Elogio del piccolo

07 Marzo 2025

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Condividiamo la lectio magistralis tenuta il 26 febbraio scorso da Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale e Presidente onorario di Libertà e Giustizia, nel corso dell’inaugurazione dell’anno accademico 2024-25 dell’Università di San Marino.

Anomalia o eccezione

Nel celeberrimo trattato sulla Ragion di Stato, Giovanni Botero, nel 1593, riprese il tema classico dell’ottima dimensione degli Stati, nel tempo delle grandiose modificazioni geopolitiche dell’intero continente europeo che avrebbero portato alla creazione di grandi spazi politici a danno dei più piccoli e, alla fine, alla formazione degli Stati nazionali. Imitando, in certo senso, Machiavelli, egli scrive che la ragion di Stato è quella “de’ mezi, atti a fondare, conservare et ampliare un Dominio” e si domanda come influisca, rispetto a questi scopi, la dimensione degli Stati stessi. Inizia da una tripartizione e dice: “Dei dominij, altri sono piccioli, altri grandi, altri mezzani e tali sono non assolutamente, ma in comparatione, e per rispetto de’ confinanti; si che picciolo Dominio è quello che non si può mantenere da sé, ma ha bisogno della protettione, e dell’appoggio altrui, come è la Repubblica di Ragusa, e di Lucca; mediocre è quello che ha forze e autorità sufficiente per mantenersi, senza bisogno dell’altrui soccorso, come è il Dominio de’ Signori Venetiani, e ‘l Regno di Boemia, et il Ducato di Milano, e la contea di Fiandra. Grandi poi chiamo quegli Stati, che hanno notabile avantaggio sopra i vicini, come è l’Imperio del Turco, e del Re Cattolico”. Posta questa tripartizione, si enuncia questa legge politica: “Egli è cosa certa, che sono più atti a mantenersi i mezzani; perché i piccoli per la debolezza loro sono facilmente esposti alle forze, et ingiurie de’ grandi, che (come gli uccelli di rapina si pascono de’ piccioli, et i pesci grossi de’ minuti) li divorano, e s’innalzano con la loro rovina … I mediocri sono i più durabili; conciosiaché, né per molta debolezza sono così esposti alla violenza, né per grandezza all’invidia altrui”.

Questa legge, per quei tempi, aveva la sua validità. Ma noi siamo qui, in una libera Repubblica plurisecolare che certamente sarebbe da classificare tra i “piccioli Stati”; eppure, le è riuscito di non essere divorata ed è giustamente orgogliosa della sua storia di libertà dagli uccelli di rapina e dai pesci grossi. Anzi, appartiene ai più importanti consessi internazionali, come ad esempio l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e la sua Corte dei diritti, la Corte penale internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità. 

Giuridicamente, è uno Stato sovrano e quando rivendica la sua libertà lo è anche di fatto. Che, poi, anche la vita sociale nella Repubblica di San Marino sia modellata e largamente uniformata da ciò che chiamiamo la “globalizzazione” è un dato di fatto comune a tutte società occidentali (e oltre), ma non per questo la libertà giuridica è intaccata. Ma, di questo, più avanti.

La prima questione sulla quale desidero svolgere qualche riflessione è la seguente: la libertà di questa Repubblica, erede della tradizione delle città-stato che hanno fatto la storia civile in Europa e, soprattutto in Italia, a partire dal tempo della crisi dell’Impero sacro-romano, è un’anomalia, un relitto, quasi una curiosità della storia, oppure la dobbiamo considerare un’eccezione che conferma la regola, la regola dei grandi Stati secondo Botero. Le anomalie sono sterili; le eccezioni sono fertili, perché inducono a valutare con senso critico il valore della norma. Teniamo presente questa differenza: morte le prime, vive le seconde.

