Non ha dimenticato nulla di quegli anni difficili, cupi, dal 1992 al ’94, per l’attacco della mafia allo Stato: Gerardo Bianco, classe 1931, era allora capo gruppo Dc alla Camera (oggi è il presidente dell’associazione ex parlamentari della Repubblica) e quindi ha partecipato giorno per giorno a tutte le scelte politiche e istituzionali di quel periodo (consultazioni al Quirinale per la formazione del governo, indicazione dei ministri Dc, votazioni per il Capo dello Stato). Bianco è stato deputato (per la Dc e poi partito Popolare) dal 1968 al 2006, ministro della PI nel 1990 e parlamentare europeo.
Ad ogni domanda che gli rivolgo, Bianco, prima di rispondere, si avvicina all’ archivio chiuso in un armadio, sfoglia carte, documenti e stampati del Parlamento e del partito, verifica le date e i riferimenti.
Ricordo a Bianco che l’ex ministro della Giustizia (1991- febbraio 1993), il socialista Claudio Martelli, il mese scorso, testimoniando di fronte alla commissione antimafia (presidente Pisanu), ha affermato che l’allora Presidente della Repubblica (maggio 1992) Scalfaro, “fu ‘dominus’ ed ebbe un ruolo nel cedimento dello Stato” alla mafia, dopo l’omicidio Falcone e poi Borsellino. Dichiarazione grave e subdola, contro un uomo rispettato da tutti e di grande intransigenza morale, scomparso alla fine di gennaio scorso. Immediatamente Bianco scrisse una breve lettera al Corsera: “Avendo partecipato nel 1992, in qualità di presidente del gruppo democristiano alla Camera alla discussione e formazione del governo Amato, posso ribadire che le affermazioni dell’on. Martelli sono destituite di ogni fondamento. E’ molto amaro registrare l’accusa rivolta all’ex presidente della Repubblica Scalfaro, che non può, ovviamente, replicare”.
Perché lei non crede alle parole di Martelli?
“La smentita a Martelli è nei fatti. Egli fu confermato da Amato (dopo il governo Andreotti), nel 1992, come ministro della Giustizia. E Scalfaro era già al Quirinale. La sua candidatura non venne mai posta in discussione. E’ presumibile, peraltro, che difficilmente avrebbe resistito a un veto di Craxi, come egli sostiene e come invece Amato nega. Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone che aveva suscitato profonda emozione, il clima politico in Parlamento – lo ricordo benissimo – era quello di sferrare un duro attacco alle cosche, anche superando le perplessità costituzionali, come avvenne con l’approvazione senza modifiche del decreto legge antimafia proposto proprio da Martelli e Scotti (agli Interni). Non sta nè in cielo nè in terra che si potesse perfino ipotizzare una ‘trattativa con la mafia’. La stessa nomina di Luciano Violante a presidente della commissione parlamentare antimafia (fine giugno ’92, dopo Gerardo Chiaromonte), malgrado le obiezioni di alcuni, e tra questi proprio Scotti, voleva essere una risposta intransigente nella lotta alla criminalità organizzata”.
Tuttavia non si può dimenticare che Scalfaro ricevette, a febbraio 1993, una lettera (inviata anche al Papa e ad altri) dei familiari dei mafiosi detenuti in regime di 41 bis, nella quale si chiedeva che il trattamento fosse revocato. Ed effettivamente pochi mesi dopo il ministro della Giustizia Giovanni Conso (dopo Martelli) agì in questo senso: fu una sua autonoma decisione o fu un segnale di disponibilità dello Stato per una politica carceraria meno severa? E quella lettera a Scalfaro: in qualche organo deviato dello Stato, ci fu forse chi suggerì di inviarla, per coinvolgere il Presidente?
“Guardi, a rigor di logica proprio quella lettera è la prova evidente che l’azione svolta in quei mesi del ’92-93 per contrastare la mafia, era diventata anche più dura e severa. Gli attentati che si verificarono alla fine di maggio ’93, come dimostra il dibattito in Parlamento (che ho riletto), apparivano a molti di origine oscura e diverse erano le interpretazioni di quei drammatici eventi. Neppure in quella occasione si accennò mai a ‘trattative con la mafia’. Anzi proprio quegli attentati venivano spesso attribuiti ad attori diversi dai mafiosi, sia pure in accordo con la malavita organizzata. Inoltre, è logicamente impensabile che una trattativa – ove mai fosse
stata avviata – non fosse a conoscenza dei presidenti del consiglio dell’epoca. E voglio ricordare che essi smentiscono categoricamente ogni ipotesi del genere”.
E il provvedimento del ministro Conso che abolì il 41 bis per oltre 300 mafiosi?
“La decisione del Guardasigilli di non applicare più il 41 bis a numerosi mafiosi, fu un autonomo atto politico e come tale va considerato: lo stesso Conso se ne è assunto la piena responsabilità, senza coinvolgere altri. Chiamare in causa, come fa Martelli, il presidente Scalfaro, considerato addirittura il ‘dominus’ della trattativa, la ritengo un’affermazione assolutamente azzardata, eticamente discutibile, perchè non può avere repliche. Anzi, sotto certi aspetti, è proprio la lettera dei familiari
dei detenuti al 41 bis, a smentire la trattativa che – se fosse stata reale – non poteva che restare segreta. Se i familiari dei mafiosi uscirono allo scoperto per esercitare pressione sul governo, fu anche perché evidentemente quello era l’unico modo per farsi ascoltare, e non la trattativa. E poi posso testimoniare che Scalfaro difese sempre con grande determinazione la democrazia in ogni occasione, per impedire che la Repubblica diventasse una sorta di pantano. La sua fu una figura di tale limpidezza ed integrità che tutte le accuse a lui rivolte sono assolutamente speculazioni”.
