattamente quella della tensione continua alla coerenza sistematica del lavoro complessivo che dobbiamo compiere, che può essere assicurata soltanto se – passatemi la metafora – i pezzi del puzzle vengono studiati e osservati anche nella loro collocazione e nelle eventuali conseguenze che possono determinarsi sul resto del sistema e anche nel rapporto tra i diversi disegni di legge costituzionali, con un lavoro che veda appunto le Assemblee occupate una alla volta su ciascun testo.

I limiti proposti all’emendabilità del testo sono molto conosciuti a quest’Aula e sono quelli previsti da norme di Regolamento parlamentare per alcuni procedimenti legislativi ordinari, con riferimento – per esempio – ai disegni di legge di stabilità e alla legge europea.

Abbiamo lavorato per ampliare il tempo a disposizione dei soggetti legittimati a presentare subemendamenti, che sono ciascun Presidente di Gruppo o almeno venti deputati o dieci senatori, rispetto agli emendamenti del Governo. Abbiamo cioè voluto stabilire una procedura più onerosa per il Governo per consentire all’Aula e ai Presidenti di Gruppo – come già detto – o ai dieci senatori o venti deputati, legittimati a presentare subemendamenti, di avere un tempo congruo per esaminare la proposta del Governo e studiare eventualmente ipotesi subemendative.

Mi sono a lungo soffermata sull’esigenza della coerenza sistematica dei testi e in misura minore sulla loro autonomia. Si tratta, però, di un tema che vorrei approfondire adesso con la discussione della disciplina del referendum contenuta nell’articolo 5 del disegno di legge.

L’esigenza che ciascun testo costituzionale sia in sé autonomo, oltre che coerente dal punto di vista interno ed esterno, è strettamente funzionale al fatto che, con un rafforzamento della garanzia prevista dall’articolo 138 della Costituzione, viene previsto che ciascun testo di modifica costituzionale approvato possa essere sottoposto a referendum anche nel caso in cui abbia registrato una maggioranza dei due terzi, quindi la maggioranza comunque prescritta dall’articolo 138 della Costituzione in presenza della quale tale articolo non prevede si possa dar luogo a referendum.

La volontà del Governo – devo dire condivisa dalla Commissione e francamente, mi pare, anche da moltissime parti nel dibattito pubblico – testimonia dell’interesse che si mantiene in merito al fatto che leggi di riforma costituzionale vengano poi ulteriormente sancite, nonostante approvate con larghissima maggioranza, dal corpo elettorale. Testimonia però anche una esigenza che ha percorso tutta la nostra discussione e ha trovato, in forme diverse, presenza e dignità nel corso del nostro dibattito, prima, e troverà anche in quest’Aula un’eco sostanziale.

Mi riferisco al fatto che, al di là dello strumento del referendum, con un’azione del Governo, su cui il ministro Quagliariello sicuramente non esiterà a riferire, e con un impegno comunemente adottato in Commissione, il lavoro del Comitato potrà essere seguito non soltanto con gli ordinari strumenti della pubblicità, ma anche con strumenti di partecipazione mediante l’utilizzo di una piattaforma on line. Questo rappresenta certamente un’innovazione nel modo di lavorare del Senato e credo che sia uno dei frutti positivi e fecondi di una discussione, che ha visto coinvolti in particolare i colleghi del Movimento 5 Stelle, i quali, sul tema della pubblicità e della partecipazione ai lavori del Comitato in un dibattito pubblico, hanno molto insistito con i loro emendamenti, e ancora insistono anche con un ordine del giorno.

L’articolo 7 determina la condizione di cessazione delle funzioni del Comitato (ultimato il lavoro o con lo scioglimento della legislatura). L’articolo 8 regola le spese di funzionamento e l’articolo 9 reca la tradizionale clausola di entrata in vigore.

A questo disegno di legge è abbinato quello del senatore De Poli, connesso a quello di iniziativa governativa e del quale si propone l’assorbimento. Esso prevede la costituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali composta da 35 deputati e 35 senatori, nominati rispettivamente dai Presidenti di Camera e Senato su designazione dei Gruppi in modo da rispettare la proporzione esistente, e con un Ufficio di Presidenza.

Lo stesso disegno di legge prevede un procedimento derogatorio rispetto all’iter di revisione di cui all’articolo 138 della Costituzione: la fase referente, anziché svolgersi nei due rami del Parlamento, è affidata ad un unico organo bicamerale, a cui è demandato il compito di elaborazione del testo da sottoporre alle Camere. La Commissione osserva le norme previste dalla legge costituzionale istitutiva e quelle del Regolamento della Camera dei deputati, in quanto applicabili. Entro il 30 giugno 2014, secondo la proposta, la Commissione deve far pervenire all’Assemblea per l’esame e l’approvazione uno o più progetti su ciascuna delle materie disciplinate dalla Parte II della Costituzione.

Al termine della procedura, che nella prima parte (ordinaria) richiede due deliberazioni, così come previsto dall’articolo 138, è introdotto unreferendum confermativo obbligatorio entro tre mesi dalla data di pubblicazione della legge costituzionale.

Signor Presidente, colleghi, questi sono il lavoro sinora svolto dalla Commissione e le questioni principali sulle quali ci siamo soffermati durante il dibattito, che è stato, a mio avviso, un esempio di come si può, pure nella diversità di approcci e di opinioni, contribuire alla costruzione di un lavoro comune.

Noi tutti attribuiamo una grande importanza a questa giornata. È pur vero che ci stiamo per ora fermando all’approvazione della legge procedimentale, però credo che sia già un passo impegnativo, perché descriverà l’intento, la volontà e – lasciatemi dire – anche il clima con cui ci inoltriamo in un campo così delicato come quello delle riforme costituzionali, così impegnativo, ma anche così ineludibile in ragione dei fallimenti passati.

Mi permetto di ringraziare il ministro Quagliariello perché, anche da questo punto di vista, i lavori della Commissione sono stati un esempio di partecipazione costante, compiuta e attiva al lavoro svolto dai parlamentari. Mi pare che anche di buone prassi istituzionali il nostro lavoro abbia bisogno. (Applausi dai Gruppi PD, SCpI e PdL).

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate due questioni pregiudiziali.

Ha facoltà di parlare il senatore Campanella per illustrare la questione pregiudiziale QP1.

CAMPANELLA (M5S). Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, il Movimento 5 Stelle con la questione pregiudiziale QP1 chiede di non procedere all’esame dell’Atto Senato n. 813 per alcune considerazioni.

Le attuali Assemblee parlamentari sono state elette con una legge della cui legittimità costituzionale si è dubitato fortemente, da autorevole fonte. Riteniamo che questo dovrebbe costituire un elemento di freno per le proposte di revisione costituzionale. Noi, tra l’altro, rileviamo che le modifiche che adesso ci apprestiamo a fare non sono di piccola levatura. Con questo disegno di legge, infatti, ci prepariamo a definire una deroga al sistema normale di revisione della Costituzione, con l’intenzione di andare a portare alla Costituzione modifiche molto, molto importanti e capaci di stravolgere l’ordinamento istituzionale.

Come è accaduto ad alcuni studiosi, sorge il dubbio se quello che si vuole esercitare costituisca l’esercizio di un potere costituente o di un potere costituito e, cioè, definito e che si muove nei percorsi della legittimità costituzionale, cosa su cui noi adesso andiamo ad argomentare. In altre parole, il tentativo di formazione del Comitato di cui si parla, nel suo derogare alla sua modalità normale di revisione della Costituzione, sostanzialmente si pone fuori dal percorso previsto e dal percorso ammissibile.

Oltretutto, queste Assemblee, elette senza indicazione diretta degli eletti da parte del corpo elettorale, avrebbero dovuto e dovrebbero limitarsi nell’incidere sulla Costituzione.

Per quanto riguarda la deroga all’articolo 138, la nostra Costituzione prevede per la sua modifica una procedura ben definita ed estremamente garantista, perché la nostra è una Costituzione rigida, nella considerazione fatta dai Padri costituenti che il corpo elettorale italiano ha caratteristiche particolari, contrapposizioni tra parti, una “compostezza” che gli è peculiare e che richiede delle garanzie precise. Adesso che noi andiamo ad immaginare una modifica importante della Costituzione e non gli aggiustamenti che i Padri costituenti prevedevano, come pensiamo di farlo? Derogando a quell’articolo, che prevede che il potere di modifica stia nel Parlamento repubblicano nelle sue sedi proprie e, nella misura in cui si dovesse accedere al referendum confermativo, nel corpo elettorale.

Andare a modificare, così come la maggioranza si propone di fare, ed andare a costituire questo Comitato, riduce sostanzialmente le garanzie, gli spazi dell’opposizione e dei singoli parlamentari, nell’ottica di velocizzare un processo che si dà in qualche modo come già preistruito per le discussioni che da anni e anni si hanno in ordine al tema della riforma della Costituzione.

Noi riteniamo che questa compressione delle facoltà dei singoli parlamentari e della Costituzione costituisca una deroga inammissibile al processo di revisione costituzionale; tanto inammissibile da far pensare ad un’irragionevolezza intrinseca della proposta. Oltretutto questa compressione si ha anche nell’indicazione al Parlamento di limiti temporali e di limiti nelle facoltà emendative.

Il problema fondamentale sta nell’aver ammesso che il Governo si ponesse, con la produzione di un disegno di legge, ma anche con la costituzione di un Comitato di saggi, come parte attiva del processo costituente che è proprio del Parlamento.

Alla deroga all’articolo 138, che – ribadisco – costituisce un’impropria e surrettizia flessibilizzazione della Costituzione, laddove si decide di intervenire su di essa in maniera più incisiva, aggiungiamo anche la deroga all’articolo 72, quarto comma, laddove si stabilisce che per le leggi costituzionali ed elettorali si deve seguire la procedura normale di esame da parte del Parlamento.

Sostanzialmente si vanno a superare, derogare e mettere da parte quegli articoli che garantiscono la rigidità della Costituzione e, con essa, tutti i cittadini, proprio nel momento in cui si ha intenzione di incidere sulla Costituzione tanto pesantemente da andare a modificare l’architettura dello Stato.

In ultimo, mi piace ricordare la sentenza n. 1146 del 1988 della Corte costituzionale, laddove questa fa riferimento a principi supremi della Costituzione che non possono essere sovvertiti o modificati. In tale sentenza si parla specificamente della forma repubblicana, ma il principio della rigidità della Costituzione implicitamente fa parte di quei principi supremi che non possiamo derogare né sovvertire.

È per questo motivo che noi del Movimento 5 Stelle chiediamo a quest’Assemblea di non procedere, ai sensi dell’articolo 93 del Regolamento, all’esame del disegno di legge n. 813. (Applausi dal Gruppo M5S).

PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire la senatrice De Petris per illustrare la questione pregiudiziale QP2. Ne ha facoltà.

DE PETRIS (Misto-SEL). Signor Presidente, colleghi senatori, abbiamo riflettuto a lungo, come Gruppo, se presentare una questione pregiudiziale sulla legittimità costituzionale del disegno di legge costituzionale oggi al nostro esame e abbiamo voluto scrupolosamente partecipare ai lavori della Commissione proprio per cercare di dare il nostro contributo e, attraverso la proposizione di emendamenti, di modificare quelle parti che già al momento della presentazione del provvedimento da parte del Governo avevamo giudicato non pienamente legittime dal punto di vista costituzionale, in particolare riguardo all’articolo 138, come si evince dalla mozione allora presentata dal nostro Gruppo.

L’andamento dei lavori e le ulteriori modifiche apportate al disegno di legge in sede di esame in Commissione, in particolare la modifica all’articolo 2 tramite un emendamento della relatrice, ci hanno spinto senza più alcun indugio a presentare questa pregiudiziale di costituzionalità. Riteniamo infatti che per avviare questo processo di riforma costituzionale si sia abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione che è, vorrei ricordarlo, una norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma così come previsto dai Costituenti, proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali ed ormai, visti i tempi, su spinte demagogiche e populiste.

L’articolo 138, seppur modificabile dal Parlamento nel rispetto dei vincoli di rigidità della Carta, non è mai derogabile: è modificabile, ma mai derogabile. Si è scelta invece una strada che è quella dell’impiego di «una procedura straordinaria di revisione costituzionale» destinata a modificare i Titoli I, II, III e V della Parte II della Costituzione, nonché – e questo è il punto per noi fortemente allarmante, modificato dai lavori della Commissione – tutte le disposizioni strettamente connesse della Costituzione o di leggi costituzionali.

A nostro avviso ciò significa che ci si pone al cospetto di un potere paracostituente che esorbita dai poteri del Parlamento e che rischia di coinvolgere, non solo il Titolo IV della seconda parte della Costituzione (di cui si è ampiamente discusso sui giornali), ma anche la Parte Prima della Costituzione e quindi la stessa forma repubblicana. Ai colleghi del Partito Democratico consiglierei di rileggere l’intervento di Togliatti sull’articolo 1 della Costituzione e quindi sull’essenza della Repubblica democratica.

Pertanto, quando parliamo della possibilità di coinvolgere la stessa forma repubblicana, che secondo l’articolo 139 della Costituzione «non può essere oggetto di revisione costituzionale» (da qui nasce la giusta rigidità della nostra Costituzione), ovviamente non pensiamo a ungolpe per tornare a forme monarchiche, ma all’essenza della Repubblica democratica.

Riteniamo, poi, che il procedimento messo in atto con il disegno di legge in esame comprometta due elementi essenziali della rigidità costituzionale, che – ripeto – è principio immanente della nostra Costituzione e al quale ogni ipotesi di riforma, e anche di modifica dell’articolo 138, deve necessariamente uniformarsi.

I due elementi messi in discussione sono, a nostro avviso, essenziali.

Mi riferisco, innanzi tutto, alla centralità del Parlamento. Il disegno di legge delinea un procedimento che comprime il ruolo e le funzioni delle Camere, a vantaggio del Governo che, oltre ad essersi assunto l’iniziativa del processo riformatore, punta a vedersi riconosciuto un regime privilegiato nell’esercizio del potere di emendamento, sostanziale equiparazione, durante l’iter normativo, dei suoi poteri con i poteri attribuiti al Comitato; a nostro avviso, viene pertanto disatteso il primo comma dell’articolo 71 della Costituzione, che equipara le prerogative del Governo e di ciascun membro delle Camere nell’iniziativa legislativa, e quindi nell’emendabilità delle norme durante l’iterlegislativo; viene introdotto il divieto di presentazione durante il procedimento in Comitato delle questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli; agli emendamenti del Governo e del Comitato, come previsto dal comma 3 dell’articolo 3, si possono presentare subemendamenti solo da parte di un Presidente di Gruppo o di almeno 20 deputati e 10 senatori. Se un membro delle Camere è in dissenso dal Gruppo ad esso viene preclusa la possibilità di emendare, cancellando di fatto la differenza qualitativa che prevede il dissenso dal Gruppo, esplicitabile attraverso la presentazione di emendamenti propri o, come sancito dal comma 1 dell’articolo 84 e dal comma 2 dell’articolo 109 del Regolamento del Senato, negli interventi.

Il secondo elemento critico, che contravviene al principio sostanziale del procedimento, è che dovrebbe essere previsto un iter normativo lungo, ponderato e coerente con le finalità che sono proprie di ogni procedimento di revisione costituzionale, cioè la ponderazione e la riflessione. Tali istanze sono invece ampiamente contraddette dalla tempistica stringente e dai tempi del cronoprogramma proposto dal Governo ed oggi dal testo del provvedimento all’esame dell’Assemblea. In particolare, la procedura delineata dall’articolo 4, ancorché alleggerita con l’uso del verbo «consentire», prevede diciotto mesi per la conclusione dell’iter parlamentare, termine comunque perentorio, del tutto estraneo alla natura dei procedimenti di revisione che sollecitano una ponderata e reiterata valutazione delle opzioni normative da esaminare. Tale estraneità la si riscontra anche nelle disposizioni del comma 2 dell’articolo 1, che prevedono il potere sostitutivo di designazione coattiva da parte dei Presidenti di Assemblea.