I “piccoli Stati”

Non ho certo titolo per poter fare davanti a voi la storia millenaria della vostra Repubblica. Mi limito a un rapido confronto con la storia di altri “piccoli Stati” europei, il Liechtenstaat e Andorra. Il Liechtenstaat si è conservato destreggiandosi nei secoli tra le potenze confinanti, cioè tra la Germania e l’Austria, appoggiandosi, all’occorrenza, alla Confederazione elvetica. La durata del Granducato è stata, nei secoli, un esercizio d’equilibrismo. Andorra, il cui territorio è incuneato tra la Francia e la Spagna, ha un curioso assetto dualistico, al vertice del quale stanno due autorità straniere, il vescovo spagnolo di Urgell e il presidente della Repubblica francese: una mescolanza di Chiesa e Stato che sopravvive per forza d’inerzia. Del Principato di Monaco c’è da dire che la sua storia accidentata di annessioni, separazioni tra Francia, Spagna, Savoia, fino alla situazione attuale di indipendenza, col governo francese come “garante”, l’ha portato a diventare luogo di loisir della upper class internazionale che vi si riunisce per i propri riti mondani e per i propri interessi finanziari e fiscali.   

Si usa unire Liechtenstaat, Andorra e Monaco a San Marino nella categoria “piccoli Stati”. Questo è possibile dal punto di vista delle dimensioni territoriali e dell’entità della popolazione. Ma al di là di queste somiglianze, l’omologazione nell’espressione “piccoli Stati” non renderebbe giustizia alla Repubblica di San Marino, unico e ultimo esempio di libertà comunali difese nei confronti del grande processo di omologazione che, a partire dal XVI secolo, ha avuto come esito la formazione in Europa degli Stati nazionali.  San Marino è certamente “Italia”, “la più grande Patria”, secondo l’espressione del Carducci, se, con questa espressione indichiamo una realtà non solo geografica, ma anche culturale, quando si poteva parlare dell’Italia dalle cento città che i viaggiatori europei toccavano nel cosiddetto “viaggio in Italia”, del quale quello di Goethe è il modello riconosciuto. Ma, San Marino non è Italia dal punto di vista politico-costituzionale. È un’entità a parte che ha sempre difeso la libertà come identità propria, non beneficiaria passiva di equilibri, accordi e concessioni tra altre potenze. In breve, non è la risultante di interessi altrui. Certo, anche in questa terra si sono convogliati flussi finanziari in cui nei tempi nostri si vuole vedere chiaro. Certo, la rocca di San Marino è anche una meta pregiata di flussi turistici. Ma non potremmo ridurre a queste visioni meschine una grande (per significato) e, insieme, piccola (per dimensione) realtà. Se consideriamo le linee di sviluppo della storia europea e mondiale, la Repubblica di San Marino, che ne è rimasta relativamente immune, presenta qualcosa di miracoloso. 

I presenti conoscono meglio di chiunque altro la loro storia e non è il caso di ripercorrerla. Ma è sufficiente uno sguardo d’insieme per comprendere che la parola libertà che è inscritta nello stemma della Repubblica riassume l’essenza stessa della sua vicenda. Per quanto la sua gestazione come libero Comune e l’emancipazione dal regime feudale siano state circondate dai grandi scontri tra le potenze del tempo, l’Impero e la Chiesa, San Marino non ha conosciuto asservimenti nella sua politica interiore, cioè non è stato, per così dire, colonizzato da una o da un’altra. È significativo che la lotta tra guelfi e ghibellini – governanti, i primi, nella Rimini dei Malatesta; i secondi, nell’Urbino dei Montefeltro – non si sia tradotta in lotta intestina tra fazioni. Il Comune, per così dire, fu essenzialmente sammarinese e, se strinse alternanti alleanze, ciò fece per liberarsi dalle pretese d’ingerenza degli uni e degli altri.  Il Carducci, nel celebre discorso del 30 settembre 1894 citato sopra, sintetizzò questo carattere della Repubblica Sammarinese rilevando ch’essa “sola tra le italiane ella divenne a stato di repubblica, non per privilegio di Cesare o di Pietro”. Si usa, a questo proposito rammentare le parole di commiato attribuite a Marino, il tagliatore di pietre fondatore della Rocca: “relinquo vos liberos ab utroque homine”: mitologia; ma come tutti i miti che sopravvivono al tempo, anche questo contiene un aggancio riconoscibile con la realtà. Certo, la storia di quei secoli non si lascia semplificare così, ma ciò che ne risulta è lo spirito d’indipendenza comportante il rifiuto di soggiacere al governo altrui e all’imposizione di condizioni umilianti per ottenere benefici dal potente di turno. Non è formula retorica la “libertà perpetua” che il pontefice Paolo III Farnese, il papa del Concilio di Trento non certo debole nella sua visione del potere mondano, riconobbe quale imprinting, si potrebbe dire, della Repubblica Sammarinese. E, come la Repubblica volle opporsi alle minacce, così, “contenta della sua piccolezza”, non accettò i doni, quando questi avrebbero potuto iniettare veleni: così fu per l’espansione territoriale verso il mare offerta da Napoleone, un’espansione da cui sarebbero derivate l’attrazione in una ambigua zona d’influenza francese e un ambizioso ingrandimento che avrebbe potuto col tempo alimentare appetiti pericolosi per la sua libertà (parole della risposta ufficiale all’Imperatore francese). Il che – sia detto per inciso – fu un atto lungimirante che salvò la Repubblica – come Repubblica! – dalla riorganizzazione monarchica dell’Europa al Congresso di Vienna. 

