La democrazia vulnerabile e il progetto autoritario nelle riforme della destra

27 Ottobre 2024

Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice

Questo contenuto fa parte di un osservatorio Autoritarismi

Intervento di Daniela Padoan al convegno di Milano del 24 ottobre, “Premierato, autonomia differenziata, sicurezza: il progetto autoritario nelle riforme della destra”. L’articolato dibattito si è tenuto in occasione della presentazione milanese del volume di Left “Contro il premierato, in difesa della democrazia”.

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Già nel 2006 ci trovammo a combattere la riforma costituzionale proposta da Silvio Berlusconi, che riguardava – anche allora – un premierato forte e la devoluzione dei poteri alle Regioni. Quella riforma fu respinta dal 61% degli italiani. Oggi vediamo segnali positivi, benché difficili da veicolare nella cappa informativa in cui ci troviamo, a cominciare dal grandissimo successo della raccolta di firme per il referendum sull’autonomia differenziata, in piena estate: un’impresa che da principio ci era parsa quasi impossibile. Certo, la situazione è molto diversa, rispetto a vent’anni fa. In numerosi Stati membri dell’UE le destre estreme hanno raggiunto un consenso inquietante, ma in nessun Paese, tra quelli fondatori, sono al governo. L’Italia è la grande anomalia europea, con un governo deciso ad attuare una marcia a tappe forzate verso un diverso assetto costituzionale. L’annuncio era esplicito già nel programma elettorale di Fratelli d’Italia del 2020, in cui si prometteva il presidenzialismo, poi diventato premierato: non a caso chiamato “madre di tutte le riforme” dalla presidente del Consiglio. Di passaggio, mi soffermo sul fatto che molti giornali non governativi si riferiscono abitualmente alla presidente del Consiglio chiamandola “premier” nel momento stesso in cui combattono il premierato: una sorta di distorsione cognitiva sulla quale varrebbe la pena riflettere. La presidente del Consiglio ha d’altra parte annunciato la riforma del premierato in un video in cui, dando le spalle alla galleria dei ritratti dei precedenti presidenti del Consiglio, si rivolgeva direttamente agli italiani magnificando la possibilità di scegliere da soli da chi essere governati, anziché lasciare la scelta ai partiti. Un’irrisione incongrua – anche questa, in fondo, una distorsione cognitiva – se si pensa che a pronunciare quelle parole era una persona che nei partiti ha trascorso la propria intera esistenza, e che, per ruolo istituzionale, non può ignorare che i partiti sono la base della democrazia rappresentativa. 

Oggi abbiamo parlato di populismo, di democrazia del capo, di democrazia decidente, di democratura. “Viviamo in un tempo esecutivo”, ha affermato recentemente Gustavo Zagrebelsky. Credo che si voglia fare diventare questo tempo – il tempo esecutivo – il tempo normalizzato che ci determina.

Le riforme, in questo quadro, sono certamente uno scambio tra forze governative, ma rappresentano anche un disegno complessivo, ben illuminato dalla recente affermazione di Giorgia Meloni: “Stiamo facendo la storia”. Anche qui, tuttavia, si affaccia lo iato paradossale tra la gravitas delle cose dette e la modestia del contesto: il tentativo di mettere una pezza al caso Boccia Sangiuliano.

In due anni di governo, si è delineata una sorta di lessicologia della destra al potere. Se gli italiani non vorranno il premierato “tireremo dritto”, ha detto la presidente del Consiglio. “O la va o la spacca”. Frasi, modi e retoriche che non solo riecheggiano un’origine storica, ma sembrano esprimere la determinazione a travolgere l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituzione del ’48. E, ancora, alla domanda fatta alla presidente del Consiglio, se intenda dimettersi in caso di bocciatura della sua riforma in sede di referendum abrogativo, la risposta è stata: “chisseneimporta”. Come non pensare alla volontà di prendere il potere senza doversi più giustificare davanti ai cittadini e al Parlamento? 

L’attacco che viene portato oggi al Parlamento sembra accanimento contro un malato, già ridotto di numero e leso nella propria credibilità.
Secondo il report dell’Osservatorio legislativo parlamentare, tra il 13 ottobre 2022 (inizio della legislatura) e il 13 maggio 2024, sono state approvate 119 leggi, il 73,1 % delle quali di iniziativa governativa; appena il 25,2 di iniziativa parlamentare. 