Altra questione degna di nota, a nostro avviso, è contenuta nel comma 3 dell’articolo 2 in cui si prevede che il Comitato, nell’esame dei disegni di legge ad esso assegnati in sede referente, utilizzi le norme del Regolamento della Camera dei deputati; esso, oltretutto, consente di introdurre ulteriori disposizioni per lo svolgimento dei lavori, attribuendo così al Comitato il potere di autoregolamentarsi e di introdurre ulteriori anomalie procedurali.

L’articolo 2, che fissa i tempi dei lavori del Comitato, deroga completamente alle procedure legislative previste dal regolamento del Senato, oltre a prefigurare uno svuotamento delle prerogative delle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato. Il comma 3 prevede infatti che il Comitato esamini i progetti di legge secondo le norme della Camera dei deputati, e in regime di bicameralismo perfetto ciò non è giustificabile.

La voluta indeterminatezza sulle regole della procedura sancita dal testo al nostro esame introduce pertanto un evidente elemento di incertezza destinato inevitabilmente a determinare problemi più in là nel tempo.

La procedura attribuita al disegno di legge n. 813 è quella prevista dall’articolo 77 del Regolamento del Senato, che dimezza i tempi di esame del procedimento di approvazione. Tutto ciò in contrasto con quanto espressamente previsto dal quarto comma dell’articolo 72 della Costituzione che impone «la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera (…) per i disegni di legge in materia costituzionale», escludendo in tal modo che in questi casi possa essere adottato il procedimento abbreviato.

Un’altra questione che noi riteniamo assolutamente fondamentale, sempre in riferimento al cronoprogramma e alla tempistica, è quella relativa alla riduzione da tre mesi ad un mese e mezzo prevista dall’articolo 138 che, a nostro avviso, si è voluto in modo ostinato mantenere, pur allungando i tempi rispetto alla previsione iniziale.

L’ultima questione che vogliamo sottoporre all’attenzione dell’Assemblea è quella relativa al criterio di composizione del Comitato che rappresenta, a nostro avviso, oltre che una evidente forzatura, un altro dei punti critici che noi riteniamo assolutamente non rispettoso di ciò che si richiede per assicurare il principio di proporzionalità dei Gruppi.

Pertanto, per tutti questi motivi non ravvisiamo i presupposti di costituzionalità relativamente all’intero testo del disegno di legge n. 813.(Applausi dai Gruppi Misto-SEL e M5S).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ricordo che, ai sensi dell’articolo 93 del Regolamento, sulle questioni pregiudiziali presentate si svolgerà un’unica discussione, nella quale potrà intervenire un rappresentante per Gruppo, per non più di dieci minuti.

GIARRUSSO (M5S). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIARRUSSO (M5S). Signor Presidente, onorevoli colleghi, la Costituzione della Repubblica ha accompagnato il nostro Paese per oltre sessantacinque anni. La nostra Costituzione ha consentito ad un Paese distrutto dalla guerra, provato dalla dittatura fascista e diviso in due grandi blocchi politici contrapposti di rinascere e risorgere dalle proprie ceneri senza cadere nella guerra civile. La nostra Costituzione, colleghi, ci ha accompagnato negli anni bui e terribili della notte della Repubblica, quando il terrorismo di destra e di sinistra e le trame oscure dei servizi deviati e no tramavano tutti per abbattere la democrazia e restringere gli spazi di libertà.

La nostra Costituzione, colleghi, ha accompagnato questo Paese negli anni terribili delle stragi di mafia, quando un potere criminale pensava di contrapporsi con la violenza ad una politica debole e corrotta pensando di sopraffarla imponendo le proprie regole.

La nostra Costituzione, in tutti questi lunghi e a volte terribili anni, è stata un baluardo e un presidio a tutela delle libertà di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di religione o di orientamento politico.

Questa Costituzione, onorevoli colleghi, ha potuto svolgere il suo altissimo compito perché è stata frutto dell’incontro tra due culture, quella cattolica e quella comunista, che non potevano essere più diverse tra loro e che contrapponevano visioni della società fortemente diverse e a tratti reciprocamente incompatibili.

Eppure, colleghi, eppure, queste due così diverse e contrapposte culture hanno saputo regalare al nostro Paese un documento di straordinario ed elevatissimo valore, studiato, apprezzato e preso persino a modello in tutto il mondo.

E lo hanno potuto fare, colleghi, perché le donne e gli uomini che hanno scritto la nostra Costituzione avevano un passato comune che li aveva resi uniti nella diversità. Questi uomini e queste donne uscivano tutti dal tunnel buio, nero e orribile della guerra civile e della guerra mondiale: il tunnel orribile della dittatura fascista.

I Padri costituenti avevano provato l’orrore di un Paese senza libertà, nelle mani di un despota corrotto e imbelle, che aveva portato l’Italia alla distruzione. Questi Padri costituenti, pur nella loro radicale diversità di pensiero, avevano ben chiaro un principio: che la libertà era un valore che prescindeva dalle ideologie politiche, che era un bene comune e superiore che andava difeso ad ogni costo. La parola d’ordine dei Padri costituenti, colleghi, era una e una sola: mai più! Mai più l’Italia doveva cadere nelle mani di un despota. Mai più l’Italia doveva perdere la libertà riconquistata con la sofferenza e con il sangue.

I Padri costituenti avevano ben chiaro che le grandi dittature del Novecento (il regime bolscevico in Russia, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania) avevano tutte un tratto distintivo comune ed evidente: tutte erano andate al potere attraverso elezioni democratiche e, aggredendo e sterminando le opposizioni, avevano poi modificato la forma di governo e soppresso le libertà dei loro stessi cittadini.

Colleghi, la nostra Costituzione è stata pensata e voluta proprio per impedire che, attraverso una maggioranza estemporanea, dettata da fattori contingenti, una parte potesse sopraffare un’altra imponendo una forma di governo liberticida. Lo strumento per impedire riforme liberticide è stato quello di prevedere una Costituzione rigida: una Costituzione, cioè, che per essere modificata doveva seguire obbligatoriamente un percorso ben definito, ovvero quello dettato dall’articolo 138. Articolo, questo, voluto dai Padri costituenti per impedire proprio colpi di mano di estemporanee maggioranze, prevedendo riletture ripetute dell’atto, tempi minimi tra una lettura e l’altra, maggioranze qualificate, possibilità di intervento delle autonomie locali e dei cittadini.

Il disegno di legge che andiamo oggi ad esaminare, invece, deroga proprio all’articolo 138 della Costituzione, vulnerando il principio che era stato posto a tutela della nostra Costituzione. Viene demandato l’esame in sede referente delle norme costituzionali ad un Comitato la cui composizione risulta confusa e imprecisa, visto che le norme parlano di una composizione di venti senatori e venti deputati, ma poi vi sono membri di diritto; quindi, si è modificata la composizione senza modificare il numero complessivo che viene indicato in quaranta.

La redazione delle norme più importanti per il nostro Paese e la nostra democrazia viene, quindi, portata fuori dal Parlamento, che così viene svuotato illegittimamente dei propri poteri. La stessa composizione dell’illegittimo Comitato è confusa, signor Presidente, poco chiara, e rimanda ad atti eccessivamente discrezionali dei Presidenti delle Camere, che determineranno la composizione dell’organo in questione stabilendo la ripartizione dei membri tra le varie forze politiche.

Vengono compressi i tempi di rilettura da parte delle due Camere, impedendo e comprimendo così la possibilità di dibattere ed esaminare in maniera esauriente le norme da approvare. Vengono compressi i diritti dei parlamentari, con la riduzione e la compressione del diritto di presentare emendamenti.

Ma vi è di più e di peggio: la riforma della Costituzione sarebbe già in discussione presso un altro organo, del tutto extraparlamentare, i cui lavori addirittura non sono pubblici. Dico “sarebbe” perché i lavori di questo anomalo organo sono segreti ed occulti e quindi i cittadini e i loro portavoce in Parlamento non sono al momento nemmeno in grado di conoscere quali riforme il Comitato sarà chiamato a ratificare.

Vi è inoltre un inaudito ed inammissibile sbilanciamento a favore dell’Esecutivo, cui sono stati concessi enormi privilegi emendativi delle norme costituzionali.

Senza dilungarmi oltre su quanto già esposto dai colleghi che mi hanno preceduto – e che condivido – mi preme in questa sede manifestare in maniera chiara, forte ed inequivocabile che il Movimento 5 Stelle ritiene questa procedura del tutto illegittima costituzionalmente e fonte di enormi pericoli per la tenuta democratica del nostro Paese.

Una riforma della Costituzione di così ampia portata non può essere frutto di un atto di forza di una raccogliticcia maggioranza, ma deve nascere invece da un più ampio consenso.

Tutte le disposizioni del disegno di legge in discussione, però, puntano a comprimere gli spazi a disposizione dell’opposizione per interloquire e partecipare alla modifica della Carta costituzionale. Si tratta, quindi, proprio del rischio che i Padri costituenti volevano assolutamente ed in tutti i modi evitare.

Vi è poi un altro e non indifferente motivo di contrarietà a questa procedura. La Corte costituzionale, pur non abrogandola per non lasciare un vuoto normativo, si è pronunciata sulla evidente incostituzionalità della legge elettorale che ha determinato questa anomala maggioranza, la quale, per tali motivi, dovrebbe assolutamente astenersi, per prudenza e rispetto dei cittadini, dal modificare radicalmente la nostra Costituzione.

Onorevoli colleghi, la nostra Costituzione nel 1948 ha unito un Paese diviso e devastato dalla guerra. Questa sua modifica, invece, rischia di dividere il nostro Paese in maniera insanabile ed irreparabile.

Per queste ragioni il Movimento 5 Stelle fa appello a tutti i parlamentari di buona volontà, appartenenti a tutti i partiti, affinché, per un momento, superino le loro appartenenze di parte per ritornare ad essere, almeno per una volta, portavoce dei cittadini, impedendo lo scempio della nostra Carta costituzionale. (Applausi dal Gruppo M5S e della senatrice De Petris).

DE CRISTOFARO (Misto-SEL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE CRISTOFARO (Misto-SEL). Signor Presidente, ne approfitto per preannunciare il nostro voto favorevole sia sulla pregiudiziale di costituzionalità presentata dalla componente SEL del Gruppo Misto che sulla pregiudiziale di costituzionalità su cui è appena intervenuto il collega Giarrusso per il Movimento 5 Stelle.

Riteniamo, come ha detto la senatrice De Petris poco fa, che la strada che il Governo ha imboccato, pur partendo da un presupposto condivisibile, cioè quello di intervenire sulle istituzioni rappresentative per dare una serie di risposte alle pressanti richieste dell’opinione pubblica, in particolare sul tema della crisi della politica, non colga le questioni di fondo di questo straordinario e drammatico passaggio storico che l’intero Paese sta attraversando.

In particolare, noi consideriamo questa strana scelta di abbandonare (peraltro per la prima volta nella storia repubblicana) l’articolo 138 per la revisione costituzionale un vero e proprio vulnus. Tale articolo, infatti, seppur modificabile dal Parlamento nel rispetto dei vincoli di rigidità della Carta, non è mai derogabile, com’è stato detto. Inoltre, l’impiego della procedura straordinaria di revisione costituzionale, destinata a modificare i Titoli I, II, III e V della Parte Seconda della Costituzione, nonché le leggi ordinarie costituenti e tutte le modificazioni connesse ai Titoli precedenti, compromette due elementi essenziali della rigidità costituzionale. Sono state ricordate in particolare la centralità del Parlamento e, ancora, la previsione di quell’iter normativo lungo, vera e propria garanzia costituzionale, che è esattamente un iter coerente con le finalità proprie di ogni procedimento di revisione.

Per quanto riguarda il primo punto, ci sembra del tutto compresso il ruolo delle Camere a tutto vantaggio dell’Esecutivo, in una fase storica in cui, invece, sarebbe davvero auspicabile ridare centralità politica al Parlamento repubblicano. A nostro avviso, viene disatteso il primo comma dell’articolo 71 della Costituzione, che equipara le prerogative del Governo e di ciascun membro delle Camere nella iniziativa legislativa, oltre ad essere introdotto il divieto di presentazione, durante il procedimento, delle questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli.

Sul secondo punto, cioè sull’iter normativo, in presenza di un provvedimento che deroga completamente alle procedure legislative previste in particolare dal Regolamento del Senato, conserviamo le stesse perplessità. Peraltro, lo stesso comma 3 (attuale comma 4 nel testo proposto dalla Commissione) dell’articolo 2 prevede che il Comitato esamini i progetti di legge secondo le norme del Regolamento della Camera, come se il Senato fosse già stato abolito. Vi inviterei, colleghi senatori, a riflettere su questo punto. Tutti abbiamo espresso dubbi rispetto al bicameralismo perfetto e alla necessità di intervenire, eventualmente, sul superamento del Senato e sulla istituzione di un Senato federale. Francamente, però, considerare questo organo, questo Senato della Repubblica, già esautorato delle proprie competenze ci sembra un errore politico gigantesco.

Considerando, quindi, anche i criteri del tutto opinabili di composizione del Comitato, per tutte le ragioni che abbiamo detto, non ravvisiamo i presupposti di costituzionalità relativamente all’intero testo. E lo facciamo – lasciatemelo dire, anche in relazione agli interventi che ho ascoltato – perché pensiamo che davvero bisogna avere grande cura della nostra Costituzione repubblicana.

Lo abbiamo detto tutti, e lo condivideranno anche gli onorevoli senatori che voteranno diversamente da noi: la nostra Costituzione è figlia di un compromesso straordinario, forse il compromesso più straordinario che si è prodotto nel corso dell’intera storia della Repubblica. Forze differenti, quelle cattoliche, quelle laiche, quelle comuniste che diedero vita alla Resistenza antifascista, produssero prima una lotta straordinaria e poi, probabilmente, il più alto risultato che si potesse raggiungere.

Signor Presidente, noi che ricordiamo sempre – e la vorremmo ricordare a tutti quanti voi – la lezione dei Padri della Costituzione del nostro Paese, la lezione di Calamandrei e degli altri, vediamo davvero una distanza siderale tra quel compromesso, che fu innanzitutto un compromesso di popolo che consentì all’Italia di percorrere la strada della democrazia, e questo compromesso di oggi, che invece quella Carta rischia di stravolgere. Un compromesso, colleghi senatori, senza popolo, in cui il popolo, differentemente dagli anni passati, non c’è e che pensiamo non abbia il potere e nemmeno la sufficiente legittimazione morale per stravolgere la nostra Costituzione.

Per questo mi rivolgo a tutti quanti voi, singolarmente, perché vi ascolto spesso e vi ho ascoltato in tutti questi anni, anche quando non eravamo fuori dal Parlamento, dichiarare la fedeltà e la giustezza della nostra Carta costituzionale. Per questo motivo io mi rivolgo a tutti quanti voi: per mettere al centro di questo dibattito la dignità del Parlamento nazionale, della Costituzione repubblicana e delle lotte straordinarie grazie alle quali questi equilibri furono raggiunti. (Applausi dai Gruppi Misto-SEL e M5S).

PRESIDENTE. Metto ai voti la questione pregiudiziale, presentata, con diverse motivazioni, dal senatore Campanella e da altri senatori (QP1) e dalla senatrice De Petris e da altri senatori (QP2).

Non è approvata.

DE PETRIS (Misto-SEL). Chiediamo la controprova.

