La democrazia ha regole precise

Quello di giovedì 27 febbraio non è certo il primo sciopero dei magistrati, afferma Donatella Stasio, ma è la prima volta che le toghe escono dai Palazzi di giustizia, o li aprono, per incontrare i cittadini e condividere con loro una battaglia di democrazia. Non “per” i magistrati, ma “con” i magistrati: è anche l’impegno di Libertà e Giustizia.

Non è la prima volta che i magistrati scioperano (e non sarà l’ultima). Sono una vecchia giornalista e nei miei 40 anni di professione (in cui ho seguito sempre le vicende politiche sulla giustizia) sono stata testimone di nove scioperi, compreso questo, proclamati con governi di ogni colore. Così come mi è capitato di incrociare anche all’estero, in particolare in Francia, giudici e avvocati in sciopero, che protestavano in toga insieme agli avvocati, con tanto di cartelli.

È invece la prima volta da quando faccio la giornalista che mi capita di vedere magistrati in toga uscire dai Palazzi di giustizia, o aprirli, per incontrare i cittadini e condividere con loro una battaglia. Non una battaglia “per” i magistrati, ma “con” i magistrati, in difesa dei diritti di tutti, nella prospettiva di una mobilitazione comune.   

C’è chi ha gridato allo scandalo per questa apertura dei Palazzi alla cittadinanza, chi ha parlato di reclutamento dei giovani da parte dell’Anm, chi di rivolta, chi di ricerca del consenso e altre amenità di questo genere.

Io invece credo che sia un fatto di straordinaria importanza, la rappresentazione plastica del “dovere” dei magistrati di spiegare ai cittadini le vere ragioni di una protesta estrema, come lo sciopero, e di farlo al fuori dal recinto claustrofobico di una narrazione politica e mediatica fatta di luoghi comuni, stereotipi, parole abusate, a cominciare dalla parola guerra.

La giornata odierna, quindi, è un importante momento di riflessione democratica con i cittadini sulla vera posta in gioco di questa partita, e cioè la democrazia. Attenzione: non una democrazia qualunque, come quelle che purtroppo vediamo avanzare nel mondo variamente qualificate da aggettivi che servono solo a nascondere la loro vera natura di regimi autocratici o autoritari, come l’Ungheria di Orban o l’America di Trump. 

No, mi riferisco alla democrazia costituzionale nata dopo la seconda guerra mondiale sulla base della nostra Costituzione antifascista, pluralista, europeista, per non ripetere gli orrori consumati dal fascismo e per recuperare gli spazi di libertà, di giustizia e di dignità che il fascismo aveva cancellato. 

Una democrazia che ha regole precise, e molto chiare. 

La prima regola è la rigorosa separazione dei poteri. La seconda è che il potere dei governi di turno, ancorché democraticamente eletti dalla maggioranza dei cittadini, non è un potere illimitato. La terza regola è che il compito di limitare questo potere spetta agli organi di garanzia – come la Corte costituzionale e la magistratura – che, come dice la parola stessa, devono garantire i diritti di tutti, in particolare di chi il potere non ce l’ha, e devono farlo anche quando a violare questi diritti sono i governi in carica. 

Anzi, i cittadini devono vigilare sugli organi di garanzia affinché non si appiattiscano mai sui governi in carica.

Quarta regola: intanto gli organi di garanzia possono esercitare la loro naturale funzione contro-maggioritaria – che non è un’opposizione politica come in questi anni il governo ha voluto far credere all’opinione pubblica ma semmai è una risorsa essenziale della democrazia costituzionale – in quanto sono pienamente autonomi e indipendenti.

Queste quattro regolette sono l’Abc delle democrazie costituzionali.

Ebbene, se ripercorriamo la cronaca degli ultimi due anni e mezzo, vediamo un governo che forza continuamente queste regole, che non riesce a stare nei confini della democrazia costituzionale, perché evidentemente ha una visione diversa della democrazia e del potere. 

In questo contesto, la separazione delle carriere è solo uno degli aspetti della diversa visione del potere e della democrazia che il governo cerca di affermare in danno dei diritti dei cittadini e che si è manifestata attraverso leggi approvate, proposte di legge, anche costituzionali, comportamenti, linguaggio, censure di vario tipo, relazioni sbilanciate con altri organi istituzionali, penso al Parlamento mortificato dall’abuso dei decreti legge, di maxiemendamenti e di fiducie reiterate, ma penso anche alla Corte costituzionale, mortificata dall’ostruzionismo ostentato della maggioranza alle sue decisioni, anche autoapplicative come la sentenza sul diritto dei detenuti all’affettività, oppure quella sul suicidio assistito a determinate condizioni, sul diritto dei figli di coppie omogenitoriali ad essere riconosciuti dai loro genitori, sul diritto delle donne di attribuire il doppio cognome ai figli fin dalla nascita, in caso di disaccordo con il partner sulla scelta del cognome. Sono tutti diritti fondamentali, ma siccome alla maggioranza non piacciono, vengono cancellati, così, con un tratto di penna, infischiandosene che dietro i diritti ci siano persone, in carne ed ossa.  

Qualunque riforma, in teoria anche la migliore e sicuramente se è una riforma costituzionale, non può essere valutata a prescindere dal contesto politico e culturale in cui viene calata. Non si può rimanere indifferenti a quel contesto, anche mondiale, soprattutto se il mondo è infestato dalle regressioni democratiche. Mai l’Italia è stata così vicina, politicamente e culturalmente, all’America come lo è oggi con l’America di Trump. 

Perciò non possiamo e non vogliamo chiudere gli occhi sul mondo. Non vogliamo ritrovarci un giorno a dover dire, come tanti polacchi e ungheresi hanno detto, e con loro chi ha subito le regressioni democratiche, che l’errore fatale e micidiale è stato quello di “non vederle arrivare”.

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