Patrimonio dell’Umanità: in che senso?

L’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, nel 2008 ha incluso la Repubblica di San Marino nell’elenco dei “patrimoni dell’Umanità”. Nella motivazione, certo, troviamo riferimenti al valore straordinario del paesaggio e della rocca che svetta tra i panorami del Montefeltro: il Montefeltro che, già a prima vista, chiama alla mente le ambientazioni di tante opere eccelse della pittura rinascimentale. Ma, non è solo questo. Anzi, non è soprattutto questo. Si tratta d’un patrimonio di natura storico-politica. Leggiamo: “San Marino è una delle più antiche Repubbliche del mondo e l’unica Città-Stato che sussiste, rappresentando una tappa importante dello sviluppo dei modelli democratici in Europa e in tutto il mondo. Le espressioni tangibili della continuità della sua lunga esistenza, il suo contesto geopolitico inalterato e le sue funzioni giuridiche e istituzionali si ritrovano nella posizione strategica in cima al Monte Titano, nel modello urbano storico, negli spazi urbani e nei numerosi monumenti pubblici. San Marino ha uno statuto emblematico ampiamente riconosciuto in quanto simbolo della città-Stato libera, illustrato nel dibattito politico, nella letteratura e nelle arti nel corso dei secoli… San Marino e il Monte Titano costituiscono una testimonianza eccezionale dell’istituzione di una democrazia rappresentativa fondata sull’autonomia civica e l’autogoverno, avendo esercitato con una continuità unica e senza interruzione il ruolo di capitale di una Repubblica indipendente dal XIII secolo. San Marino è una testimonianza eccezionale d’una tradizione culturale vivente che perdura da settecento anni”. 

Queste parole dicono che si può essere un bene dell’umanità se si testimonia un’idea feconda, soprattutto quando il mondo tutt’intorno sembra veleggiare per altri lidi, e dicono che la testimonianza prescinde dalle dimensioni della base di partenza. In questo senso, il riconoscimento dell’Unesco assomiglia a qualcosa di simile a un premio Nobel della civiltà. 

Ma, ora qualche cosa deve dirsi sul contenuto della parola libertà, che costituisce in sintesi l’essenza della storia della Repubblica di San Marino.

Le istituzioni della libertà

Ci sono parole tanto diffuse, quanto ricche di significati. Democrazia è una; un’altra è libertà. Montesquieu, nemico delle formule astratte e delle generalizzazioni, ha osservato, a proposito di libertà (Esprit des lois, l. XI, cap. II): “Non c’è parola che abbia ricevuto tanti e tanto diversi significati, e che abbia colpito l’immaginazione in modi così diversi come la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni, come privilegio di non essere governati che da uomini della propria nazione o dalle proprie leggi. Una certa popolazione, come l’abitudine di portare lunghe barbe” (allusione ironica ai Moscoviti, che non perdonarono a Pietro il Grande la decisione di farli rasare).