PRESIDENTE. Senatrice De Petris, l’esito della votazione è talmente evidente, in questo caso, che non ammetto la controprova. (Applausi dal Gruppo PdL).

Dichiaro aperta la discussione generale.

È iscritto a parlare il senatore Fazzone. Ne ha facoltà.

FAZZONE (PdL). Signor Presidente, la presidente Finocchiaro ha spiegato in maniera puntuale quale sia stato il lavoro certosino svolto dalla Commissione per cercare di mettere in condizione il Parlamento di svolgere un lavoro serio e essenziale rispetto al compito che si è prefisso questo Comitato.

Bisogna dire che di riforme si parla da trent’anni. A tutt’oggi, numerosi sono stati i tentativi, peraltro senza alcun risultato, di ammodernamento delle nostre istituzioni, al fine di renderle più forti e più efficienti; ma stavolta abbiamo una spinta in più: un fallimento non rappresenterebbe, infatti, la sconfitta dell’uno o dell’altro schieramento, ma sarebbe la sconfitta dell’intera classe politica.

Dal 1948, anno in cui entrò in vigore la Costituzione italiana, sino al 1999 sono state emanate 25 leggi costituzionali e di revisione costituzionale relative ad alcuni specifici argomenti; ne cito alcuni: le modalità di elezione di Camera e Senato; il numero delle Regioni; la composizione della Corte Costituzionale; le responsabilità penali dei Ministri; il potere di scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato; le modalità di concessione dell’amnistia e dell’indulto; l’istituto dell’immunità parlamentare; l’autonomia statutaria delle Regioni, eccetera. Tutti questi sono stati interventi ad hoc, mirati.

Dal 2000 in poi, invece si è agito diversamente: tranne che per due interventi, sull’abolizione del divieto di ingresso dei Savoia in Italia e sul concetto di pari opportunità, si ravvisano solo interventi su progetti organici di riforma costituzionale, ma sono state perse di vista le reali esigenze. Non ci si è più infatti soffermati su temi specifici, fermi restando alcuni casi sporadici prima citati: si è intervenuti sulla modifica del Titolo V della Costituzione, sul federalismo e sulla riduzione del numero dei parlamentari.

L’inefficienza delle istituzioni ha quindi costituito e costituisce un costo anche economico che non possiamo permetterci e che il nostro Paese non può più sopportare. Se, pertanto, rispetto ad altri Paesi, caratterizzati da un tessuto sociale più labile e da basi economiche meno solide delle nostre, la crisi da noi si è fatta sentire con maggiore durezza ed impatto, la ratio è di sicuro da ricercare nell’inadeguatezza del nostro assetto istituzionale, non alla portata e non in linea con le decisioni da assumere.

Attualmente nel Paese è in corso un dibattito: c’è chi sostiene che in Italia le riforme vadano necessariamente poste in essere, c’è chi invece ritiene che le riforme siano solo un mero escamotage cui è legata la sopravvivenza stessa dell’Esecutivo. Sul tema, dunque, si consuma un duro scontro.

Vedete, noi siamo dell’avviso che le riforme siano imprescindibili e che sia fortemente necessario avviare una stagione di riforme istituzionali di ampio respiro che si ponga al di sopra dei pregiudizi e dell’imperante dicotomia politica e conferisca alle stesse riforme la medesima rilevanza di cui godono le riforme sociali, economiche e finanziarie. Istituzioni che funzionano significano un’Italia più forte, più moderna, più competitiva.

Nel delineare un percorso che consenta di arrivare a tale traguardo, si è quindi tenuto conto di tre esigenze: assicurare la centralità del Parlamento, definire tempi ragionevolmente certi pur senza comprimere il dibattito; agevolare una forte coesione politica nei due rami del Parlamento che metta le riforme il più possibile al riparo dalle tensioni della quotidianità. Tali esigenze sono state rispettate nel percorso che il disegno di legge individua. La centralità del Parlamento è assicurata; i tempi dell’iter sono sufficientemente ampi, ma cadenzati per raggiungere l’obiettivo nell’arco di diciotto mesi. Inoltre, la decisione di partire con un Comitato congiunto di Camera e Senato in composizione paritaria è sinonimo e garanzia di coesione e di rispetto, soprattutto nel momento in cui ci si occupa di riforme che riguardano l’assetto del Parlamento stesso. In più, l’articolo 138 ne esce rafforzato nel momento in cui viene prevista la possibilità di richiedere uno o più referendum, anche nel caso in cui in Parlamento venga raggiunta la maggioranza dei due terzi.

Viene inoltre sancito un altro aspetto importante, che certifica la volontà di porre seriamente in essere le riforme: si tratta, infatti, della decisione di definire la nuova legge elettorale insieme alla forma di governo. Per troppo tempo si è pensato di poter cambiare il sistema modificando la sola legge elettorale: con quali risultati? Per la prima volta, viene finalmente riconosciuto che la legge elettorale sia complemento della forma di governo e che non possa essa, da sola, determinare l’equilibrio di un sistema politico-istituzionale. Anche questo è un traguardo importante e vincente.

Differente è il discorso che riguarda la legge vigente. C’è un’ordinanza della Cassazione che ha rimesso l’attuale legge elettorale alla Corte costituzionale; non sappiamo cosa ne sarà, se verrà ritenuto ammissibile e in caso affermativo come sarà valutato. Starà quindi alle forze politiche e ai Gruppi parlamentari valutare se sia possibile un’intesa per una clausola di salvaguardia che, in attesa della legge elettorale definitiva, corregga gli aspetti della legge vigente sui quali sono stati espressi dubbi di incostituzionalità, evitando così che sia la Corte a cambiare la legge elettorale ed anche che il Paese si trovi impossibilitato ad andare al voto qualora si verifichino eventi che lo rendano necessario.

Altro tema che mi sento di rimarcare brevemente è quello afferente le Province. La Corte costituzionale, nel pronunciarsi sull’illegittimità delle disposizioni contenute nel cosiddetto decreto salva Italia, ha infatti aperto la strada ad un’indispensabile riforma dell’intero impianto del Titolo V della Carta costituzionale. Il problema pertanto non risiede nell’utilità o meno delle Province, bensì nell’inefficacia dell’apparato stesso, a tutti i livelli di governo. Il nostro obiettivo deve essere quello di trovare il metodo e la struttura che possano assicurare al Paese un rinnovato assetto istituzionale.

L’auspicio è quindi che il Parlamento intervenga in modo strutturale sulle riforme istituzionali con interventi coerenti con l’assetto costituzionale, realizzando un assetto politico amministrativo capace di rispondere ai fabbisogni sociali con una redistribuzione chiara di competenze e funzioni.

In Commissione si è lavorato bene in merito a disegno di legge citato, in un clima di collaborazione e confronto reciproco, senza l’insorgenza di problemi né remore di alcuna sorta. Fuori, nel frattempo, sono scoppiate polemiche fondate sul nulla, perché mai nessuno ha pensato a strappi o ad emendamenti che avessero un significato diverso da quello che poi è stato infatti riconosciuto; il tempo è galantuomo ed i fatti hanno smentito tali speculazioni.

Sono infatti certo che il Governo abbia compreso il nodo della questione e che segua l’unica strada percorribile: quella dell’attuazione di una seria riforma costituzionale in Parlamento, che guardi alle reali necessità dei cittadini ed ad una razionalizzazione che non può passare per l’abolizione di elementi fondamentali del nostro sistema istituzionale; ma soprattutto una strada che riconferisca al Belpaese quella dignità costituzionale che da troppo tempo è andata perduta. (Applausi dal Gruppo PdL).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Cioffi. Ne ha facoltà.

CIOFFI (M5S). Signor Presidente, colleghi senatori, ero dubbioso sul mio intervento odierno vista la delicatezza della materia e la sua specificità: avvocati e professori di diritto sono infatti più competenti di me, che sono un ingegnere, sulla materia. Vorrei, tuttavia, affrontare il discorso da un punto di vista organizzativo, cioè quell’aspetto che, a parere di chi ha deciso di adottare queste nuove procedure di modifica della Costituzione, costituisce il vero punto di forza del percorso che stiamo per intraprendere.

Per questo ho esaminato i processi, ma anche la storia dei tentativi precedenti di modifica, e devo dire che il quadro non è molto incoraggiante. Venti anni fa questo Parlamento si era affidato ad un organismo, chiamato «Bicamerale», presieduto da un noto esponente di sinistra, fallito dopo che tante speranze aveva ingenerato, tra recriminazioni e accuse reciproche. Poi, constatato che era impossibile raggiungere un accordo con il nemico, è iniziata la stagione delle modifiche unilaterali. Prima è venuta la modifica del Titolo V, Parte II, della Costituzione: un disastro di cui paghiamo oggi le conseguenze; poi le riforme del centrodestra, colpite da anatema e affossate con grande giubilo da un referendum popolare. Dopo dì ciò il nulla, fino ad oggi.

Mi sono detto: questa volta si terrà conto della storia, si metteranno solide basi al processo delle riforme; si tratta di costruire la casa comune: le cose vanno fatte come si deve. Poi però ho ripensato alla storia di questa disgraziata XVII legislatura e ho ripensato ad un Parlamento che per due mesi è rimasto paralizzato, senza le Commissioni permanenti, perché non era ancora chiaro chi fosse la maggioranza e chi fosse l’opposizione. Ho pensato ad un Parlamento che non ha saputo eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e che si è ritrovato a dover chiedere ad un signore di 88 anni di ripresentare la propria candidatura: un’eccezione alla prassi costituzionale di grande portata. Ho assistito attonito al discorso di insediamento di quel signore, il presidente Napolitano, che certificava l’incapacità non solo di questo Parlamento, ma anche della classe politica di cui era espressione. Ancor più stupito ho assistito alla scena surreale di un Parlamento che, bastonato come non mai, applaudiva il proprio fustigatore. (Applausi dal Gruppo M5S).

Ecco, cari colleghi, a quel punto mi sarei aspettato uno scatto di orgoglio e una seria pianificazione finalizzata alle riforme, ma ancora una volta il razionalista che è in me ha avuto torto. Come può, infatti, un Parlamento che viene continuamente esautorato nelle sue funzioni dal Governo, rimanendo inerme, essere in grado di decidere su qualcosa? Come fa un Parlamento che proroga all’infinito le troppe gestioni commissariali decidere di assumersi una responsabilità in prima persona, senza delegare? Infatti è successo esattamente ciò che era prevedibile: il Parlamento ha deciso, sostanzialmente, di esternalizzare il processo di costruzione delle riforme. (Applausi dal Gruppo M5S).

In Italia il processo di esternalizzazione è diventato semplice, legale, benedetto dall’Europa. Le grandi industrie come la FIAT ed altre hanno spostato in questo modo manodopera e responsabilità, adottando nuovi contratti di lavoro, spesso peggiorativi, e qualche volta chiudendo le attività, licenziando i propri lavoratori, in nome del profitto e con la scusa della crisi. Attenzione, cari colleghi, state facendo la stessa cosa e state seguendo la stessa china: se passerà questo provvedimento certificherete la vostra incapacità; di più, certificherete la vostra inutilità. (Applausi dal Gruppo M5S). Una commissione esterna deciderà per voi quale sia il sistema migliore; forse litigheranno di meno, ma di certo non sentiranno il bisogno di confrontarsi con questa Assemblea. Quando e se avranno partorito il progetto, poi, avranno il privilegio di parlare a pochi, scelti tra noi, ovvero ad un Comitato, e solo alla fine ci sarà dato di adottare le procedure di cui all’articolo 138 della Costituzione. A quel punto, però, avremo davvero deciso qualcosa o saremo ridotti a notai, pronti a ratificare una decisione presa altrove, sopra le teste dei cittadini?

A quel punto, cari colleghi, quando avremo certificato l’inutilità del Parlamento come luogo in cui si formano le leggi, dove esternalizzare è la soluzione migliore, non pensate che qualcuno possa ragionevolmente pensare che questa istituzione, già svilita e delegittimata, possa essere legalmente ignorata, superata, chiusa? Cari colleghi, il mio non vuole essere un anatema e io non voglio essere una novella Cassandra o un profeta di sventura. Voglio soltanto che apriate gli occhi, che facciate prevalere l’orgoglio (non il sentimento egoistico e deleterio, ma l’orgoglio di rappresentare i cittadini di questo Paese) e che rivendichiate con forza il diritto e il dovere di essere protagonisti del processo di riforma. Vi prego, come ingegnere e come cittadino eletto: lasciamo perdere questa follia e costruiamo noi, insieme, la casa degli italiani. (Applausi dal Gruppo M5S).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Pagliari. Ne ha facoltà.

PAGLIARI (PD). Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo tutti sentano la solennità e la responsabilità del momento e, sotto questo profilo, la necessità di non ricorrere a facili argomenti dialettici e a vie di fuga.

Da questo punto di vista due sono le considerazioni emerse nel dibattito che vanno confutate. Da un lato, vi è la piena legittimità del Parlamento che la pendenza di un ricorso non esclude. Non si capisce per quale motivo questo Parlamento debba essere delegittimato solo perché un’ordinanza della Cassazione pende innanzi alla Corte costituzionale. In tal modo si delegittima non il Parlamento ma le istituzioni, per cui sotto questo profilo una riflessione attenta credo debba essere svolta. La legalità è qualcosa di diverso dalla politica e la legalità costituzionale lo è in misura maggiore.

In merito alla seconda considerazione, l’articolo 138 della Costituzione non pone un problema di immodificabilità, ma di rigidità legata a procedure più complesse che evitino quanto è avvenuto sotto lo Statuto Albertino, ossia la possibilità di modificare la Costituzione con una legge ordinaria. Esiste poi il limite della revisione, che non può essere rivoluzione in senso tecnico‑giuridico, ma è assolutamente altro rispetto a quello di cui stiamo e vogliamo discutere.

Detto ciò, non credo sia accettabile il processo alle intenzioni. Anche questa è una facile via di fuga. Apriamo un processo di confronto costituzionale. A nessuno è lecito accusare altri, sul piano dell’onestà intellettuale e politica, di voler arrivare ad uno stravolgimento della Costituzione. Non credo possa questo far parte di una seria dialettica politica in un momento di così grave responsabilità istituzionale.

Si tratta di un’altra via di fuga. Affrontiamo i problemi. Ricordiamoci che Parlamento e popolo avranno per fortuna, e comunque, l’ultima parola. Pertanto, anche quando il Parlamento dovesse arrivare – come temono coloro che hanno prima parlato – a soluzioni proprie del potere non costituito ma costituente, ci sarà sempre l’ultimo controllo. È questo il punto su cui credo si debba riflettere con forza. Capisco che possa apparire un argomento giuridico, ma è nel contesto di un processo come quello in esame.

L’articolo 138 della Costituzione viene modificato in due punti. Innanzitutto, si portano i 3 mesi a 45 giorni, nel senso che si riduce alla metà il termine. A questa modifica fa però da controbilanciamento la possibilità del referendum anche quando, in seconda lettura, vengono approvati i progetti di legge con la maggioranza dei due terzi. Se questa non è una garanzia costituzionale, non è una previsione di rispetto nei confronti del popolo sovrano e quindi di assoluta coerenza con l’articolo 1, non so dove si possa trovare un altro punto di coerenza più preciso e puntuale.

Si può discutere la modifica dell’articolo 138. Ho dichiarato al riguardo le mie perplessità. Non credo, però, si possa fare quella lettura semplificatoria e, per certi versi, mistificatrice secondo cui la modifica dell’articolo 138 svende la rigidità della Costituzione. Oggettivamente non è così. Ripeto che si può essere a favore o contro, ma si tratta di altro.

