Ricucire: con un filo di parole

14 Ottobre 2011

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Ricucire: con un filo di parole. Non le mie, ma quelle dei nostri maestri. Dedico questa pagina a un Ministro della Repubblica, fotografato sui giornali d’Italia in un gesto irriferibile, rivolto contro un cittadino che cantava all’Italia una canzone.

Ricucire: con un filo di parole. Non le mie, ma quelle dei nostri maestri. Dedico questa pagina a un Ministro della Repubblica, fotografato sui giornali d’Italia in un gesto irriferibile, rivolto contro un cittadino che cantava all’Italia una canzone.

“La patria è una comunione di liberi e di eguali affratellati in una concordia di lavori. Voi dovete farla e mantenerla tale. La Patria non è un aggregato, è un’associazione. Non v’è dunque veramente patria senza un Diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di questo diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze – dove l’attività d’una porzione delle fotrze e facoltà individuali è cancellata o assopita… v’è non Nazione… ma moltitudine, agglomerazione fortuita di uomini che le circostanze riunirono, e circostanze diverse separeranno” (Giuseppe Mazzini).

Al capo del governo, che comparse sui giornali del mondo in un’immagine che lo ritraeva attorniato da un gruppo di volontari, mentre faceva con la mano il gesto delle corna, dedico la pagina che segue. Perché c’è Italia e Italia, e questa è l’immagine di noi che ha regalato al mondo. Gli dedico questa lode all’Italia, che scrisse un ragazzo che aveva l’età di quei volontari: Giacomo Leopardi. “…madre di cose altissime, ardente e giudiziosa, prontissima e vivacissima, e tuttavia riposata e assennata e soda, robusta e delicata, eccelsa e modesta, dolce tenera e sensitiva oltre modo, e tuttavia grave e disinvolta, nemica mortualissima di qualsivoglia affettazione, conoscitrice e vaga sopra ogni cosa della naturalezza… amante spasimata e finissima discernitrice del bello e del sublime e del vero, e finalmente savissima temperatrice della natura e della ragione”.

Ci invitano a una tregua d’armi, a un accordo di transizione. Ma con chi? Con quelli che stanno scendendo dal carro del padrone, dopo averlo unto e tirato per vent’anni? Che cosa ho, che cosa abbiamo da dire loro? Queste parole di Piero Gobetti: “Che ho a che fare io con gli schiavi?”

“E’ orribile questa persuasione… di aver ragione, e vedere gli eventi che sembrano dare ragione giorno per giorno a tutti i cialtroni, a tutti gli avventurieri, a tutti i farabutti” Questo scriveva Piero Calamandrei. Che definì la nostra Costituzione “L’incompiuta”. Come una sinfonia schubertiana, possiamo amarla. Calamandrei scrisse un Diario, dice, “tanto per far sapere a me stesso…. che c’è almeno uno che non vuol essere complice!”. Pagine piene di riflessioni “contro la viltà, il cinismo, lo spirito di accomodamento degli italiani, specie degli intellettuali che pur di avere una commenda sono pronti a sostenere che si debba ristabilire la tortura”: dovette avere un attacco di profezia, forse aveva già letto gli articoli di certi notisti dei nostri anni, politologi di fama che scrivono sulle massime testate nazionali.

Un filosofo che è fra i migliori nostri maestri, Guido Calogero, si chiedeva spesso: “Come è possibile essere “impegnati”, senza essere dogmatici e fanatici? E come è possibile essere tolleranti, senza essere indifferenti?” – Da lontano gli rispose un genio, senza sapere che gli rispondeva: “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare.” (Albert Einstein).

Dedico queste altre parole a tutti noi, che aspettiamo da troppo tempo di essere veramente rappresentati dall’opposizione politica che siede in Parlamento. Le scrisse Antonio Giuriolo, prima di morire partigiano. Parlava del dovere dello scrittore di partecipare alla vita politica senza sostituirsi ai politici. Ma aggiunse un inciso prezioso: “Anche questo può rendersi talvolta necessario, in certe situazioni estreme, quando cioè si verifica un’iunsanabile frattura tra lo stato d’animo di una nazione e la classe dirigente e quest’ultima si chiude in caste e monopolizza e sfrutta il potere, al solo fine di coglierne privati vantaggi: l’iniziativa passa allora sempre alle forze morali che si levano compatte a ristabilire le basi della vita sociale su un nuovo e migliore equilibrio”.

Quest’altra pagina la dedico ai ragazzi e alle ragazze che sono qui, e anche a quelli che non sono qui. Li dedico a tutti voi che avete sui vent’anni, nostra speranza. Le ha scritte Luigi Meneghello, lo scrittore partigiano che di Giuriolo fu allievo e amico. Descrive il loro incontro in montagna. “Così deve essere stato per i primi cristiani quando gli arrivava un apostolo in casa. Antonio non era solo un uomo autorevole, dieci anni più vecchio di noi: era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo…. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Rosselli, Gobetti, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani”.

Ricordate, sulla soglia dell’inferno, gli ignavi? La parola non è dantesca. Noi sottolineiamo la pochezza, la viltà. Ma si tratta della gente che in definitiva non ha mai preso sul serio l’esperienza morale. Oggi si chiamano terzisti. “Questi sciaurati che mai non fur vivi”: così, con ben altra forza e ragione, li chiama Dante. Sono quelli che precisamente non vogliono distinguere il giusto dall’ingiusto, la vittima dal carnefice. Quelli che chiamano entrambi “estremisti”. Ce ne erano a bizzeffe durante i casi Welby, Englaro. Favoleggiavano di un partito estremista della vita e di un partito estremista della morte. Ce ne sono oggi, a predicare un moderato accordo con chi ha elevato il cinismo ad arte di governo. Cerchiobottisti metafisici, afflitti da un servilismo trascendentale. Credevamo che avessero perduto. Ma nell’oscurità e nell’urlio confuso dell’anti-inferno prosperano, ancora e sempre. Ma certo ricordate come li tratta Dante:

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa
misericordia e giustizia li sdegna:

non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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