Nella storia della Repubblica di San Marino, la libertà, potremmo dire, significa concretamente arengo. Tra i costituzionalisti, è parola che suona anacronistica, quasi che riguardi un reperto storico per la gioia ricercatori di curiosità politiche. La sua matrice si perde nella notte dei tempi, quando i cittadini attivi erano i capi-famiglia e le decisioni riguardanti la comunità potevano essere prese collettivamente in pubbliche adunanze: tutte le decisioni che in precedenza erano del feudatario del luogo, senza le distinzioni che sarebbero state elaborate dal costituzionalismo dei secoli recenti, legislative esecutive e giudiziarie. Si doveva trattare d’una democrazia diretta integrale, destinata, tuttavia presto, ad articolarsi in consessi più ristretti e stabili espressi dall’assemblea, il Consiglio dei 60 e il Consiglio dei 12, predecessori degli odierni Consiglio Grande e Generale, organo legislativo, e del Congresso di Stato, organo esecutivo. Per far fronte a esigenze normali e regolari di governo, l’arengo, pur restando la sede di ciò che noi chiamiamo “sovranità”, non avrebbe potuto essere a lungo la sede unica delle decisioni pubbliche, in una comunità che andava crescendo numericamente. Quando il corpo istituzionale si arricchisce di organi, diventa poi giocoforza mettere un capo su quel corpo, cosa che non era necessaria in precedenza, quando corpo politico e organo politico coincidevano nell’arengo. Così, a metà del XIII secolo furono istituiti i Capitani reggenti con funzioni di Capi nella Repubblica, eletti dal popolo nell’arengo, in numero di due, a imitazione delle istituzioni consolari romane ma con riguardo alla duplice rappresentatività del borgo e del contado.

Mi auguro di non avere dato una rappresentazione fuorviante d’una vicenda plurisecolare complessa. Ma, nello spazio concessomi, non mi riesce di essere più analitico. Ciò che interessa in questa sede, è sottolineare la fondazione storica della democrazia della Repubblica di San Marino presso l’arengo. Su questo punto, la differenza rispetto alla vicenda degli Stati nazionali è radicale: questa vicenda ha come principio la sovranità dello Stato, impersonata originariamente dal monarca; sovranità assoluta, prima, e, poi, progressivamente delimitata, spartita, controllata, democratizzata. È la vicenda di ciò che chiamiamo “costituzionalismo”, una vicenda che ha preso avvio con le rivoluzioni della fine del ‘700 e si è sviluppata fino quasi ai nostri giorni, le cui tappe sono state lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e la subordinazione d’ogni pubblico potere a quella legge suprema che chiamiamo “costituzione”. Diverso è stato lo svolgimento storico dell’ordinamento sammarinese. È passato attraverso traversie, ma non ha subito scosse rivoluzionarie del medesimo tipo e non ha tagliato le radici che tuttora lo collegano all’humus di tanti secoli fa. Anzi, i suoi sommovimenti non sono stati altro che la riscoperta e il rinnovamento delle ragioni della propria originaria legittimità. È per questo che possiamo riconoscere in San Marino l’espressione vivente odierna delle libertà comunali del Rinascimento italiano. 

Tuttavia, i principi assumono forme diverse nella storia. Così, se volgiamo lo sguardo ai principi fondamentali dell’ordinamento sammarinese odierno (decreto 8 luglio 2002, n. 79), troviamo anche in questa Repubblica, sotto nomi antichi e con alcune caratteristiche proprie, un’articolazione istituzionale che si avvicina alla separazione dei poteri del costituzionalismo moderno: legislativo, esecutivo e giudiziario che operano con distinte funzioni “nel rispetto della reciproca autonomia e competenza” (art. 2, u. c., del Decreto n. 79), sotto la garanzia d’un vertice bicefalo dello Stato; proclamazione dei diritti dei cittadini e principio di legalità assicurata da una magistratura indipendente; da ultimo (dal 2002), le attività dello Stato sottoposte a un controllo di natura non diversa dal controllo di costituzionalità che vige generalmente negli odierni Stati costituzionali.

