Corruzione tra privati: pene troppo leggere

04 Giugno 2012

La corruzione tra privati non figura, ad oggi, fra i reati di corruzione previsti dal codice penale. Tale codice, sotto il profilo della corruzione, prevede soltanto la corruzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio perché compia un atto contrario ai doveri del suo ufficio o servizio, o un atto del suo ufficio o servizio. L’articolo è stato pubblicato sul sito di LeG Torino

La corruzione tra privati non figura, ad oggi, fra i reati di corruzione previsti dal codice penale. Tale codice, sotto il profilo della corruzione, prevede soltanto la corruzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio perché compia un atto contrario ai doveri del suo ufficio o servizio, o un atto del suo ufficio o servizio.

Da diversi anni studiosi di diritto penale, economisti e politologi sostengono che a fianco della corruzione del soggetto pubblico deve essere punita, con una sanzione appropriata alla gravità del fatto, anche la corruzione fra privati, cioè la tangente pagata o promessa ad un amministratore, dirigente o dipendente di una società perché esso assegni una commessa, faccia vincere un appalto, disponga una fornitura, e via dicendo, a favore di chi ha dato o promesso. Questo fenomeno, storicamente diffuso soprattutto nelle grandi imprese, deve essere effettivamente stroncato, perché danneggia l’azienda, altera le regole della concorrenza, turba il mercato, incide negativamente (modificandoli a danno dei consumatori) sui costi della produzione o della distribuzione e, conseguentemente, sui prezzi dei prodotti.

Nell’ambito di una più accentuata repressione delle distorsioni che si possono verificare nella gestione delle grandi imprese da parte di dirigenti, funzionari e impiegati infedeli, la richiesta d’introdurre un delitto di corruzione fra privati si è affiancata, sovente, a quella d’introdurre altresì una fattispecie generale di “infedeltà patrimoniale”, destinata a colpire i dirigenti, i funzionari o i dipendenti che nell’esercizio delle funzioni aziendali loro assegnate perseguono loro interessi personali piuttosto che l’interesse dell’azienda. Anche in questo caso il nostro codice penale punisce, tradizionalmente, soltanto le infedeltà che si manifestano all’interno delle pubbliche amministrazioni (interesse privato in atti di ufficio, ora abrogato; abuso di ufficio) ma non, specificamente, quelle che si sviluppano all’interno delle società private.

Di recente, a seguito dell’emanazione di provvedimenti comunitari ed internazionali, il legislatore italiano ha cominciato ad intervenire anche nel settore privato, cercando di redigere fattispecie generali di infedeltà patrimoniale e di corruzione fra privati.

Nel 2002 c’è stato un primo intervento legislativo che, affrontando il tema della riforma dei reati societari, ha introdotto nel codice civile due reati d’infedeltà patrimoniale: l’ “infedeltà patrimoniale” di cui all’art. art. 2634 c.c. e l’ “infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità” di cui all’art. 2635 c.c., il primo destinato a colpire gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i responsabili della revisione delle società che, avendo un interesse i conflitto con quello della società, al fine di assicurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, compiono atti di disposizione di beni sociali cagionando intenzionalmente alla società un danno; il secondo destinato a sua volta a punire gli stessi soggetti che, “a seguito della dazione o della promessa di utilità”, compiono od omettono atti cagionando un danno alla società”.

Con quest’ultima norma si è dunque (finalmente) iniziato a prevedere la punibilità di chi, al vertice di una società, o suo controllore, riceve od accetta la promessa di denaro o di altra utilità scambiando tale utilità con atti che danneggiano la società stessa. Sarebbe tuttavia necessario, ora, andare oltre questo primo abbozzo d’incriminazione: colpendo chiunque, operando nel privato, stipula un patto corruttivo con un altro privato dando o promettendo (in cambio della promessa o della dazione di denaro o di altra utilità) atti di favore (assegnazione di forniture, assegnazione di lavori, appalti, e via dicendo).

Del problema ha cercato di farsi carico, di recente, il Governo, che ha presentato alla Commissione Affari Costituzionali e Giustizia della Camera un testo di riforma dei delitti di corruzione fra i quali figura la previsione di uno specifico reato di “corruzione fra privati”, che sostituisce il delitto di “infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa di utilità” previsto dal citato art. 2635 c.c. (il testo, approvato a maggioranza in Commissiona, è ora in discussione in aula).

In realtà il nuovo reato, sia pure con alcuni opportuni correttivi (ad esempio, si prevede la punizione anche di chi dà o promette denaro od altra utilità al dirigente di azienda, e non soltanto quella del dirigente che riceve la promessa o la dazione; si specifica che il denaro o l’utilità può essere data o promessa anche ad un terzo; si cerca di dettagliare la condotta criminosa), riproduce in larga misura il testo precedente: continua infatti a punire “gli amministratori, i dirigenti, i sindaci, i liquidatori”, che “a seguito della dazione o della promessa di denaro od altra utilità, per sé o per altri, compiano  od omettano atti, cagionando un nocumento alla società”.

Ben altro, per essere in grado di colpire ogni accordo corruttivo fra privati nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, avrebbe dovuto essere, tuttavia, il contenuto della nuova norma. Avrebbe, innanzitutto, dovuto coinvolgere chiunque si lascia corrompere agendo all’interno o per conto di una organizzazione aziendale (quindi non soltanto gli amministratori, i dirigenti, i sindaci , i liquidatori, ma anche i lavoratori dipendenti e coloro che prestassero comunque la loro opera a favore ella azienda); avrebbe, in secondo luogo dovuto fare rifermento, fra le conseguenze possibili dell’accordo corruttivo, non soltanto al possibile danno della azienda ma anche alla possibile distorsione della concorrenza, e pertanto al danno dei terzi concorrenti, nonché al possibile danno del consumatori.

Ciò che colpisce per altro verso, e soprattutto, è la “leggerezza” della pena prevista: reclusione da uno a tre anni, in linea con quanto già prevedono gli attuali artt. 2634 e 2635 c.c., è del tutto inidonea a rappresentare la oggettiva gravità del fatto e delle sue possibili conseguenze sul terreno dei danni privati e della turbativa della concorrenza nel mercato.

Avere deciso di ritornare sul tema della punizione della corruzione fra privati, cercando di affinare la relativa disciplina in ossequio alle indicazioni comunitarie ed internazionali, è sicuramente positivo. Maggiore incisività, per le ragioni accennate, sarebbe stata comunque opportuna.

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