Con il processo costituente si apre comunque un campo di confronto che nasce dalla necessità di efficientare un sistema, che va fatto non dimenticando che la democrazia è fatica e ha necessariamente i suoi tempi. Non si può semplificare tutto. Sotto questo profilo una revisione dei meccanismi sta nelle cose, sta nelle riflessioni degli stessi Padri costituenti e richiamo ancora una volta a tal proposito il discorso di Dossetti tenuto a Parma nel 1995.

Sulla razionalizzazione del sistema parlamentare credo che si dovrà discutere a lungo nel percorso che si apre. Voglio però sottolineare altro: non dimentichiamoci che il campo di confronto non è solo la forma di Governo che non costituisce neanche una pregiudiziale. Noi dobbiamo affrontare i Titoli I, II, III e V. È, quindi, necessario che si apra subito un campo di confronto su tutti questi temi perché l’efficientamento del sistema non passa solo attraverso l’efficientamento del sistema parlamentare, ma anche e profondamente attraverso il sistema delle autonomie locali e la loro riforma.

Il tema delle Province è l’emblema e il problema più evidente che va affrontato nella riforma del Titolo V per quanto riguarda la competenza legislativa concorrente, che va pensato nel ridisegno del sistema delle autonomie, nella distribuzione delle competenze tra competenze d’amministrazione attive e di indirizzo. È un sistema che va modificato, che non ammette vie di fuga o tagli di rami senza un ridisegno complessivo perché l’eliminazione delle Province, per esempio, avrebbe il solo effetto di non efficientare il sistema, ma di caricarlo di inefficienze senza risparmi di spesa. (Applausi dal Gruppo PD). Da questo punto di vista, credo che il ridisegno vada fatto in modo organico e che questo sia un punto centrale di tutta la riflessione.

Ci sono anche altri aspetti che riguardano la stessa competenza legislativa e credo che questa sia l’occasione per cui si ridisegni il tema del decreto-legge dal punto di vista dei presupposti e dei limiti dei contenuti. Sempre sul piano della competenza legislativa, credo che possa essere fatta una riflessione contro la deteriore prassi delle leggi o dei decreti legge omnibus. Ci sono tanti temi su cui il processo costituente deve avviarsi ed è essenziale che non si parta da un tema pregiudiziale perché la forma di Governo, per l’appunto, non lo è. La forma di Governo è una delle questioni che andranno affrontate, ma evitiamo l’errore di bloccarci su questo e di non andar avanti su altro se non troviamo la soluzione. Il lavoro dovrà essere portato avanti attraverso questo processo.

C’è poi la questione molto importante della legge elettorale. Credo che su questo tema l’importante riflessione che sta maturando, spinta dal Partito Democratico, porti a considerare la necessità di una modifica immediata della legge elettorale stessa, salvo poi modificarla al termine del processo costituente. Credo che su questo piano il Parlamento potrà aumentare la sua credibilità non meno che con l’esito positivo del processo delle riforme.

Mi auguro che in merito si trovi una soluzione che porti a garantire ai cittadini il diritto di scelta dei propri parlamentari e che porti a meccanismi che garantiscano effettivamente la governabilità, a una riflessione sull’interesse complessivo della Nazione, che sia la prima dimostrazione che questo processo costituente è una sfida della responsabilità, della maturità politica e istituzionale e che non è un rito che si mette in campo per distrarre rispetto ai temi socio-economici, che rimangono l’altro punto di attenzione sul quale, credo, che né Governo né Parlamento abbasseranno la guardia. (Applausi dal Gruppo PD).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Presidente, colleghi, non c’è dubbio che trent’anni di discorsi e di progetti inconcludenti abbiano reso gli appelli e le esortazioni su questi temi ripetitivi, stucchevoli e poco credibili; eppure ritengo che l’Italia non abbia in realtà un’alternativa: non può ripartire altro che dalla riscrittura della Costituzione e del sistema elettorale, capace di fondare un’autentica democrazia maggioritaria.

Resto dell’opinione che i risultati elettorali del febbraio scorso e le difficoltà incontrate all’inizio della legislatura non evidenzino una normale crisi politica, ma una più profonda crisi di sistema, che rischia di lambire gli stessi principi della rappresentanza politica. È vero che le regole del gioco non possono fornire alibi a giocatori indolenti, sui quali principalmente ricade la responsabilità della disaffezione e della protesta degli elettori, ma trovo riduttivo e, per certi versi, persino fuorviante, affermare che la crisi attuale riguardi unicamente l’affidabilità della classe politica e non le regole costituzionali ed elettorali, specie se si considera che, come sappiamo, le regole possono comunque condizionare forme e modi della politica. È appena il caso di sottolineare che un sistema di Governo debole fu voluto dalla Costituente, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri d’indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa che non ha eguali in altre democrazie parlamentari.

Dobbiamo dunque evitare di cadere nella trappola di fare del nostro attuale sistema istituzionale il parafulmine su cui scaricare tutte le responsabilità delle gravi insufficienze della politica, ma non deve sfuggirci il problema di fondo: la crisi di legittimità delle istituzioni pubbliche e del potere politico. Per parecchio tempo i partiti sono riusciti a supplire alle debolezze delle istituzioni; adesso è venuto il momento di dare vita a strutture istituzionali robuste che siano in grado di dare, esse stesse, forza ai partiti e agli altri canali di partecipazione. È venuto il momento di passare da un’invocazione astratta di riforma della politica a più puntuali riforme delle istituzioni politiche.

Anche per questo avremmo preferito – come abbiamo detto in altre occasioni – partire dalle proposte e non dalle procedure. Questo Governo è nato dalla cooperazione eccezionale; tra partiti altrimenti alternativi per compiere scelte eccezionali; dunque, avremmo preferito che subito si fosse messo all’ordine del giorno delle Commissioni affari costituzionali la proposta di riforma del Governo, seguendo le procedure dell’articolo 138 della Costituzione, specie se si considera che i cambiamenti di cui si discute, molte volte promessi e altrettante volte rinviati e contraddetti, sono stati già ampiamente dibattuti e precisati anche con proposte di legge presentate in questa e nelle scorse legislature. Non c’è pertanto niente da istruire, si tratta piuttosto di scegliere: se c’è accordo politico, non saranno poche centinaia di emendamenti a metterlo in discussione; se l’accordo politico non c’è, non sarà un Comitato parlamentare, sia pure speciale, a crearlo.

Entrando nel merito, mi soffermo solamente su un punto; il Comitato ha, come sappiamo, una funzione referente esclusiva, il che si traduce nell’assegnazione al solo Comitato di tutti i disegni di legge costituzionali o ordinari presentati dall’avvio della legislatura. Il testo, a proposito dei disegni di legge riservati all’esame referente esclusivo del Comitato, al comma 1 dell’articolo 2, recava la dicitura: «coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali»: poi, dopo l’esame della Commissione, è stato apportato un emendamento che modifica tale dicitura in: «conseguenti progetti di legge». In entrambi i casi le diciture volevano circoscrivere rispetto alla generale materia elettorale, un più ristretto novero di iniziative legislative: sia il termine «coerente» che il termine «conseguente» indicano la correlazione di una riforma della legge elettorale con la riforma costituzionale che si va ad approvare, come peraltro ha sottolineato la relatrice. Noi riteniamo però sia il caso di rimarcare e chiarire ancora una volta che, laddove questa correlazione non si ponga, la funzione referente permane alle Commissioni affari costituzionali. Nelle more della revisione costituzionale, i cui tempi, proprio ai sensi del presente disegno di legge costituzionale, sono necessariamente lunghi, bisogna acconsentire di poter modificare transitoriamente la vigente legge elettorale per le Camere. In fondo, non è un mistero per nessuno che una delle ragioni della crisi sta proprio nell’incapacità dei politici di assumersi le proprie responsabilità.

Venendo ad una questione più di fondo e più generale, da più parti si ritiene che nella storia dell’Italia unita sia possibile identificare una robusta linea di continuità rappresentata da un approccio ortopedico e pedagogico al problema del rapporto tra Paese legale e Paese reale. Questo approccio si fonda sulla convinzione che l’Italia sia moralmente e materialmente arretrata, che debba essere modernizzata, cioè debba essere raddrizzata e rieducata, il più in fretta possibile che non possa essere modernizzata altro che con strumenti in senso lato politici (lo Stato, la pubblica amministrazione, la mobilitazione dei partiti e così via) e che di conseguenza sia assolutamente prioritario identificare l’élite politica giusta, provvederla degli utensili adatti, tenerla il più possibile al riparo dai condizionamenti della società.

Ovviamente, non tutta la storia d’Italia può essere ricondotta a questa linea di continuità, tanto meno possiamo dimenticare le differenze abissali che hanno separato l’una dall’altra la stagione liberale, la fascista e quella repubblicana. Tuttavia, la maniera ortopedica e pedagogica di pensare il rapporto tra Paese legale e Paese reale ha condizionato in misura notevole i nostri primi centocinquant’anni di vita unitaria.

Storici di grande valore hanno sostenuto la necessità di questo approccio pedagogico e ortopedico adottato dalle diverse élite politiche italiane e ovviamente la storia di quella tradizione non è fatta soltanto di limiti e fallimenti. Tuttavia, i vari progetti di rieducazione del Paese il più delle volte non solo hanno mancato di raggiungere i loro scopi, ma spesso hanno finito per condurre a risultati esattamente opposti a quelli che perseguivano, confermando negli italiani la convinzione che lo Stato fosse non esclusivamente, ma soprattutto un nemico dal quale difendersi.

La reazione al fallimento del ceto di governo è consistita invariabilmente, in ogni periodo della storia d’Italia, nel tentativo di individuare una nuova classe politica – in generale anche questa propensa robustamente all’ortopedia e alla pedagogia – che per capacità e moralità desse garanzia di voler e poter compiere quell’opera di rieducazione e di raddrizzamento del Paese.

In questo modo, però, l’Italia ha continuato a porsi insistentemente sempre la stessa domanda, che Karl Popper considerava sbagliata: chi deve governare? Rispondendo immancabilmente, dopo aver provato e scartato una risposta dopo l’altra: i migliori. Come ricorderete la domanda corretta, secondo il filosofo austriaco, è un’altra e cioè: come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?

Ecco, il nostro Paese non è mai arrivato al passo che secondo Popper segna la modernità liberaldemocratica, ossia cambiare non risposta, ma domanda e chiedersi non chi debba governare, ma come sia possibile costruire un meccanismo istituzionale che consenta di sostituire pacificamente i governanti quando li si ritenga inadatti, cosa che nel nostro Paese è avvenuta sempre con molta fatica.

L’insensibilità nei confronti delle istituzioni rappresenta un elemento caratteristico della vicenda italiana, tanto quanto lo è l’enfasi sul rinnovamento della classe politica. Quel che conta è sempre chi detenga il potere, identificare una élite virtuosa che possa affrontare e risolvere rapidamente, radicalmente e magicamente i problemi italiani. Ancor di più quel che conta il più delle volte, è identificare chi debba essere escluso dal potere. Quel che conta non è mai come sia organizzato, disciplinato e limitato il potere.

Ebbene, la riforma costituzionale resta l’unica via possibile perché si creino le condizioni per un’opera di governo davvero più coerente, rapida ed efficiente, specie se si considera che agiamo all’interno di istituzioni politiche nelle quali, per le ragioni storiche accennate, il momento dei contrappesi e delle garanzie è largamente sovradimensionato rispetto a quello della decisione.

Dunque la vera frattura con la nostra vicenda nazionale sarà quella di enfatizzare il ruolo delle istituzioni e della possibilità che le élitecircolino secondo la volontà degli elettori.

Dobbiamo darci, signor Presidente, istituzioni coerenti e ben funzionanti che consentano la sostituzione pacifica delle élite, smettendo di pensare che queste possano rendere l’Italia magicamente diversa da quella che è. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore De Cristofaro. Ne ha facoltà.

DE CRISTOFARO (Misto-SEL). Signor Presidente, come ho già avuto modo di sottolineare, l’intero percorso delle riforme costituzionali previsto dal disegno di legge costituzionale del Governo, per noi della componente SEL del Gruppo misto non è condivisibile. Innanzi tutto, esso si presenta viziato da una stortura di fondo, cioè dal fatto di aver voluto – a nostro avviso, troppo disinvoltamente – introdurre un’ampia deroga alla procedura di revisione della Carta, così come regolata dall’articolo 138.

Ho poc’anzi evidenziato, ma lo ripeto, che per la prima volta nella storia repubblicana si deroga a questo articolo, per di più attraverso una procedura semplificata. Tale dato pone un problema di particolare gravità, non fosse altro perché in questo modo si strozzano i tempi del procedimento e quindi non si consente un’approfondita e seria ponderazione delle proposte di revisione della Carta.

Peraltro – e mi rivolgo in particolare al senatore Maran – non ci convince e non può temperare il nostro giudizio la previsione di unreferendum confermativo. Naturalmente consideriamo assolutamente condivisibile l’idea del referendum confermativo, ma a nostro avviso ciò non modifica il dato politico risultante dal disegno di legge costituzionale che ci preme denunciare, cioè il rischio di arrecare un vulnusalla Carta costituzionale. Riteniamo, infatti, che questo sarà l’effetto se non si provvederà quanto meno a correggere l’articolo 5 e quindi a stabilire in maniera inequivocabile che si sottoporranno a voto referendario testi omogenei ed autonomi, cioè distinti l’uno dall’altro, in modo da non richiedere un unico voto per il complesso delle modifiche apportate, magari pensando di avere maggiore consenso popolare su qualche provvedimento, in questo momento particolarmente atteso dall’opinione pubblica, che però rischia di portare con sé anche provvedimenti invece molto meno attesi.

Crediamo vi sia effettivamente il rischio di stravolgere la Carta costituzionale e lo desumiamo anche da un dettaglio non irrilevante della risoluzione parlamentare che ha accompagnato il disegno di legge, là dove viene utilizzata la formula «procedura straordinaria di revisione costituzionale». A noi pare che già da tale formula venga revocata l’utilità di circoscrivere le materie rispetto alle quali si pretende di intervenire con questa singolare procedura di revisione, che è straordinaria nel senso che è derogatoria della procedura fissata dall’articolo 138, come ho evidenziato più volte nella giornata di oggi. Infatti, è un consolidato convincimento della dottrina che vi sia un’intima connessione tra princìpi e norme costituzionali, essendo questa la ragione per cui le eventuali modifiche alla Carta debbono essere puntuali e debbono vertere su argomenti precisi. Il fatto di voler modificare ampia parte della Costituzione non può che indebolire l’intero edificio.

A riprova di quanto evidenziato, si consideri che la previsione dell’articolo 2, comma 1, che ammette modifiche di ogni parte della Carta (e quindi anche del Titolo I) purché strettamente connesse, più che una rassicurazione rappresenta la conferma che il rischio di stravolgimento non è di fatto evitabile quando si va ad incidere su parti così estese del dettato costituzionale. Questo avviene perché, per la stessa architettura della Costituzione, possono essere compromessi i delicati equilibri regolati dalla Carta. Peraltro, ricordo che diversi autorevoli costituzionalisti hanno notato come la previsione di modifiche così ampie come quelle delineate dal disegno di legge in esame, ovvero dei Titoli I, II, III e V della Parte II, che incidono profondamente sulla forma di Governo, non potrà che intaccare anche la forma dello Stato, che, come ben sapete, è un argomento evidentemente molto delicato.

A me pare che tale argomento abbia già di per sé un profilo di criticità, ma non per questo vorremmo rinunciare ad indicare altre questioni aperte, a partire dal tema che ho già sollevato della compressione delle prerogative parlamentari. Infatti, se viene esclusa la possibilità di presentare subemendamenti da parte dei singoli parlamentari, essendo tale misura riservata soltanto ai Presidenti dei Gruppi o ad almeno 20 deputati e 10 senatori, è evidente che viene disattesa la pari prerogativa dell’iniziativa legislativa del Governo e dei singoli parlamentari, prevista – come sappiamo – dall’articolo 71, primo comma, della Costituzione.