Democrazia diretta e rappresentativa

Su un punto, soprattutto, l’evoluzione delle istituzioni sammarinesi sembra congiungersi con quella delle istituzioni dei “grandi Stati”: l’approdo alla democrazia rappresentativa come forma normale della sovranità popolare: “La sovranità della Repubblica risiede nel popolo, che la esercita nelle forme statutarie della democrazia rappresentativa”, afferma l’art. 2 del Decreto n. 79. La democrazia rappresentativa sammarinese è di natura monista: la sovranità popolare si esprime attraverso l’elezione con voto diretto del Consiglio grande e generale, al quale spetta non solo la funzione legislativa e d’indirizzo politico, ma anche l’elezione dei membri Congresso di Stato, responsabili di fronte al Consiglio stesso, dei Capitani reggenti e dei membri del Collegio garante della costituzionalità delle norme. La democrazia è, dunque, qui, un tronco unico attraverso il quale si svolge un processo che, dalle determinazioni elettorali del popolo, procede verso la composizione di tutti gli altri organi costituzionali politici, con l’esclusione – ovvia in tutti gli Stati di diritto – degli organi giudiziari ordinari, la cui autonomia è posta sotto il governo di un Consiglio giudiziario. I Capitani reggenti, vertici dell’organizzazione, sono a loro volta sottoposti ad azione di responsabilità “per il fatto e il non fatto”, alla scadenza del loro mandato, davanti al Collegio garante, su iniziativa di singoli cittadini. Così, l’actio popularis nei confronti di Capitani chiude il circolo della democrazia integrale sammarinese.

Democrazia rappresentativa integrale alla quale, come completamento, si aggiungono gli istituti di democrazia diretta: “la legge disciplinerà l’Arengo e gli altri istituti di democrazia diretta”, dice l’art. 2 citato, dopo aver affermato il principio della democrazia rappresentativa. Il bisogno di democrazia diretta è ben vivo in San Marino, come dimostra la ricca giurisprudenza in proposito del Collegio garante della costituzionalità. Ma, evidentemente, questo articolo 2 parla di democrazia diretta e di arengo, non secondo una loro natura originaria e fondativa della democrazia, ma nella loro attuale natura derivata e integrativa della democrazia rappresentativa: non “costituente”, ma “costituita”. Da questo punto di vista, c’è un’evidente convergenza con il rapporto tra i due tipi di democrazia, quale risulta da altre costituzioni, per esempio quella italiana.

L’arengo

L’evidenza, tuttavia, può essere ingannevole, proprio con riguardo all’arengo, istituto specifico della storia sammarinese che non trova l’equivalente nelle istituzioni degli Stati nazionali, i quali si sono formati secondo percorsi storici lontani dall’evoluzione del libero Comune rinascimentale. Ogni essere vivente – e le costituzioni possiamo considerarle tali – è segnato, come da una stigmate, dalla propria origine, dalla propria archè; e questo nucleo originario è destinato a riemergere alla luce del sole nei momenti di crisi, quando cadono gli abbellimenti, i completamenti, le modulazioni e le variazioni che su quel nucleo sono venute a posarsi. Il momento della crisi è quello del disvelamento della radice e il disvelamento fa chiarezza sull’essenza delle cose.

Qual è la radice costituzionale degli Stati nazionali? È la sovranità dello Stato. Un tempo essa fu rappresentata dal Sovrano, poi dagli esecutivi, cioè dai governi che, negli stati eccezionali d’urgenza, assumono e riassumono poteri straordinari che mettono a tacere i poteri ordinari, i loro rapporti, i loro equilibri. È ciò che si denomina “dittatura commissaria”, al servizio della difesa della Costituzione. Il “capo dello Stato” è colui che la storia degli Stati nazionali chiama a svolgere questo compito, talora necessario ma sempre pericoloso: pericoloso perché nasce “commissario” e facilmente si trasforma in “sovrano”, cioè rivolto non a difendere, ma a travolgere la Costituzione. 

