Il processo a carico di Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per avere ostinatamente impedito di portare a termine il salvataggio di 107 migranti soccorsi dalla nave Open Arms nel Mediterraneo centrale, si avvia alle sue battute finali con l’udienza del 18 ottobre dedicata alle arringhe della difesa.
Nella storia d’Italia non si era mai verificato un processo a carico di un Ministro (ancora in carica) per reati così gravi e non si erano mai verificate tante interferenze ed intimidazioni nei confronti dei giudici, a cominciare dall’intervento del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che non si è limitata ad esprimere solidarietà al suo Ministro, ma ha magnificato la condotta criminosa ascritta a Salvini e ha delegittimato l’Autorità giudiziaria procedente, dichiarando: “Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo”. Dal canto suo Salvini ha avuto facile gioco a rivendicare orgogliosamente la sua condotta come adempimento di un dovere politico. In sostanza Salvini si è dichiarato “prigioniero politico”, come si usava una volta.
C’è un processo nei confronti di un imputato che si sta svolgendo nelle aule di giustizia e c’è processo nei confronti dei giudici portato avanti da uomini del Governo, politici e Media. È prevedibile che Salvini farà scendere in piazza un plotone di politici schierati a sua difesa, ma è difficile che riesca ad eguagliare la performance di Berlusconi che l’11 marzo del 2013 portò tutti i parlamentari del Popolo della Libertà ad assediare il Tribunale di Milano per protestare contro la persecuzione giudiziaria dell’”Unto del Signore”.
Non potendo negare i fatti contestati, la difesa di Salvini si basa su una impudente rivendicazione di incensurabilità giurisdizionale della sua condotta: non si tratterebbe di un delitto (dettato da motivazioni politiche), ma di un “atto politico” non processabile. È bene precisare che rientrano nella categoria dell’atto politico gli atti emessi dagli organi costituzionali nell’esercizio delle loro attribuzioni tipiche che, di norma, non possono dar luogo a responsabilità (per es. la promulgazione di una legge da parte del Presidente della Repubblica). Nei sistemi politici autoritari lo spazio di azione dell’atto politico è massimo, nello Stato costituzionale di diritto, l’ambito dell’atto politico è minimo e non può coprire gli abusi di carattere penale. L’ordinanza del Tribunale dei Ministri di Catania relativa al caso Diciotti ha chiarito in modo definitivo i limiti dell’atto politico, osservando: “il dogma dell’insindacabilità dell’atto politico è oggi presidiato da precisi contrappesi, caratterizzati dal “principio supremo di legalità”, dalla Carta costituzionale e dal rispetto dei diritti inviolabili in essa indicati, tra cui spicca in primo luogo il diritto alla libertà personale a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i cui articoli 24 e 113 sanciscono l’inviolabilità e l’effettività della tutela giurisdizionale, non è giuridicamente tollerabile l’esistenza di una particolare categoria di atti dell’Esecutivo in relazione ai quali il sindacato giurisdizionale a tutela dei diritti inviolabili dei cittadini possa essere limitato o addirittura escluso.” Orbene, ostacolare il salvataggio della vita umana in mare, impedendo lo sbarco dei naufraghi recuperati in altro mare, è una violazione di obblighi giuridici cogenti, sanciti da Convenzioni internazionali e dalla Costituzione, che non possono essere superati per ragioni politiche. Né può essere una causa di giustificazione l’esigenza di proteggere le frontiere dello Stato dall’immigrazione irregolare. Rientra certamente nelle facoltà della sovranità il controllo delle frontiere. La difesa dei confini comporta la facoltà di regolare sia l’accesso che l’uscita delle persone dal territorio dello Stato. In passato è esistito in Europa uno Stato che si è contraddistinto per la sua intransigenza nella difesa dei confini. Questo Stato costruì un lunghissimo muro presidiato dalle sue guardie di confine per evitare che vi fossero attraversamenti non autorizzati. Per difendere i confini i Vopos uccisero 133 persone, che cercavano di oltrepassarli illegalmente, in ossequio alle direttive delle loro autorità di Governo. Dopo qualche anno, i giudici tedeschi condannarono i dirigenti politici della DDR per istigazione all’omicidio. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con una sentenza emessa il 22 marzo 2001, respinse il ricorso di Heinz Kessler (ex Ministro della Difesa) e di Egon Krenz (ex presidente del Consiglio di Stato) ritenendo che, persino in uno Stato autoritario come la DDR, le autorità politiche, anche nell’esercizio della legittima facoltà di difesa delle frontiere, dovessero rispettare le leggi penali poste a tutela del bene della vita e della libertà delle persone. Oggi Meloni e Salvini rivendicano quelle stesse garanzie di impunità che non sono state riconosciute nemmeno ai dirigenti comunisti della Repubblica Democratica Tedesca. Vogliono forse imitarli?