A nostro avviso, è anche poco convincente, signor Presidente, che il disegno di legge preveda non solo di utilizzare nell’esame dei singoli disegni di legge le norme del Regolamento della Camera dei deputati solo in quanto applicabili, e dunque deroghi allo stesso Regolamento, ma che consenta di derogare completamente al Regolamento del Senato. Come ho già detto, sarà pur vero, onorevole ministro Quagliariello, che la riforma del bicamberalismo perfetto appare non più rinviabile, perché messa in capo a furor di popolo, se posso utilizzare questa espressione. Ma sembra che la si sia voluta realizzare, diciamo così, de facto prima che de iure, e questa cosa ci preoccupa non poco.

Come non è un dettaglio di poco conto la strozzatura dei tempi del dibattito, per cui di fatto si equipara il disegno di legge costituzionale ad una norma di legge ordinaria, dimezzando i tempi previsti dalla procedura ordinaria di revisione secondo cui, tra una deliberazione e l’altra di ognuna delle due Camere, devono trascorrere tre mesi per consentire alle stesse una adeguata ponderazione una seria riflessione (peraltro prevista esattamente per questo ovvio motivo). In questa sede non va valutata soltanto la questione di opportunità. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una norma costituzionale, cioè con l’articolo 72 che, attraverso il combinato disposto dei commi secondo e quarto, impone per i disegni di legge in materia costituzionale la procedure normale di esame e di approvazione.

Noi consideriamo questa strozzatura inopportuna, e lo pensiamo ancor più perché ciò è reso evidente dalla previsione dell’articolo 4 che prevede il termine perentorio di 18 mesi per la conclusione dell’iter segnando, anche in questo caso, una rottura con la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione, peraltro ulteriormente amplificata dalla previsione di poteri sostitutivi di designazione coattiva dei Presidenti dei due rami del Parlamento quando uno o più Gruppi non procedano alla nomina dei propri rappresentanti in seno al Comitato entro cinque giorni.

Inoltre, vorremmo sottolineare un’altra che, secondo noi, appare come una violazione: quella, in particolare, dell’articolo 72 della Costituzione, laddove si deroga alla composizione delle Commissioni speciali. Se, infatti, questo articolo prevede che le Commissioni debbano rispecchiare la proporzione dei Gruppi parlamentari, il comma 2 dell’articolo 1 del disegno di legge in esame combina il doppio criterio della consistenza numerica dei Gruppi parlamentari e del numero dei voti conseguiti dalle liste e dalle coalizioni, che è, come ben si capisce, un percorso solo astrattamente corretto. Penso di poter dire che non devo stare qui a spiegare che in tal modo si introduce un elemento di possibile arbitrio nella composizione della Commissione, che potrà essere esercitato secondo scelte e valutazioni tutte politiche. Anche questo mi sembra un dato abbastanza evidente.

Vorrei dire, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che anche quest’ultima disposizioni, che va letta in combinato disposto con il potere emendativo pressoché nullo concesso al Parlamento, dimostra che le due Camere rischiano di essere ridotte perlomeno ad entità svuotate dalle proprie prerogative e di essere completamente subalterne. È come se la procedura anticipasse il suo esito, cioè come se l’effetto fosse anteposto alla causa.

Noi lo vorremmo dire nella maniera più chiara e netta possibile: non pensiamo che sia giusto, che sia corretto pagare questo prezzo per la sopravvivenza dell’attuale Governo. Meno che mai pensiamo che debba sussistere un qualunque vincolo che leghi le riforme istituzionali alla riforma della legge elettorale. Al contrario: si liberi ora, subito, il campo dal Porcellum e si ripristini immediatamente la precedente legge elettorale, cioè il Mattarellum.

Noi crediamo che solo in questo modo, sgombrando il campo dai ricatti e dai veti incrociati, si possa mettere mano ad una seria riforma della Carta costituzionale che adegui la Carta nuova alle domande, senza travolgerne lo spirito e senza modificare in modo surrettizio la forma di governo parlamentare, ma anzi riportando il Parlamento repubblicano e la politica alle funzioni e alle prerogative che ad essi competono e che noi difenderemo fino alla fine. (Applausi dai Gruppo Misto-SEL, Misto e della senatrice Mussini).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Astorre. Ne ha facoltà.

ASTORRE (PD). Signor Presidente, onorevoli colleghi, io personalmente, come anche il Gruppo cui appartengo, ritengo che questo ulteriore tentativo di riformare la nostra forma di Governo e tante parti importanti della Costituzione sia giusto.

Spero e credo – lo dico al ministro Quagliariello, alla presidente Finocchiaro e a noi stessi – che questa sia la volta buona: troppe volte abbiamo tentato in Parlamento di modificare, di agevolare, di rendere tutto più efficiente per poi impantanarci alla fine.

Guardate, colleghi: non sfugge a nessuno che, insieme alla crisi economica, che attanaglia larghissima parte di questo Paese, l’incapacità politica, dimostrata in particolare nella precedente legislatura, soprattutto di arrivare ad un’intesa sulla riforma elettorale, che era ad un passo dal raggiungimento presso il Senato, è stata uno dei motivi fondamentali di una disaffezione importante dell’opinione pubblica verso le forze politiche tradizionali, e credo anche del successo, al di là di quanto preventivato, del Movimento 5 Stelle.

Voglio dire che più continuiamo a tentare percorsi di riforma che non arrivano alla fine, più le fascine sul fuoco dell’antipolitica, o comunque della contestazione, vengono alimentate, a questo punto direi legittimamente, perché se non siamo in grado ogni volta di riformare una Costituzione, per quanto bella essa sia (risale al 1948, a un momento istituzionale e politico, post bellico e post dittatura fascista, che era naturalmente contingente) ciò va sicuramente a nostro demerito. Credo, quindi, che questo sia un tentativo giusto; penso sia stato raggiunto un equilibrio importante, anche grazie al lavoro che le Commissioni, e in particolare quella affari costituzionali, hanno saputo svolgere con il Governo e con le forze politiche. Penso che tutto può essere migliorabile, ma dobbiamo partire ed essere veloci.

È assolutamente confutabile l’opinione di coloro che dicono che non dobbiamo occuparci di questa materia; che la gente oggi non mangia di riforme istituzionali. È sbagliato, in primo luogo perché siamo tantissimi: 1.000 parlamentari possono benissimo occuparsi del rilancio dell’economia, dell’occupazione e anche delle riforme istituzionali; non è detto che dobbiamo essere tutti concentrati su un determinato argomento. Abbiamo la possibilità, gli strumenti, i numeri e la volontà di farlo. In secondo luogo, perché uno Stato più efficiente, meno burocratico, con un Governo più attivo e un Parlamento che sappia dare risposte più rapide alle domande della società, è uno Stato che si avvicina ai cittadini e ai loro bisogni: è un ricondurre la politica alla raccolta del consenso per risolvere i problemi della gente.

Spesso,rispetto a quanto ci proponiamo in campagna elettorale, con un fardello così importante di architettura istituzionale, con tutta la buona volontà, tante volte non riusciamo a tradurre in pratica tutti i propositi. Quindi, un Stato più efficiente vuole dire anche riforme economiche migliori; significa essere pronti a cogliere i cicli economici, e in definitiva vuol dire maggiore occupazione, essere più moderni. Quindi, per il futuro nostro e delle nuove generazioni è assolutamente necessario un impegno per rendere questo Stato più efficiente.

Forse i fallimenti degli anni passati ci hanno condotto in questo cul de sac istituzionale, politico ed economico in cui purtroppo versa questo nostro Paese.

Rispetto alla legge elettorale, personalmente ritengo che il doppio turno di collegio con il semipresidenzialismo sia assolutamente un utile strumento per riformare questo Stato. Penso anche che, eleggendo ormai gli italiani direttamente i sindaci e i presidenti delle Regioni, abbiamo tutti gli anticorpi istituzionali per dare anche questa svolta allo Stato. Tuttavia, anche per non fare l’ennesima figuraccia rispetto a quanto già ci ha detto la Corte costituzionale, dobbiamo prima varare una riforma elettorale, o comunque essere attrezzati e pronti per poter andare a votare senza questa maledetta legge elettorale che la Corte costituzionale così come i cittadini ci contestano.

So che da tante parti, soprattutto nel mio schieramento politico, il centrosinistra, il ritorno al Mattarellum e ai collegi è auspicato. A parte che se ne potrebbe discutere, perché anche i collegi avevano una forma di candidature calate dall’alto e avulse dal territorio, e già si sapeva prima quali sarebbero stati i relativi risultati, quindi forse anche in quel caso la libertà di scelta dei cittadini era opinabile, ma comunque era molto meglio di questa legge elettorale. Allora, in questo momento, con questa maggioranza politica, con questo Parlamento, dobbiamo cercare di cambiare la legge elettorale nel caso in cui ci dovesse essere un precipitare degli eventi.

Il compromesso. La parola è stata derubricata a inciucio. Ma è sbagliato, perché compromesso viene dal latino cum promissio, prometterci insieme una cosa. È sbagliata l’idea che compromesso sia una parola delegittimata e delegittimante – noi l’abbiamo delegittimata – perché la politica è anche arte del compromesso. Se ci troviamo in un Parlamento in cui la nostra idea, per il risultato elettorale, non può andare avanti, bisogna accingersi, con le altre forze politiche che ci stanno, a far sì che l’attuale legge elettorale, almeno in prima battuta, possa essere cambiata da subito, restituendo ai cittadini la possibilità di scegliere, magari pensando a quello che abbiamo fatto per i Comuni. Non capisco infatti perché non si parli mai di introdurre la doppia preferenza anche alle elezioni politiche. Lo abbiamo fatto per i Comuni, che si voti a Locri, a Reggio Calabria, a Monza o a Roma. I cittadini con la doppia preferenza promuovono nelle istituzioni una parità di genere sostanziale e hanno la possibilità di scegliere.

Credo che in prima battuta potremmo modificare il Porcellum con la doppia preferenza, mettendo una soglia di sbarramento per il premio di maggioranza, perché che non ci sia mi sembra aberrante, e parlare di una ripartizione regionale dei seggi, almeno per quanto riguarda il Senato. Penso che un primo maquillage si possa fare, se si vuole. Poi se ognuno di noi resta sulle proprie posizioni, noi perché vogliamo i collegi, altri perché vogliono che non si tocchi questa legge, magari perché consente ad un capo, di tutti partiti s’intende, di fare le liste elettorali, non ci dobbiamo lamentare se alle prossime elezioni vedremo un ulteriore 30 per cento di aumento delle forze politiche che, giustamente, si pongono in antitesi ai partiti più tradizionali.

Chiudo sul bicameralismo: io sono al Senato, che sarà molto probabilmente la Camera più toccata dalla riforma costituzionale. Qualche autorevole collega mi ha avvicinato parlandomi delle virtù del bicameralismo, cioè della possibilità di correggere leggi che erano state sbagliate nell’altro ramo del Parlamento e della necessità di un maggior approfondimento normativo. Queste tesi non mi convincono perché il risultato finale di fatto è che legifera il Governo. Il 90 per cento del nostro tempo lo passiamo o a convertire decreti-legge o a trasformare in legge disegni di legge governativi. È stata snaturata la centralità della Parlamento di cui tanto ci riempiamo la bocca. Oggettivamente iniziative legislative di singoli parlamentari, più in là dell’approvazione in Commissione o, forse, nell’Aula di appartenenza, non vanno. Penso invece che il bicameralismo vada riformato e che ci debba essere una sola Camera che legiferi. Però – io vengo dall’esperienza provinciale e regionale – non mi convince molto, lo dico alla presidente Finocchiaro e al ministro Quagliariello, il Senato delle Regioni o delle autonomie locali. Vi chiedo dunque di approfondire di più il tema del modello del Senato americano, cioè un Senato molto più snello dell’attuale, che non abbia una funzione legislativa identica a quella della Camera, che abbia funzioni importanti di rappresentanza della Stato centrale, con dei senatori che in determinate materie, penso a quelle tipiche del Senato americano…

PRESIDENTE. Senatore Astorre, la invito a concludere.

ASTORRE (PD). Chiedo che sul modello del Senato si svolga questa riflessione: mantenerlo, ma con una funzione di garanzia statale.

Insomma, abbiamo l’ultima possibilità di poter riformare. Questa volta, o lo facciamo, o rischiamo veramente di essere travolti dai cittadini.(Applausi dai Gruppi PD e SCpI. Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Zanettin. Ne ha facoltà.

ZANETTIN (PdL). Signor Presidente, onorevole ministro Quagliariello, onorevoli colleghi, quella che stiamo vivendo è davvero un’occasione storica per dare corso a una profonda revisione della forma di Governo del nostro Paese. È una riforma, peraltro, di cui si parla da oltre trent’anni.

Possiamo davvero farla questa riforma, in questa stagione per certi versi straordinaria, con una maggioranza di larghe intese, l’unica resa possibile dal risultato elettorale. Ci si ostina a definire strana questa maggioranza, ma essa è strana solo in Italia, e non certamente in Europa dove, invece, le larghe intese sono sperimentate senza scandalo ogni qual volta è necessario varare riforme importanti che, come tali, richiedono ampia condivisione.

Questa maggioranza ha, per una singolare congiuntura astrale, da una parte la necessità di varare queste riforme, a pena di perdere credibilità e la propria ragione di essere e, dall’altra, anche la forza per vararle, sulla spinta forte di cambiamento che sale dal Paese. Guai, quindi, a perdere questa irripetibile occasione.

La Commissione dei 40 o, meglio, dei 42 (la cosiddetta bicameralina), prevista da questo disegno di legge costituzionale, ci consentirà di accelerare i tempi di varo della riforma, modificando la procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione. È bene che essa abbia solo carattere referente e non redigente. È bene che garantisca la centralità del Parlamento in questo percorso riformatore, rispettando lo spirito dei Padri costituenti. È bene che preveda, a certe condizioni, un referendum popolare, anche nell’ipotesi di approvazione con maggioranza superiore ai due terzi. Ben diverso, invece, sarebbe stato il nostro giudizio sulla convenzione che, per come era stata ipotizzata in una certa fase del dibattito politico, avrebbe svuotato di ruoli e funzioni il Parlamento.

In questa discussione sulle riforme, voglio oggi introdurre un argomento che, a mio giudizio, è stato del tutto trascurato nel dibattito pubblico, accademico e mediatico e, quando è stato introdotto, è stato subito espulso. Mi riferisco al considerare la Costituzione come un fattore di competitività economica di un Paese.

Ricordiamo che circa il 35 per cento del nostro enorme debito pubblico è ancora in mano ad investitori esteri. Ci piaccia o meno, il rifinanziamento del nostro debito, il nostro rating, il famigerato spread, in buona sostanza il nostro benessere e il nostro sviluppo futuro dipendono dall’opinione che di noi si ha nel resto del Paese. Ci piaccia o meno, anche le nostre istituzioni, il nostro modo di lavorare in Parlamento e la nostra forma di Governo non si sottraggono a tale giudizio.

Le chiedo, allora, ministro Quagliariello: una Corte costituzionale come la nostra che, nell’ordine, cancella il contributo di solidarietà sui redditi più alti; dichiara illegittimo l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori sulla rappresentanza nelle RSU; e, da ultimo, boccia la cancellazione delle province costituisce un elemento di competitività del nostro sistema Paese? O, invece, è soltanto un fattore di rigido e burocratico conservatorismo che poco si adatta alle esigenze del momento?