La vicenda del 1906, quando si trattò di ridare linfa democratica a istituzioni oligarchiche, dimostra che San Marino appartiene a un’altra storia profonda, la storia che chiamiamo del “repubblicanesimo”. La sua archè non sta nei vertici delle istituzioni, ma nella partecipazione diffusa tra i cittadini che ha trovato nell’arengo il suo luogo storico di espressione. Nelle Repubbliche antiche, la garanzia della costituzione sta nei cittadini che “tengono le mani sulla propria libertà”, non nel deus ex machina, nel demagogo che si presenta sulla scena come il salvatore del popolo. L’arengo antico non era più stato convocato dal 1571: tre secoli e mezzo di distanza, un lasso di tempo enorme, più lungo del ciclo di vita di tutte le costituzioni nazionali scritte vigenti. I giuristi avrebbero detto che ormai la desuetudine aveva fatto il suo corso. Ma il tempo può abrogare molte norme, molte consuetudini, molte istituzioni, ma non quelle che riguardano la radice. Così, il popolo che si riunisce per ripristinare l’antica libertà contro le deviazioni oligarchiche e il suo sistema di cooptazioni – non sto qui a ricordare ciò che tante volte avete già celebrato con riguardo agli eventi di allora – dimostra che la radice è sempre viva e la sua forza, nei momenti di necessità, ritorna a fornire linfa alla vita della comunità. Infatti, dobbiamo riflettere sul significato della “rivoluzione” di allora. Se di “rivoluzione” si può parlare, non è nel senso della rottura d’una continuità e della sostituzione d’un regime e d’una legittimità nuove a un regime e a una legittimità vecchie, ma della restaurazione dell’antico principio della libera Repubblica. Dunque, una rivoluzione restauratrice rivolta a riprendere il filo d’una continuità, d’una fedeltà radicata nei secoli. 

Del resto, che in San Marino si avverta il valore costitutivo della continuità è testimoniato nel testo costituzionale vigente, là dove l’art. 3 bis del Decreto n. 79, più volte citato, si dice che le disposizioni legislative, in caso di loro assenza (e i giuristi sanno quali margini di manovra offre questa “clausola dell’assenza” o della lacuna, per aprire spazi di libertà ricostruttiva del sistema giuridico) vale la consuetudine e il diritto comune; e l’art. 17 della Legge Qualificata n. 55 del 2003, a proposito del sindacato sui Capitani Reggenti, stabilisce che essi rispondono del proprio mandato davanti al Collegio Garante secondo le norme delle Leges Statutae. Il Collegio Garante, cioè la massima autorità giuridico-costituzionale, ha attinto al diritto comune la linfa della sua giurisprudenza in alcuni casi di notevole importanza. Ricordo, in particolare, la Sentenza 6 settembre 2004, n. 26, che si segnala quasi come un manifesto dell’equità contro il formalismo giuridico che affligge tanta giurisprudenza dei Tribunali nel nostro tempo. Si trattava della difesa di un tipico “diritto sociale”, il diritto alla giusta prestazione salariale a favore d’una categoria di lavoratori in un momento di crisi aziendale, diritto del quale si chiedeva la restitutio in integrum. Vale la pena di leggere qualche passo: “La ingiustizia […] rappresenta nel Diritto comune la causa giustificativa della restitutio in integrum. È chiaro che questo istituto, nell’evoluzione che ha avuto, a partire dall’Edictum, nel Digesto e in seguito, attraverso il diritto comune poi trasfuso nell’attuale sua lettura secondo l’Ordinamento Sammarinese, si manifesta idoneo a supplire, sul piano della giustizia, ai difetti e alle conseguenze erronee di un formalismo astratto. Da ciò, la possibilità di considerare competente questo Collegio “poiché la decisione del Consiglio Grande e Generale si è palesata inutiliter data e […] inidonea a produrre effetti preclusivi”. Non è un caso isolato. La Sentenza n. 16 del 21 giugno 2005, in tema di referendum rivolto a prescrivere la maggioranza dei 2/3 nelle deliberazioni concernenti la materia dei giochi d’azzardo (referendum ritenuto inammissibile), di nuovo si avvale dottamente dello ius terrae di diritto comune, quale stabilito dalle Leges Statutae che prevedono “per suffragi e ballotte” la maggioranza qualificata solo per “grazie, tasse, erogazioni e spese”.