Lei partecipò alle consultazioni al Quirinale da capogruppo Dc quando si formò il governo Amato (giugno ’92, dopo il ministero Andreotti): perchè il suo collega di partito Scotti fu sostituito agli Interni (andò agli Esteri per un mese…) con Mancino? Davvero la scelta fu di portare al ministero un uomo meno severo e magari favorevole a un compromesso col sistema mafia, forse per evitare altre stragi o omicidi di politici e magistrati?
“Mi lasci spiegare bene cosa avvenne e perché. Ancora non è stato detto chiaramente: la sostituzione di Scotti al Viminale fu dovuta a problemi interni della Dc. D’altra parte è stato lo stesso Scotti a chiarire in un suo libro autobiografico del 2004 (‘Un irregolare nel palazzo’) le motivazioni del suo spostamento agli Esteri.
Ecco: la Dc aveva deciso, in ottemperanza ai deliberati dell’assemblea di Assago (1991) di rendere incompatibile la carica di ministro con quella di parlamentare. Questa norma venne applicata per la prima volta con il governo Amato. Scotti si oppose alla decisione. Osservò che un titolare degli Interni sottoposto a seri, e perfino strumentali, attacchi, anche camorristici, non poteva non essere coperto dall’immunità parlamentare.
Questa fu l’unica ragione del suo spostamento agli Esteri, da cui si dimise, dopo appena un mese, per conservare – appunto – l’immunità parlamentare. Nel suo libro di memorie Scotti ha scritto (pg.43): ‘…il mio partito aveva deciso di introdurre l’incompatibilità tra il mandato parlamentare e gli incarichi di governo… avevo per questa ragione deciso di non accettare la riconferma agli Interni, ma il presidente del Consiglio mi fece sapere che mi avrebbe ugualmente nominato ministro nel suo governo’. Agli Esteri, quindi”.
Invece Martelli fu confermato dal presidente Amato alla Giustizia nel giugno ’92. Lasciò il ministero a Giovanni Conso solo a febbraio dell’anno successivo: perché, cosa accadde per giustificare questa improvvisa e isolata sostituzione?
“Anche qui devo ricordare cose dimenticate… Martelli si dimise da ministro, nel febbraio ’93, per le vicende giudiziarie che lo coinvolsero. Se – come lui sostiene – il suo ritiro determinò un indebolimento della lotta alla mafia, la causa va ricercata nelle richieste all’epoca formulate a suo carico dai pubblici ministeri, e non certo per decisioni politiche! Conso fu nominato in sostituzione di Martelli proprio per l’alta considerazione della quale era unanimemente circondato. Il suo inserimento prima nel governo Amato, e poi nel ministero Ciampi successivo, mirava a rafforzare il livello dell’esecutivo. Questi sono i fatti, per come realmente avvennero e furono da me direttamente vissuti”.
Nel suo libro “La balena bianca” (Rubettino ed.) lei rievocando le polemiche sui rapporti mafia-Dc che infuriarono dopo l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92), afferma che “mai mi sono trovato dinanzi a posizioni di esponenti del mio partito che potessero apparire di freno all’adozione di risposte forti all’azione della mafia”. E anzi fu importante “il contributo offertomi da Calogero Mannino”. Proprio Mannino che adesso è rinviato a giudizio a Palermo nell’inchiesta sulla trattativa mafia-Stato. Ma non le risulta che il suo collega di partito (nel ’92 ministro del Mezzogiorno) dopo l’omicidio Lima fosse davvero spaventato e cercò forse di aprire un canale di dialogo coi boss, per salvarsi? E’ un sospetto infondato?
“Io ricordo che nell’aprile del 1982, dopo l’omicidio di Pio La Torre, di comune accordo con il presidente del gruppo parlamentare comunista, Napolitano, ci impegnammo ad approvare con rapidità la legge che portava appunto il nome di La Torre unitamente a quello del ministro degli Interni Dc Rognoni. E in quella occasione mi giovai molto del consiglio di Calogero Mannino, nè, ribadisco, ebbi sollecitazioni diverse da altri colleghi siciliani. E così accadde anche successivamente, negli anni ’90, per l’approvazione del decreto legge Martelli-Scotti sul 41 bis. Anche in quella fase il consiglio di Mannino fu prezioso. E qui rispondo con più precisione alla sua domanda: il sospetto che egli temesse per sè dopo l’omicidio Lima non mi sembra convincente. Comunque mai nei nostri lunghi colloqui mi espose tale timore”.
Insomma, davvero la Dc, in particolare quella siciliana, secondo lei non ha nulla da rimproverarsi nel rapporto con la mafia? Non ci furono, in momenti diversi, compromessi, collusioni o addirittura trattative, tra i mafiosi e i politici?
“No, non è così. Anche se la Dc, come d’altronde tutti gli altri partiti, ha molto da rimproverarsi – come lei dice – per la contiguità, le indulgenze, le compromissioni con la mafia e la malavita organizzata. Basti solo ricordare l’inquietante caso Ciancimino. Comunque non può essere dimenticato nè sottovalutato come, pur tra alcune riserve, il nostro partito abbia approvato le conclusioni della relazione Violante sulle collusioni – anche Dc – con personaggi e ambienti mafiosi. Ma ciò che respingo è il giudizio tout court di una democrazia cristiana siciliana tutta mafiosa e l’insensata teoria del doppio Stato, ahimè avallata da affrettate conclusioni storiche e anche giudiziarie”.
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