Alla luce di tali decisioni, una società multinazionale è indotta a investire le proprie risorse in Italia o, semmai, a delocalizzare i residui investimenti ancora presenti nel nostro Paese? Non dobbiamo poi stupirci se l’Italia, secondo l’International Institute for ManagementDevelopment di Losanna, si colloca nel 2013 solo al quarantaquattresimo posto nel mondo nella classifica della competitività.

Qualche settimana fa è stato pubblicato un report della banca d’affari JpMorgan, che ha destato grande scandalo. Cosa ha detto di così sconvolgente la banca JpMorgan?

Lo cito testualmente: «Quando la crisi è iniziata» – allude alla crisi economica – «era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…). Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del Sud (d’Europa), in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».

Contro questi giudizi, immediate levate di scudi, interrogazioni parlamentari, commenti sarcastici dei soliti commentatori benpensanti, conformisti e politicamente corretti. Ma tali reazioni sono solo la prova evidente del provincialismo e dell’autoreferenzialità dei nostri dibattiti. In realtà, gran parte degli argomenti esposti, al di là di taluni evidenti eccessi di critica alla tutela del lavoro e delle fasce deboli, a giudizio di chi parla, sono largamente condivisibili.

È vero che la nostra Costituzione è stata varata nel dopoguerra e scontava la diffidenza reciproca del PCI e della DC. È vero che un sistema di pesi e contrappesi, figlio di un’altra epoca, ha reso la nostra democrazia incapace di prendere decisioni, di adeguare il Paese ai mutati contesti politici, economici e demografici.

È vero che ne sono scaturiti Esecutivi deboli. È parimenti vero che il nostro regionalismo, ad eccezioni di alcuni rari, anzi rarissimi, esempi virtuosi, si è rivelato fonte di sperperi di risorse e corruzione, esprimendo in troppe occasioni una classe dirigente assai mediocre.

È vero che nel nostro sistema il consenso elettorale viene troppo spesso ottenuto con pratiche clientelari e che questo poi impedisce alle forze politiche destinatarie di questo consenso una vera azione riformatrice.

È chiaro pertanto per quali motivi la nostra Costituzione, in alcune sue parti, ormai appare superata e a quali obiettivi deve tendere la riforma. Lasciamo, quindi, da parte i dibattiti inconcludenti. Variamo subito, onorevoli colleghi, questa bicameralina, diamoci tempi certi e mettiamoci al lavoro.

Forse, così facendo, recupereremo un po’ della credibilità perduta agli occhi dei cittadini, e il nostro Paese recupererà anche un po’ di immagine all’estero. (Applausi dal Gruppo PdL).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Scalia. Ne ha facoltà.

SCALIA (PD). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, confesso di aver nutrito forti perplessità sull’opportunità, se non sulla legittimità costituzionale, di un disegno di legge che introducesse una deroga una tantum – producendo però effetti per definizione assai duraturi – all’articolo 138 della Costituzione, al fine di procedere ad una ampia revisione della nostra Carta costituzionale. E ciò perché – come qui detto da molti – si va a toccare un principio cruciale della nostra Costituzione: la rigidità costituzionale che è posta in funzione della preservazione dei suoi caratteri essenziali.

Una norma, peraltro, l’articolo 138 della Costituzione, che aggrava il procedimento di revisione costituzionale in modo meno pesante di quanto previsto in altri ordinamenti, tanto che lo stesso relatore della norma in Assemblea costituente, Paolo Rossi, si chiese se con la soluzione poi prescelta non si dovesse parlare piuttosto di una Costituzione non rigida, ma semirigida.

Ma ben più gravi perplessità sono derivate dall’introduzione, a partire dagli anni Novanta, di leggi elettorali maggioritarie o comunque connotate dalla presenza di premi di maggioranza, che hanno consentito a maggioranze parlamentari rappresentative solo di minoranze elettorali di approvare, nel 2001 e nel 2005, riforme significativamente incisive della seconda Parte II della Costituzione, indebolendo gravemente – prescindendo dal merito – la portata garantistica dell’articolo 138 e degli altri quorum previsti dalla Costituzione.

Tuttavia, è chiara e pressante l’esigenza politica di chiudere la discussione sulle riforme costituzionali che si trascina ormai da oltre un trentennio, caratterizzata da tentativi abortiti e da riforme che, come detto, sono state giocate da una parte politica contro l’altra.

Il disegno di legge in discussione risponde sicuramente a questa esigenza, definendo un procedimento che consente di affrontare, secondo un disegno coerente, la riforma della seconda parte della Costituzione, favorendo già con i criteri per la costituzione del Comitato bicamerale la più larga condivisione della stessa e programmando una tempistica certa che consenta di arrivare in porto in un tempo definito.

Tutto ciò avviene attenuando molto, se non eliminando del tutto, i profili fortemente problematici in termini di coerenza con il nostro impianto costituzionale della proposta dei saggi nominati dal Presidente della Repubblica, che aveva registrato il significativo dissenso di uno studioso della caratura di Valerio Onida, i cui rilievi oggi sono quasi integralmente accolti.

Infatti, il disegno di legge che stiamo per approvare preserva la centralità deliberativa delle due Assemblee legislative nel processo di revisione costituzionale, assegnando al Comitato bicamerale solo poteri referenti, superando così uno dei maggiori dubbi derivanti dall’istituzione di una Commissione redigente che avrebbe costretto l’Aula ad esprimersi in modo secco e senza alcun potere emendativo, in ciò derogando anche alla previsione dell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione.

Inoltre, il disegno di legge bilancia la compressione dei tempi con una più ampia possibilità di ricorso al referendum confermativo, la cui indizione viene resa possibile in questa occasione anche nell’eventualità che il progetto venga approvato in seconda lettura con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera.

Un’importante previsione integrativa stabilisce, infine, a differenza di quanto previsto con le leggi costituzionali del 1993 e del 1997, che i progetti di legge approvati con il procedimento in esame verrebbero sottoposti agli elettori formulati in distinti quesiti, dotati ciascuno di una propria omogeneità, togliendo così ogni caratterizzazione potenzialmente plebiscitaria tipica del coinvolgimento del corpo elettorale nella forma di un voto in blocco su oggetti eterogenei.

In verità, va detto che proprio quest’ultima scelta, seppure ineccepibile sotto il profilo sistematico, rischia di sortire qualche effetto problematico su cui vorrei attrarre l’attenzione della Presidenza e dell’Aula. Cosa succederebbe, infatti, se diversi disegni di legge costituzionali, afferenti ai diversi Titoli della Parte II della Costituzione, ma parti di un unico disegno riformatore, tanto da avere l’uno nell’altro la propria giustificazione, dovessero poi riportare giudizi popolari diversi, di conferma in qualche caso e di rigetto in altri?

Insomma, mentre possiamo dire che la genuinità dell’espressione popolare è adeguatamente preservata, la coerenza del disegno di riforma della Parte II della Costituzione, all’esito del referendum, allo stato non è detto che lo sia altrettanto.

Nonostante il punto sia stato già oggetto delle attenzioni della Commissione e della relatrice, senatrice Finocchiaro, si tratta di un problema di davvero difficile soluzione tecnica. Ciò anche alla luce della previsione introdotta da ultimo nel testo che esaminiamo, per cui sono possibili modifiche relative a oggetti ulteriori della Costituzione rispetto a quelli che sono al centro della nostra attenzione se «strettamente connesse» agli stessi. Ebbene, in tale ipotesi può rientrare agevolmente ad esempio l’organizzazione del potere giudiziario, nel caso ci muovessimo verso un modello di tipo semipresidenziale.

Su questo credo che dovremmo continuare a riflettere per non trovarci davanti a problemi di difficile soluzione tecnica o per non precostituire occasioni per un blocco del processo riformatore che sarebbe assai grave. Così come, e concludo con una constatazione che vuole essere un’indicazione sul lavoro che ci attende nei prossimi mesi, dobbiamo sempre tenere a mente che noi stiamo derogando all’articolo 138 della Costituzione, rimanendo nell’ambito e nei confini del procedimento di revisione costituzionale; siamo un potere costituito e non potrebbe essere diversamente, come ha peraltro sottolineato la senatrice Finocchiaro nella sua relazione.

Abbiamo perciò dei limiti anche nelle scelte di merito che non possiamo eludere. Ad esempio, io credo che se possiamo – e dobbiamo – razionalizzare la nostra forma di governo parlamentare, superando il bicameralismo paritario, riconoscendo poteri più incisivi al Presidente del Consiglio ed introducendo meccanismi che hanno una valenza fortemente conformante come la sfiducia costruttiva, dobbiamo però allo stesso tempo ricordare che non disponiamo di carta bianca neanche nell’ambito di una ridiscussione della forme di governo, perché esiste una delicata relazione con l’assetto fondamentale dello Stato. Così è se si volesse dar vita ad una Repubblica presidenziale o semipresidenziale senza i dovuti contropoteri. Ciò vale perfino (come insegna la vicenda della revisione tentata dal centrodestra nel 2005) per lo stesso Governo parlamentare, ove si concentrassero eccessivi poteri in un Premier onnipotente.

Al di là di ogni valutazione nel merito, credo che noi non abbiamo questo potere, proprio semmai di un’Assemblea costituente appositamente eletta. Comunque, per esprimere una considerazione veramente conclusiva sul merito della scelta della forma di governo, starei molto attento ad importare norme e sistemi di altri Paesi, immaginando che da noi si riproducano con le stesse caratteristiche. La Costituzione non è un semplice insieme di norme, ma vive del contesto più complessivo in cui quelle norme operano e del modo in cui vengono interpretate dagli operatori, a partire dalle forze politiche. In altre parole, è l’inverarsi di quelle norme nel contesto storico, sociale, culturale, politico in cui esse operano.

Per dare, con una battuta, il senso di quel che voglio dire, sono presidenziali anche le repubbliche sudamericane, non solo gli Stati Uniti d’America; mentre era semi-presidenziale la Repubblica di Weimar, il cui crollo, pur dovuto ad una pluralità di fatti, non tutti riconducibili a questioni di regole (tra questi mi preme evidenziare la debolezza dei partiti), non evoca tutt’oggi ricordi tranquillizzanti.

Per queste ragioni sento di dover rivolgere a me stesso e a voi un appello perché il processo riformatore tenga adeguatamente in considerazione le specificità della nostra storia e non si illuda di supplire oltre il possibile, con le regole, al dispiegarsi dei processi politici, che solo in parte possono essere indotti e che devono maturare innanzitutto dai nostri comportamenti e dalle nostre scelte. (Applausi dal Gruppo PD).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Tarquinio. Ne ha facoltà.

TARQUINIO (PdL). Signor Presidente, signor Ministro, colleghi senatori e senatrici, fa certamente restare allibiti il deserto dell’Aula.(Applausi dal Gruppo M5S). Si discute di argomenti così importanti, rispetto a cui rivendichiamo ruoli, e poi in Aula non c’è praticamente nessuno. Utilizzerò meno dei dieci minuti che mi sono stati concessi, per dire innanzitutto che mi ritengo soddisfatto di un fatto: mi va bene che il Comitato sia composto da 20 deputati e da 20 senatori più i due Presidenti delle Commissioni competenti di Camera e Senato. In tal modo viene infatti sconfitta un’ipotesi che ritenevo negativa e delittuosa, ovvero quella di vedere i saggi che dicono al Parlamento ciò che deve fare.

Il Parlamento è al centro di tutto e deve essere al centro di tutto: ci siamo abituati molto male nei periodi trascorsi, in cui il Parlamento si limitava soltanto a ratificare; ciò si può notare anche in alcune riunioni, in cui ci si meraviglia se qualcuno esprime opinioni proprie e rivendica un ruolo. Il ruolo dobbiamo guadagnarlo noi: al di là di quello che approveremo – che condivido e su cui non entro nel merito – è importante la nostra capacità di essere legislatori, di non cedere ai luoghi comuni e di non inseguire per una moda ciò che vorrebbe la gente. Questo chi lo stabilisce? L’informazione e la stampa, che ci dicono che le cose non vanno? La stampa, commentando la sentenza della Corte costituzionale, che con motivazioni serie e concrete pone un freno all’abolizione delle Province, dice che questo è l’esempio di come si ritarda la riforma del Paese.

Se la riforma del Paese passa attraverso l’abolizione delle Province e la riduzione del numero dei parlamentari e se in tal modo si pensa di risolvere tutti i problemi – questo è infatti quello che è stato rappresentato – siamo di fronte ad una comica.

Pertanto voglio andare un po’ controcorrente e dire a tutti i colleghi e al Governo, che ha formulato la proposta, di non procedere con tanta leggerezza. Se si propone di abolire e di chiudere le Province, occorre guardare in realtà quali saranno le conseguenze e i benefìci. Inizialmente sarà un disastro: le Regioni come quella da cui provengo, che hanno dato una montagna di deleghe alle Province, dovranno tornare indietro, con problemi enormi. Vedremo il proliferare delle Unione di Comuni, altri consigli di amministrazione, altri direttori generali e quanto più ne volete. Ciò è vero per ciò che riguarda i costi e anche per quel che riguarda le disfunzioni sarà un disastro, ma è così e tutti ci stiamo abituando.

Sulla riduzione del numero dei parlamentari e dei senatori, voglio porre una domanda a tutti, con serenità: non sto parlando per me, perché molto probabilmente, se questa legislatura durerà 5 anni, alla sua conclusione avrò raggiunto l’età di 68 anni e andrò a casa. A 70 anni non starò qui in Senato: lo dico con la massima serenità, al di là di ogni altra considerazione. (Applausi dal Gruppo M5S). Tutti evocano e tutti parlano dei costituenti del 1948, che erano persone di elevato livello culturale, venivano da esperienze drammatiche, da un periodo di dittature, di sofferenze, di morte e di guerra. Bisogna chiedersi allora perché stabilirono che il numero dei parlamentari fosse di 630 e di 315: un motivo ci sarà. Vorrei dire alla stampa e ad altri che si parla tanto di casta, ma che, se ridurremo il numero dei parlamentari, a quel punto la casta ci sarà veramente.

Esisteva un principio di democrazia e di rappresentanza massima e non la moda di ammazzare la democrazia e la rappresentanza massima. Poi possiamo discutere in merito alle modalità di elezione, alla riforma del Senato, al presidenzialismo.

Abbiamo l’esempio della più grande democrazia del mondo, almeno fino a questo momento, gli Stati Uniti d’America, che ha un Presidente davvero forte e un sistema bicamerale con poteri che bilanciano quelli di un Presidente direttamente letto con i due terzi dei voti, con il potere di veto alle decisioni di un Presidente della Repubblica.

Non so per quale motivo non si vogliano prendere o vedere o mutuare certi esempi. Dobbiamo andare secondo le mode. Sinceramente alle mode non ci sto. A quello che decide la stampa che dobbiamo dire e fare non ci sto e anche alla stampa della mia parte politica non ci sto. Da anni esiste una delegittimazione continua di ogni cosa e tutti supini accettiamo. È inaccettabile. Non possono esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B. Non deve accadere che qualcuno può andare in galera e qualcuno non ci può mai andare (Applausi dal Gruppo M5S)e questo riguarda solamente due categorie. Altre categorie lo chiedono. Non è possibile. Tante cose sono diverse. Non esiste un vero bilanciamento. L’ordine giudiziario è autonomo e lei, Presidente, lo conosce meglio di me. Purtroppo, però, da ordine è diventato potere giudiziario. È fatto ben diverso.

Non è possibile che ovunque, in qualsiasi democrazia, sul Parlamento e non sui parlamentari esista qualcosa di superiore. Stiamo smentendo la nostra tradizione repubblicana, la nostra democrazia.