Passato, presente…

Il legame con la tradizione antica si unisce, in San Marino, a una visione non diffidente e localistica della sua autonomia, come al contrario spesso avviene nelle piccole comunità, nei confronti delle più grandi da cui esse sospettano che possano provenire minacce. Una delle glorie della storia sammarinese è la protezione degli esuli e dei perseguitati. Ciò provocò talora contrasti con il governo italiano, come l’incidente del 1873/4 quando fu negata l’estradizione di sei repubblicani ricercati per “cospirazione diretta a cambiare la forma di governo” che portò al blocco di polizia della Repubblica. L’art. 1 della dichiarazione dei diritti “riconferma” questa tradizione che si è alimentata di episodi della storia italiana neanche tanto lontana. Si ricorda la protezione accordata nel 1848 a Garibaldi e alle sue truppe (previa deposizione delle armi), senza rinunciare alla sua neutralità. Nella misura del possibile, San Marino ha testimoniato così la sua vocazione di “zona franca della libertà” e l’ha iscritta nella sua Dichiarazione dei diritti collocandola nel contesto della dimensione internazionale di cui fa parte a pieno titolo di Stato sovrano. Con lo stesso primo articolo della Dichiarazione, la Repubblica si obbliga, con prevalenza sulle norme del diritto interno, al rispetto delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, delle dichiarazioni in tema di diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dei principi dello Statuto delle Nazioni Unite, della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e partecipa alle relative istituzioni, come la Corte di Strasburgo.

Il “piccolo Stato” che, per tanti secoli ha operato per difendere la sua identità, fa dunque parte del “grande mondo” che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è cercato di costruire per creare i presupposti di relazioni benevoli tra i popoli. Come partecipa alla costruzione d’una dimensione sovranazionale amichevole tra le Nazioni, così, simmetricamente, ne riceve oggi la protezione che discende da tale partecipazione. Onde, oggi, la sovranità di San Marino non è (più) solo il risultato della sua politica diplomatica, ma il contenuto d’un obbligo dell’intera Comunità internazionale nei suoi riguardi. 

… presente e futuro

Se ora, alla fine di queste considerazioni, volgiamo lo sguardo, dall’aspetto formale della libertà alle sue condizioni materiali, che cosa ci pare di vedere? Non vorrei dare l’impressione di prendere questa cruciale questione troppo da lontano, ma mi pare che non si possa prescindere dalle componenti che, in ogni luogo e in ogni tempo, entrano a formare la libertà delle comunità umane. Queste componenti sono l’economia, la politica e la cultura. Su questa triade, le scienze storiche, antropologiche e sociali hanno condotto studi approfonditi che hanno scavato nelle origini, a partire dalle prime organizzazioni umane di cui abbiamo testimonianza. In tutte le troviamo, nelle diverse forme e nella diversità dei rapporti tra queste tre “funzioni sociali” che definiscono i profili delle diverse civiltà. La vita sociale si consuma e muore senza la produzione dei beni materiali che la nutrono (l’economia); senza il governo che ne dà e ne garantisce l’ordinato sviluppo (la politica); senza la partecipazione a un condiviso universo di principi e valori comuni che trasformano una mera somma d’individui in un’unità (la cultura). La libertà e la sovranità concrete delle comunità umane e dei loro Stati si misurano sulla loro autonomia economica, politica e culturale.

Ora, se guardiamo realisticamente i caratteri del mondo in cui viviamo, in cui operano nel profondo le forze più o meno chiare, visibili e responsabili di fronte ai popoli, le forze che chiamiamo “globalizzazione”, non dobbiamo constatare che il mondo in cui viviamo e il mondo che, presumibilmente, attende noi, i nostri figlie e i nostri nipoti, è nemico della libertà e della sovranità, così come queste nozioni sono venute a realizzarsi, l’una essenzialmente e necessariamente intrecciata con l’altra, nel corso degli ultimi secoli? Il nostro tempo è quello del dominio dell’economia finanziarizzata. I suoi soggetti si muovono negli spazi astratti delle cartolarizzazioni di debiti, crediti e di investimenti in debiti e crediti, ma le conseguenze sulle economie reali sono concrete e spesso socialmente drammatiche. Quella che noi, per forza d’inerzia, continuiamo a chiamare “politica”, cioè la seconda funzione sociale, perde autonomia e si riduce a gestione delle crisi tutt’altro che astratte che investono, talora devastandola, la vita di popolazioni e, perfino, di continenti. I “governi”, in tempo titolari del cosiddetto “indirizzo politico”, cioè dell’auto-determinazione dei propri fini, sono decaduti manifestamente a gestori delle emergenze e a esecutori di compiti di mantenimento dell’ordine interno alle comunità nazionali. Gli Stati, che noi continuiamo a concepire giuridicamente come enti sovrani, sono diventati qualche cosa di simile a grandi società commerciali e, come queste, possono fallire per la pressione del proprio debito pubblico, pressione che diventa irresistibile quando non viene più acquistato dai potenti della finanza globalizzata. Il fallimento dello Stato – una formula e un concetto diventati d’uso comune – è qualche cosa di sconvolgente le nostre certezze costituzionali.