Se il premierato vuole rendere il Parlamento un luogo della ratifica delle scelte dell’esecutivo, la riforma sull’autonomia differenziata vuole togliere al Parlamento un reale potere d’intervento sulle intese Stato-regioni.

Questo accade parallelamente a un processo di revisionismo e di negazionismo che si sta mostrando con chiarezza come volontà di riscrittura della storia: della storia passata – del ventennio fascista e del suo finale più compiutamente criminale, la Repubblica di Salò – e della storia più vicina, delle stragi neofasciste e del loro intento eversivo. A questo proposito, abbiamo visto una ricontestualizzazione nelle commissioni parlamentari e nei media dove, a proposito della strage di Bologna (la più grande strage di massa compiuta dai fascisti in Italia dal dopoguerra) si è parlato di “dubbi sulle ricostruzioni di parte giudiziaria”. 

Il revisionismo e il negazionismo si incuneano in una debolezza culturale che abbiamo visto esplodere questa estate, nelle Olimpiadi di Parigi e nel dibattito sullo ius scholae. Sono stati riesumati concetti come “fisionomia italiana”, “sangue italiano”, “italianità”, coniugati a un razzismo applicato ai corpi sessuati che ha portato l’intera comunità discorsiva a parlare di genetica, dosaggi ormonali, appartenenze di genere, livelli di testosterone. Dimentichi della lezione di Pierre Bourdieu, quando, ne Il dominio maschile, parlava della cultura impressa nei corpi da una costruzione gerarchica contrabbandata come natura. L’Italia ha avuto le prime leggi razziali non nel 1939, ma già nel 1937, riguardo alle colonie d’Africa, con il Regio decreto 880 di “tutela della razza”: tutto riemerge, finché non diventa discorso aperto, materia scolastica, cultura condivisa. 

Un altro campanello d’allarme è vedere che su giornali non governativi si è cominciato a distinguere tra antifascisti e antifascisti radicali. Si è letto che l’antifascismo radicale è stato ed è il peggior nemico dell’antifascismo, quale strumento di ampia convergenza sui valori fondanti della Repubblica. Ma qual è l’antifascismo radicale? L’antifascismo è la base della nostra Costituzione. Si è letto invece che l’antifascismo radicale ha avuto un’influenza notevole anche sulla magistratura. Si è letto che bisognerebbe chiedersi quanto le sentenze sulle stragi, sui depistaggi, sui tentativi di colpo di stato non siano stati condizionati dalla magistratura. 

Ecco il revisionismo di cui parlavo. Un clima che porta a delegittimare coloro che in questo momento hanno il compito gravosissimo, ormai quasi in solitudine, di difendere la nostra democrazia: i giudici e la magistratura. Un clima che ha portato alle minacce di morte rivolte a Silvia Albano, alla quale va la solidarietà di tutti noi che siamo qui oggi. La magistrata, presidente di Magistratura Democratica, che ha firmato la sentenza contro il trattenimento dei migranti in Albania, oggi, ha appena scritto l’ANSA, ha sporto denuncia alla Procura di Roma. Ma queste cose non nascono dal nulla. “Il Giornale” del 19 ottobre titolava in prima pagina: “La Magistratura boicotta i centri in Albania” e, sempre in prima: “La giudice militante che guida le toghe rosse”. Il giorno dopo: “La giudice della sentenza spiegava a MD come affossare l’intesa con Tirana e twittava a favore delle Ong”.

Analogo trattamento è stato riservato al sostituto procuratore di Cassazione Marco Patarnello, che aveva scritto in una chat interna considerazioni estrapolate dal contesto e date in pasto alla stampa con il metodo divenuto consueto dell’attacco ad personam a chiunque venga visto dalla destra non come avversario ma come nemico politico, in un clima di querele, provvedimenti disciplinari, uso dell’accusa di diffamazione a scopo intimidatorio.

Abbiamo bisogno di un risveglio democratico e di un impegno a ricostruire una cultura democratica che parta dai fondamenti: dal ruolo del Parlamento, dalla necessità vitale del bilanciamento dei poteri, dalla libertà di stampa e di espressione, dal rispetto e attuazione del dettato costituzionale, dalla solidarietà scritta nell’articolo 3, dalla mitezza contro un linguaggio incattivito. Spero che continueremo a farlo insieme. Grazie.

Scrittrice, saggista e Presidente di Libertà e Giustizia. Si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.

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