Queste riflessioni pongo ai colleghi, al di là dello schieramento di cui si fa parte. Si fanno o supinamente andiamo avanti? Oggi esaminiamo questo provvedimento che sinceramente voto, innanzitutto perché riporta tutto all’interno di quest’Aula. La capacità di discutere tutto in Aula e nelle Commissioni è nostra. Se però siamo assenti, non ci siamo o non ascoltiamo, è altra cosa. Erano presenti più senatori durante l’esame del provvedimento n. 587, di cui io stesso ero relatore, che su un argomento di questo tipo che riguarda noi e, attraverso noi, riguarda seriamente tutto il popolo italiano. Noi rappresentiamo il popolo italiano. Non lo rappresenta né RAI 1 e Mediaset, né «la Repubblica», né «Il Corriere della Sera», né «il Giornale». Siamo noi. Al contrario, leggiamo i giornali che ci fanno la lezione quotidiana. Su questo siete d’accordo? Sinceramente no.

Mi sento eletto. Sono un ex consigliere regionale da più legislature. Sono stato sempre eletto chiedendo il consenso ai cittadini con serenità. Non mi sento nominato da nessuno. Sono nel mio partito e ci milito esprimendo i miei pareri sempre e comunque, ritenendo davvero di avere la mia libertà di parlamentare di questa Repubblica che vi invito tutti a recuperare.

Siamo pronti a fare questo? Quale preoccupazione esiste? Se non siamo pronti, si tratta di altra questione, ma ognuno deve abbandonare i propri retaggi ideologici e fare riferimento a quel che di buono questo Paese ha espresso ed ha, e che comunque ritroviamo in quella lezione del 1948 della Costituente. Leggete quei dibattiti. Può darsi che ci arricchiremo tutti quanti e capiremo tante cose prima di muoverci.

Al di là di tutto, non voglio un solo partito al comando. Non ci deve essere un solo uomo al comando. Abbiamo una tradizione repubblicana seria. Dobbiamo riprenderla. Smettiamola con il delegittimarci ogni giorno, con l’accettare supinamente la delegittimazione che ormai dura da anni ed è ciclica. Quando non si fa comodo a qualcuno, qualche grande potere informativo inizia la demolizione. Parte sempre da un punto. Oggi sui giornali si fa la guerra su chi deve avere la maggioranza assoluta in una società. Questo è il punto vero. Riportiamo tutto, attraverso questa legge, al centro del Parlamento. Secondo me si può fare. Riportiamo o meno ma, dopo averlo fatto, ognuno di noi deve esercitare il proprio ruolo con serenità e confrontarsi seriamente. Lo dico a tutti.

Non si deve pensare che possiedo la verità. Se sorrido a quello che dicono gli altri dimostro solo arroganza. Occorre avere capacità di ascolto e raggiungere poi i punti di incontro, avendo però al centro un solo pensiero: il Parlamento come motore di questa Nazione, come l’unico posto deputato e legittimato ad esprimere, a fare leggi, a scegliere il futuro del Paese. Quando saremo di nuovo autonomi, quando la politica e il Parlamento saranno al di sopra di tutto, avremo reso il vero servizio ai cittadini. Ne abbiamo ora l’occasione e dipende da noi come esercitarla. (Applausi dai Gruppi PdL, PD, SCpI e M5S e del senatore Zuffada. Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Morra, il quale nel corso del suo intervento illustrerà anche l’ordine del giorno G115. Ne ha facoltà.

MORRA (M5S). Signor Presidente, ruberò davvero poco tempo e forse preziosa attenzione ai pochi presenti in Aula.

Io vorrei semplicemente dire alcune cose in merito all’ordine del giorno G115, che vado ad illustrare velocissimamente. Noi chiediamo che, in funzione delle regole della democrazia parlamentare che sono regole di trasparenza e pubblicità, ritenendo il segreto, la riservatezza e l’opacità delle eccezioni alle prassi democratiche, si voglia provvedere senza indugio alcuno alla creazione di un portale informatico liberamente accessibile in cui siano trasmesse le sedute della Commissione per le riforme istituzionali, nonché alla pubblicazione degli eventuali documenti all’esame della Commissione medesima.

Questa richiesta che ho illustrato preventivamente non deve farmi sottacere delle riflessioni che voglio porre all’attenzione dei presenti, che stimo nella misura in cui, in funzione della loro libertà ed onestà intellettuale, riconosceranno l’autenticità non di quanto detto da Nicola Morra, Presidente del Gruppo del Movimento 5 Stelle, quanto piuttosto dalle riflessioni che ha proposto poc’anzi il senatore Maran di altro Gruppo, che ha ricordato attraverso citazioni sagge di Popper come noi si sia ingessati su problemi che questa classe dirigente non riesce ad affrontare e risolvere da ormai non so quanti decenni.

Altre riflessioni sono state poste, in conclusione del suo intervento, dal senatore Astorre che profeticamente diceva che forse se non riusciamo a risolvere i problemi verremo spazzati via da un’ondata di disagio popolare che si sta sempre più canalizzando verso forme di protesta che potrebbero non più essere democratiche.

Vorrei anche richiamarmi a quanto hanno detto altri relatori in Aula. Penso al collega del PdL che poc’anzi mi ha preceduto e che ha richiamato con un’onestà intellettuale che gli riconosco alcuni aspetti della vicenda su cui tutti noi ci dovremmo interrogare perché qui l’Aula è vuota. Non stiamo parlando dell’Atto Senato n. 587 con cui si autorizzava a spendere, ma delle regole del gioco. Ma qui il gioco interessa a pochi anche perché, essendo il nostro un Paese ingessato in cui non il sottoscritto ma qualche illustre editorialista de «Il Corriere della Sera» ha dedicato un volume prezioso alla casta, è impossibile di fatto cambiare le regole perché quelle vigenti mantengono privilegio a chi si siede in questa Aula insieme a me.

Io però, così come Andrea Cioffi, prima che parlamentare mi sento cittadino e invito tutti i presenti a valutare la differenza di stile (che è differenza innanzitutto culturale e, di conseguenza, anche morale) che ha attualmente accompagnato in Irlanda un analogo conato di processo di riforma costituzionale. In Irlanda è stato costituito un organismo composto per un terzo da parlamentari e per due terzi da cittadini, che in questo modo si sentono coinvolti al 100 per cento nel gioco democratico; dicono la loro perché avvertono di essere Stato ed istituzione.

Noi qua molto spesso abbiamo difficoltà ad uscire fuori. Ricordo che pochi mesi fa il nostro Parlamento è stato di fatto blindato e alcuni parlamentari sono usciti scortati dalla pubblica sicurezza perché c’erano dei cittadini che manifestavano il loro fortissimo dissenso nei confronti di qualcosa che era avvenuto all’interno dei palazzi.

La nostra idea di democrazia – voglio sperare che anche altri colleghi la condividano – è tale per cui i palazzi dovrebbero essere aperti ai cittadini in tutte le loro fasi. (Applausi dal Gruppo M5S).

Cosa significa in tutte le loro fasi? Anche ieri il presidente dell’Assemblea, che in quell’occasione era Calderoli, ha invitato a non scattare fotografie e, probabilmente, non si richiamava ad un esponente del Movimento 5 Stelle. Ci siamo domandati perché si scattano fotografie in quest’Aula? Forse perché c’è il fenomeno tristemente famoso dei pianisti. Su questo ben poco è stato detto da chi è presunta opposizione o maggioranza, perché poi fa comodo a tutti.

Ricordo che in passato in quest’Aula si sono fatte prolusioni, anche importantissime e bellissime, sulla meritocrazia. Poc’anzi ho sentito citare Dossetti; mi vergogno da umile cittadino, assolutamente un nano rispetto a certi giganti, a dover intervenire per modificare la Costituzione, quando essa è stata inattuata ed è questo il motivo che ha portato la crisi del nostro Paese perché noi per primi abbiamo fatto le regole, trovando immediatamente il modo per non rispettarle. Noi per primi, memori della lezione dei bizantini, continuiamo a discettare sul sesso degli angeli, quando invece la situazione sociale, economica e finanziaria del Paese è veramente drammatica. Noi per primi continuiamo ad autoingannarci e, magari, continuiamo ad inviare sms all’esterno, pur essendo fisicamente presenti qua dentro, perché reputiamo che ormai tutto questo sia demagogia e populismo.

Non vorrei allora essere Cassandra, perché non me lo auguro. Vorrei semplicemente che il Paese, con una presa di coscienza collettiva, che noi abbiamo il dovere di esortare e di incoraggiare, sappia che qui dentro troppo spesso violiamo la Costituzione, perché se non siamo democratici e rispettosi dell’altro, se non siamo capaci di sopportare la fatica dell’ascolto della democrazia, noi qui non abbiamo più alcuna funzione. (Applausi dal Gruppo M5S e del senatore Mauro Giovanni. Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Gotor. Ne ha facoltà.

GOTOR (PD). Signor Presidente, Signor Ministro, onorevoli colleghi, la consapevolezza della necessità di riformare le Istituzioni costituisce il pilastro fondamentale dell’accordo di maggioranza che sostiene l’attuale Governo.

È comune infatti il convincimento che il sistema democratico italiano abbia raggiunto un tale stato di affanno da rendere indispensabile, dopo decenni di rinvii e di occasioni perdute, un robusto intervento di ristrutturazione, che per la sua genesi e portata ha l’obbligo di essere il più possibile condiviso tra le forze parlamentari.

Un intervento che riguarda anzitutto l’organizzazione e il funzionamento delle Istituzioni, a partire dalla consapevolezza che uno dei principali problemi del Paese, forse, il principale, è costituito dalla scarsa efficienza del sistema politico preso nel suo insieme.

A preoccupare è la voragine sempre più larga che si è aperta tra cittadini e Istituzioni, elettori e rappresentanti, una disaffezione crescente mescolata a rabbia e rassegnazione che contribuisce a corrodere la qualità stessa della nostra democrazia.

Non basta lisciare il pelo ad un bisogno di cambiamento, che pure c’è nel Paese, né assumere al proprio interno dosi massicce di antipolitica nell’illusione di riuscire a trasformare quel facile consenso così acquisito in capacità di Governo.

Bisogna piuttosto dare risposte strutturali e questo siamo chiamati a fare perché siamo prossimi ad un punto di non ritorno. La politica è sempre più giudicata ininfluente perché inconcludente e soltanto un recupero della sua credibilità e capacità di decisione in tempi maggiormente corrispondenti al sentire comune può consentire di ricomporre questa frattura nella rappresentanza. Anche il crescente astensionismo delle ultime tornate delle elezioni amministrative ci deve far riflettere sulla portata della scissione silenziosa che sta avvenendo tra cittadini e partecipazione pubblica.

Sia chiaro; il problema non riguarda la quantità, almeno per ora, della democrazia che ci è dato vivere nel nostro Paese, ma la sua qualità, che deve essere necessariamente rinvigorita.

Senza contare che l’inefficienza istituzionale, la lunghezza delle procedure e la loro dispersione in tanti rivoli senza sbocco porta inevitabilmente ad un aumento dei costi economici, uno spreco difficile da accettare in tempi favorevoli che diventa insostenibile in momenti di crisi economica come quello che stiamo vivendo.

Bisogna prendere atto che la decisione politica non risponde più alle esigenze e ai ritmi del Paese ed è questa la ragione fondamentale per cui, in quanto rappresentanti del popolo, dobbiamo adeguarci e assecondare la richiesta che sale dai cittadini.

Ad essere messa in discussione è soprattutto la nostra attività, quella del Parlamento, in cui la ridondanza delle discussioni si accompagna troppo spesso alla difficoltà di assumere provvedimenti e di farsi carico di responsabilità conseguenti, come dimostra, ad esempio, l’abuso della decretazione di urgenza e la sempre più crescente svalutazione dell’istituzione parlamentare.

Anche il monito del presidente Giorgio Napolitano, in occasione della sua eccezionale elezione, per la seconda volta, a presidente della Repubblica, ci deve spingere il più possibile al cimento: il presidente infatti ha condizionato l’accettazione del nuovo mandato al massimo impegno di tutte le forze parlamentari, nessuna esclusa, sull’impervio terreno delle riforme istituzionali, esigendo decisioni in merito in tempi certi perché, come ha detto, se continuerà la sordità delle forze politiche prenderà decisioni irrevocabili.

L’insieme di queste ragioni e le contingenze politiche attuali devono indurci a dare a questa legislatura un’impronta costituente, pragmatica e fattiva, il che significa concentrare gli interventi sulla seconda parte della Costituzione, come abbiamo fatto. Un’azione riformatrice che serve a dare ancora di più slancio ideale e forza alla prima parte della nostra Carta, che rimane un punto di riferimento ineludibile per l’intera comunità nazionale.

Spero che queste prime settimane di collaborazione nella 1a Commissione affari costituzionali abbiano sgombrato il campo dal rischio di un duplice errore alimentato da reciproche diffidenze: da un lato, come segnalato giustamente dal ministro Quagliariello, il pericolo di veder prevalere una sorta di conservatorismo istituzionale, che riguarderebbe in special modo il campo progressista, in cui qualunque intervento sulla Carta si configurerebbe ipso facto come un attentato alla Costituzione. Dall’altro, per ricordare le parole pronunciate in quest’Aula dalla senatrice Finocchiaro, c’è il rischio di una furia iconoclasta, che sarebbe invece tipica della destra, ossia la volontà esibita di sconvolgere radicalmente il quadro costituzionale per farlo aderire a qualche astratta modellistica e per poi, in concreto, non cambiare nulla.

Per proseguire in modo costruttivo nei nostri lavori sarebbe importante mettersi alle spalle queste reciproche diffidenze.

Abbiamo scelto la strada maestra di rafforzare l’articolo 138 della Costituzione e come Gruppo parlamentare del PD appoggiamo con convinzione questo percorso, che garantisce la piena sovranità e dignità del Parlamento.

Ci sta particolarmente a cuore il rapporto tra istituzioni e cittadinanza e dunque questa riforma potrà concludersi con un referendumconfermativo anche se si è raggiunta la maggioranza dei due terzi in Parlamento.

Non ci sfuggono gli elementi di novità, ma consideriamo la deroga che oggi votiamo all’articolo 138 giustificata da un bene comune superiore: anzitutto, perché concentra la fase referente in un unico organismo, il Comitato parlamentare per le riforme costituzionali che andiamo a istituire, e ciò produrrà una benefica accelerazione procedurale senza che vengano meno le garanzie di una corretta ponderazione dei problemi; in secondo luogo, perché c’è la previsione di tempi certi e quindi si eviterà il rischio della inconcludenza; infine, in quanto è presente una ragionevole limitazione dell’oggetto e dell’ambito di azione del Comitato che andiamo ad istituire: Titolo I (il Parlamento), Titolo II (il Presidente della Repubblica), Titolo III (il Governo) e il V (le Regioni, le Province, i Comuni).

Bisogna procedere con prudenza e pragmatismo, facendo tesoro degli errori passati e iniziando dai punti sui quali si registra il maggiore consenso per dare slancio e incoraggiare l’azione riformatrice successiva sui punti più controversi: la fine del bicameralismo paritario con l’istituzione di una sola Camera politica che dia la fiducia e una seconda Camera che esprime autonomia delle Regioni; la riduzione del numero dei parlamentari, che devono raggiungere un livello europeo; la riforma dei Regolamenti parlamentari. Si tratta di provvedimenti su cui in linea di principio si registra un ampio consenso tra le forze politiche e che hanno l’obiettivo di snellire l’iter di approvazione delle leggi, rendendo più efficiente il sistema.

Certo, siamo consapevoli dell’esistenza di nodi politici più delicati, come ad esempio quelli relativi alla forma di governo, che si potranno sciogliere verosimilmente in relazione al varo di una nuova legge elettorale condivisa. Se l’obiettivo di dare maggioranze più durature ed Esecutivi più stabili è comune, più discussa è la questione che porta a scegliere il modello maggiormente adatto a raggiungere lo scopo, che sia la strada del rafforzamento della forma parlamentare e dei poteri del Premier o quella propria del semipresidenzialismo alla francese. In un caso come nell’altro, è importante essere consapevoli che ci troviamo a scegliere tra due modelli perfettamente democratici e che sarà comunque necessario intervenire sui contrappesi istituzionali funzionali a riequilibrare il sistema e con una legge in grado di regolamentare in modo rigoroso i conflitti di interesse.

