Pongono almeno due interrogativi le dimissioni di Denis Verdini da presidente-padrone del Credito Coooperativo Fiorentino, la banca attraverso cui il coordinatore del Pdl realizzava, secondo le accuse della magistratura inquirente (corruzione e associazione segreta), la parte forse più lucrosa degli affari della cricca-P3. E sono interrogativi per un verso inquietanti e per un altro verso sconcertanti.
La prima domanda: perché queste dimissioni? Perché, dice lo stesso Verdini nella lettera con cui molla la sua banca, “in questi mesi si è abbattuta sulla mia persona e indirettamente sul Credito una tempesta mediatica e giudiziaria di ampie proporzioni”. Scontato che lui si dica “assolutamente certo di poter dimostrare la mia estraneità da ogni illecito che mi viene in questa fase addebitato”, Verdini deve però “prendere atto che la rilevanza assunta dai fatti che mi vengono imputati rischia di gettare un’ombra sulla banca”. La motivazione dice poco o dice troppo.
Per tentare di spiegare che la motivazione può essere insufficiente una coincidenza: Verdini fa sapere di essersi dimesso da presidente-padrone del Credito giusto pochissime ore prima di doversi presentare a Roma davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e al pm Rodolfo Sabelli, i due magistrati che domani ascolteranno Marcello Dell’Utri. E allora nasce un sospetto: che le dimissioni siano state suggerite dai suoi avvocati. Con un retropensiero legale (siamo sempre e solo nel campo delle ipotesi): se la magistratura dovesse chiedere l’adozione nei tuoi confronti di una misura cautelare, questa sarebbe dettata dal rischio della reiterazione di un reato. Ergo, se ti dimetti la (ipotizzata) reiterazione non è possibile. E con un altro retropensiero ancor più drammatico: il commissariamento del Credito, che può essere evitato, se la posizione di Verdini si aggravasse, solo procedendo subito all’elezione di un nuovo presidente anche per tranquillizzare i risparmiatori.
E queste dimissioni, solo per queste (ipotetiche, comunque taciute) ragioni, spiegherebbero allora – e arriviamo al secondo interrogativo – perché mai Verdini si dimetta da padre-padrone della banca e non anche da coordinatore del Pdl. A maggior ragione dovrebbero convincere Verdini a lasciare anche l’incarico politico le stesse identiche parole usate da costui per motivare l’abbandono della postazione finanziaria: “tempeste mediatica a giudiziaria di ampie proporzioni”, presa d’atto della “rilevanza assunta dai fatti che mi vengono imputati”, persino la professione di certezza “di poter dimostrare l’estraneità da ogni addebito che mi viene contestato”. Se non lo ha fatto avrà le sue buone ragioni, e ottime le ha di certo Berlusconi. Sarebbe una mazzata in più, e davvero insopportabile.