Questa è la “grande trasformazione” in corso. Essa investe tutti i governi del mondo, anche se in misura diversa. Quattro o cinque “grandi Stati” dispongono dei mezzi per far valere le pretese della politica nei confronti dell’economia, ma i medi-piccoli no. Da questo punto di vista, la tripartizione di Botero dalla quale abbiamo iniziato, perde di consistenza. Vi sono solo più le grandi potenze economico-politiche mondiali, da una parte, e tutti gli altri, dall’altra parte. La libertà di questi ultimi, pur se non negata in linea di principio, è svuotata dalla perdita di autonomia di due delle funzioni sociali fondamentali. Due. Non necessariamente la terza, la funzione culturale. La cultura ha questo di caratteristico: l’economia e la politica possono aiutarla (e anche ostacolarla), ma la sua forza è intrinseca e nessuna spoliazione di sovranità economica e politica può spegnerla. Può cercare di asservirla a interessi commerciali e di potere, ma la libertà del pensiero è per sua natura capace di sopravvivenza là dove le altre libertà decadono. Anzi, l’esperienza insegna che proprio nelle difficoltà d’altro genere la libertà dello spirito trova le sue ragioni di mobilitazione delle sue energie. La cultura è sovrana in sé stessa, almeno nei campi in cui non necessita di grandi investimenti, come èinvece nella ricerca scientifica avanzata, tipo Silicon Valley.

Voi comprendete dove, con queste sommarie considerazioni, vorrei condurci. Mi sono chiesto, fin dalla prima volta che sono salito quassù, se non può essere la vocazione attuale della Repubblica di San Marino e della sua libertà quella di porsi decisamente al servizio della cultura, come sua vocazione predominante. Perfino la collocazione in una delle terre più ricche di tradizioni culturali, il Montefeltro; lo svettare del profilo caratteristico dalla piana e dalle colline; il radicamento delle istituzioni in una pluricentenaria tradizione di libertà: non sono, tutte queste, promettenti premesse di fecondità culturale? Già molto si fa. L’agenda delle manifestazioni culturali è ricca; scuole d’istruzione superiore e universitarie sono presenti; l’arte è coltivata nella scuola di musica. Non potrebbe essere questo il luogo privilegiato della libertà sammarinese? Non sarebbe un sogno un San Marino, luogo che non soltanto si viene a visitare con una veloce corsa dalla costa adriatica ma che anche, al contrario, permei lo spirito dei visitatori, lasciando un segno, in chi si accosti alla sua storia. Proprio come le città che furono, e ora non sono più, grandi sedi di cultura d’un tempo, il tempo della fondazione dei liberi Comuni. Allora, la cultura rinascimentale diede un senso e un valore, cioè costruì una civiltà, a ciò che, altrimenti, sarebbe stata solo una grande e informe contesa per il potere politico e l’espansione economica. E, oggi, non abbiamo forse bisogno di dare un significato e un valore, e con ciò anche un orientamento, allo sviluppo selvaggio delle forze che operano nel mondo globalizzato? Uno Stato piccolo ma di grande tradizione, che evidentemente non può competere nella contesa per il potere politico ed economico ed è perciò immune da retro-pensieri e sospetti di strumentalizzazione, non è forse il luogo ideale per svolgere un ruolo d’illuminazione in un tempo di decadenza culturale, qual è il nostro? Per diventare un polo d’attrazione senza confini, come è il proprium della cultura? 

Scusate la presunzione. Mi accorgo d’essermi spinto troppo in là. Con quale autorità dico queste cose? Nessuna, evidentemente. Ma, il pensiero, come la cultura, è libero e libero è anche il fantasticare. Mi sarà perdonato, dunque, questo sconfinamento in un campo che non è il mio; o, meglio, che è mio come lo è di chiunque sale a questa rocca e s’interroga sul significato attuale della libertà che la Repubblica con tanto e giustificato orgoglio rivendica come sua ragione d’essere radicata nel passato e proiettata nel futuro.

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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