Dunque, in gioco non c’è solo una questione di modello costituzionale da scegliere, ma anche la definizione di una rete di garanzie che tenga in piedi questo modello.

Per noi – e mi avvio a concludere l’intervento – sarà anche importante coinvolgere il più possibile i cittadini nei processi decisionali, garantendo loro il diritto all’informazione e la possibilità, attraverso la rete, di partecipare attivamente ai lavori, con i loro pareri.

Abbiamo davanti a noi un’occasione storica che dobbiamo cogliere per riuscire ad essere più europei: rapidi nelle decisioni e al tempo stesso rappresentativi. Non abbiamo molto tempo davanti a noi ed anche per questa ragione sarebbe imperdonabile sciupare l’opportunità a disposizione che vogliamo cogliere esprimendo il nostro voto favorevole all’istituzione dei Comitato parlamentare per le riforme costituzionali, con l’obiettivo di preparare giorni migliori per la democrazia italiana. (Applausi dal Gruppo PD e della senatrice Giannini).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice De Pin. Ne ha facoltà.

DE PIN (Misto). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, sarò breve e concisa: quello costituzionale è un problema reale. Le trasformazioni avvenute negli ultimi decenni hanno creato una realtà molto diversa da quella in cui è nata la Costituzione del 1948, legata all’Europa di Yalta e all’economia fordista. Il mondo in cui viviamo ha fatto sorgere problemi allora nemmeno immaginabili. Tematiche come quelle dei beni comuni, delle nuove forme di democrazia e partecipazione, del diritto di cittadinanza, della concentrazione delle ricchezze, della pace e della guerra meriterebbero di essere affrontate in termini costituenti. Non è improbabile che i movimenti democratici in Europa e nelle due sponde del Mediterraneo proprio su questo fronte dovranno impegnarsi e combattere nei prossimi anni.

Purtroppo, però, la direzione in cui sembra muoversi il Parlamento italiano é esattamente opposta a quella auspicabile. Non è infatti in questione una riforma costituzionale che tenga conto delle nuove esigenze di partecipazione e democrazia sorte dal corpo sociale. Quello che si prepara è la cancellazione, in nome di una presunta governabilità, della sostanza delle garanzie democratiche assicurate dalla nobile Costituzione del 1948. Il programma è stato tracciato in un recente studio della JP Morgan, che ha individuato nell’antifascismo e nell’influenza delle idee socialiste nelle Costituzioni dei Paesi del Sud-Europa la causa della loro mancata integrazione nel contesto comunitario e delle loro difficoltà economiche. Non contenta di aver saccheggiato le ricchezze della nostra nazione, la finanza internazionale vuole ora svuotare, non solo di fatto ma anche di diritto, la partecipazione dei cittadini, trasformando l’Italia in una postdemocrazia.

Ecco, allora, si prepara l’ennesimo attacco alla partecipazione democratica attraverso il presidenzialismo, il rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo, l’indebolimento delle prerogative del Parlamento e delle Assemblee elettive, la perdita dell’indipendenza della magistratura, la privatizzazione dei beni comuni.

Questo programma, catastrofico per la nostra Nazione da un punto di vista sociale, culturale ed economico, rischia di essere vincente nel Parlamento.

Il vergognoso connubio tra centro-destra e centro-sinistra, congiunto alla sconfortante inadeguatezza delle opposizioni, rendono possibile ogni enormità.

Presidenza del vice presidente CALDEROLI (ore 11,25)

(Segue DE PIN). Confido, però, che la società italiana sappia rispondere ad un progetto così pericoloso. In caso di stravolgimento costituzionale sarà necessario un referendum confermativo e penso proprio che il popolo italiano non si farà turlupinare tanto facilmente. Dalla Costituzione del 1948 si esce per completarla e migliorarla, non per svuotarla o distruggerla. (Applausi dai Gruppi Misto, Misto-SEL e M5S).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Mineo. Ne ha facoltà.

MINEO (PD). Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevoli senatori, c’è un preambolo sottinteso e non sempre detto a chiare lettere di questa XVII legislatura e cioè che il suo ruolo, la sua ragion d’essere sia di cambiare la forma di governo, condizione ritenuta indispensabile per garantire governabilità al Paese.

Io sono fra coloro che non condividono questa tesi. Anzi, temo possa trattarsi di un alibi per nascondere il poco coraggio, le scelte sbagliate, l’opportunismo di una classe dirigente che non ha saputo, per sua colpa, governare prima lo sviluppo e poi la crisi così dura che ha investito l’Europa e l’Italia, in particolare. Questo – lo ricordo – nonostante il ricorso a premi di maggioranza sempre più imbarazzanti.

Tuttavia, devo riconoscere che la questione della forma di governo come possibile superamento del bicameralismo non è nuova. Se ne parla, infatti, almeno da 40 anni, da quando – cito un esempio storico che il Ministro conosce bene – De Gaulle regolò in modo, tutto sommato, sbrigativo il maggio francese, mentre in Italia la contestazione diventava permanente e vivevamo l’esperienza delle bombe stragiste e della strategia della tensione.

Così come riconosco che in un sistema di democrazia matura che si è buttata alle spalle la guerra fredde non c’è, in principio, nulla di scandaloso nel proporre profonde riforme della nostra Costituzione quale quella che deriverebbero, per esempio, dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica che (non lo nascondiamo) è l’opzione favorita, preferita da una parte dell’Emiciclo: quella che sta alla destra della Presidenza.

Certo (questo lo anticipo, ma ne parleremo poi nel merito), se si volesse introdurre il sistema francese sarebbe indispensabile rafforzare e non indebolire il potere di controllo del Parlamento, rafforzare e non svilire l’autonomia della magistratura.

Fatta questa premessa, di cosa stiamo parlando oggi? Di un disegno di legge costituzionale che detta i tempi, limitandoli drasticamente, dello sforzo teso ad una riforma che limita il potere di emendare proprio del Parlamento. La ratio è far presto e produrre un progetto organico, come auspicato nel famoso discorso che il Presidente della Repubblica tenne a Camere riunite.

Se questo è il quadro, è vero tuttavia che la Commissione affari costituzionali e il suo presidente, senatrice Finocchiaro, hanno svolto un buon lavoro nelle condizioni date. Provo a spiegare perché.

In primo luogo, in Commissione si è sviluppato il dialogo con le opposizioni ed è centrale che le opposizioni non vengano in nessun modo escluse ma, anzi, siano coinvolte a pieno titolo nel processo di riforma costituzionale.

In secondo luogo, non siamo, per fortuna, più davanti alla proposta di istituire una convenzione, una specie di ircocervo di dubbia legittimità costituzionale in cui convivono parlamentari ed esperti nominati non si sa bene da chi e a quale titolo.

No, oggi si propone un Comitato che dovrà proporre un progetto organico di riforma e riferire alle Camere le quali, ciascuna nella sua autonomia, potranno emendare e, se lo ritengono, approvare. Il Parlamento, visto che il Comitato è formato da 21 senatori e da 21 deputati e che è prevista questa possibilità per le Camere, non è espropriato.

In terzo luogo, nella formazione di questo Comitato si terrà conto del peso reale delle diverse forze politiche correggendo dunque gli effetti distorcenti del premio di maggioranza. Così come sarà garantita la presenza di tutte le minoranze.

In ogni caso il progetto finale, votato in doppia lettura da entrambi i rami del Parlamento, sarà sottoposto a referendum confermativo. Dunque, i cittadini avranno, alla fine, l’ultima parola.

Sono state ridotte, inoltre, dal buon lavoro svolto in Commissione, le pulsioni a intervenire con il piccone sulla nostra Carta fondamentale, riducendo, per esempio, i campi di competenza del comitato e del processo che iniziamo alla riforma della forma di Governo e del bicameralismo, escludendo il Titolo IV, che si occupa di magistratura, e prevedendo che le ulteriori modifiche ad altre parti della Costituzione siano strettamente connesse e conseguenti al progetto di riforma, per esempio, della forma del Governo che si vuole proporre. Tanto per parlare chiaro, se si dovesse pensare ad una riforma presidenziale sarebbe indispensabile rafforzare l’autonomia della magistratura e i poteri di controllo del Parlamento.

Ancora – ed è questa per me la questione più rilevante – si è chiarito in Commissione come il Parlamento possa e debba procedere alla cancellazione della legge elettorale cosiddetta Porcellum prima che il lavoro del comitato partorisca un progetto di riforma costituzionale organico, con la legge elettorale connessa e conseguente. Perché è così importante questa possibilità di procedere alla riforma elettorale prima che il processo costituzionale abbia eventualmente un esito positivo? Perché il dubbio, cari colleghi, che grava su questo inizio della legislatura è che la politica voglia prendere tempo, che si vogliano attendere i 18 mesi previsti dal processo di riforma prima di cambiare una legge elettorale che espropria i cittadini del potere di scelta dei parlamentari e regala un premio di maggioranza imbarazzante a coalizioni che poi – lo si è visto – tengono insieme il diavolo e l’acqua santa, e quindi rendono inefficace l’azione di qualsiasi Governo.(Applausi dal Gruppo M5S).

Questa pessima legge elettorale va cambiata subito, senza attendere 18 mesi, il tempo – lo ricordo – di un doppio parto. Allo stesso modo, non si può attendere la fine del semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea (luglio-dicembre 2014) per rivedere la strada in discesa – cito una frase pronunciata in quest’Aula dal premier Letta – e, quindi, potere utilmente intervenire sull’economia, correggere il sistema fiscale, rafforzare e modernizzare le tutele del welfare. Insomma, se vuole difendere la sua autonomia, il Parlamento deve dimostrare di sapere lavorare hic et nunc; non può delegare al Governo, in attesa del semestre italiano, e ai 42, o al processo costituzionale, le cose che devono essere fatte. (Applausi dei senatori Campanella e Gaetti).

Questo è per me essenziale; dunque, esprimo l’auspicio che il Parlamento sappia ribaltare questo destino, chiamiamolo attendista, della XVII legislatura, che si lavori da subito in Commissione affari costituzionali (c’è stata un’importante apertura sia del presidente Finocchiaro sia del ministro Quagliariello) e poi in Aula ad una nuova legge elettorale, di garanzia o transitoria, chiamatela come volete. Tra l’altro, varare la legge renderà più leggero e più confortevole il lavoro del comitato per le riforme, quindi delle Camere nel loro impegno, fugando nell’opinione pubblica il pregiudizio, se davvero di pregiudizio si tratta, secondo cui le riforme, come l’attesa del semestre italiano, in fondo servano a non far votare i nostri connazionali e a tenerci ancora un paio d’anni qui, su questi scranni, e nelle nostre attuali funzioni.(Applausi dai Gruppi PD, M5S e del senatore Romano Lucio).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Liuzzi. Ne ha facoltà.

LIUZZI (PdL). Signor Presidente, signori senatori e signore senatrici, può apparire un volo pindarico stabilire un parallelo illuminante tra le accorate parole di un Papa, invitto dalla pervasiva aridità di sentimenti degli uomini e delle donne del XXI secolo, di fronte alle terrificanti immagini dei naufragi seriali nel Mediterraneo, e la necessità anche per la politica di non lasciarsi prosciugare dentro, in tema di riforme, in presenza di scenari nuovi che reclamano risposte adeguate allo spirito dei tempi. È urgente, in ogni caso, raccogliere l’appello di Lampedusa, plasmandolo alle esigenze contingenti per farne una legge morale affinché ci lasciamo guidare dal buonsenso e dai sobri gesti a cui devono essere informate le nostre azioni di legislatori.

È evidente, nel parallelo ardito, l’orizzonte, ovvero la centralità dell’uomo, l’umanesimo delle dottrine politiche finalizzate al bene comune. Le riforme costituzionali, pertanto, esprimono l’anelito a migliorare, a rendere efficace l’intento benefico della politica.

Che ve ne sia bisogno lo deduciamo finanche dalla qualità e dalla quantità del linguaggio parlato da nostri concittadini, dai nostri connazionali. Perfino ciò che sbrigativamente definiamo «chiacchiere da bar» si rivela sintomatico dell’assoluta percezione tra la gente della inderogabile esigenza di cambiare e rendere il quadro delle leggi e delle norme più aderente alle problematiche del quotidiano e in grado di esplorare i confini del futuro. Quindi, ben vengano i disegni di legge costituzionale.

Bene si fa a mettere al centro del dibattito riformatore il Parlamento, cioè i due rami del Parlamento, dei quali personalmente auspico la persistenza, ribadita la funzione costituzionale della doppia lettura, il richiamo dei costituenti al ruolo vigile di Senato e Camera, reciproco, vicendevole, al fine di assicurare profondità e spessore alle leggi dello Stato.

Come è noto, è in forza dell’articolo 138 della nostra Carta costituzionale che il Parlamento si accinge ad intervenire, a riflettere, per procedere spediti verso la meta. Ebbene, signor Presidente, vorrei che la speditezza fosse intesa piuttosto come sollecitazione ad essere concreti, a rendere utile il lavoro in cantiere. Soltanto in tale accezione può essere inteso e accettato il termine fissato per concludere celermente e consegnare al Parlamento e al Paese i risultati della Commissione parlamentare di riforma della Parte II della Costituzione repubblicana. Nessuna imposizione può essere tollerata. Nessun diktat può alloggiare nelle Aule parlamentari.

Ebbene, torniamo alla bontà delle intenzioni, senza mortificare nessuno. L’autonomia delle Camere è sancita dalla Costituzione. Nel tentativo, che certamente sarà coronato da successo, di revisionare una parte della Costituzione, non finiamo per danneggiare i pilastri dell’edificio parlamentare e le sue funzioni legislative come dettate dall’articolo 71 della Carta. Ma di questo procedimento che da oggi viene avviato, di questo percorso, che sarà virtuoso, ne sarò certo, va enfatizzata la tappa consultiva sotto forma di intervento online dei cittadini. Non possiamo sottacere la portata rivoluzionaria dell’iniziativa del Governo. Anzi, è doveroso enfatizzare tale ricorso alle nuove tecnologie dell’informazione.

Al corpus sociale, straordinariamente multiforme, essendo formato da giovani, adulti, anziani, classe dirigente, disoccupati, indigenti, vengono richiesti contributi, idee e, forse, anche un apporto di originalità e di creatività. Occasione unica per ascoltare la pancia del Paese. Saremo in grado di tenerne conto? Faremo tesoro di una corale partecipazione al processo riformatore?

Mi piace perciò concludere con le parole di un economista che teorizza il valore della condivisione della condivisione e dell’ascolto, Joseph Stiglitz: «Un processo di costruzione della strategia di sviluppo aperto e partecipativo potrebbe causare ritardi, ma la contropartita di qualsiasi costo potenziale dovuto all’apertura e alla partecipazione è costituita dai suoi schiaccianti vantaggi». È un augurio, un vaticinio, un viatico, signor Presidente, che calza bene alla singolare contingenza che stiamo vivendo, coltivando la democrazia, alimentandola di buone intenzioni, ma soprattutto di esiti in grado di mutare il corso degli eventi, cacciando la rassegnazione, bandendo la demagogia, salvaguardando le prossime generazioni dai rischi dell’oscurantismo e del disfacimento. (Applausi dal Gruppo PdL e della senatrice Giannini).

PRESIDENTE. Apprezzate le circostanze, rinvio il seguito della discussione dei disegni di legge in titolo ad altra seduta.

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