Il momento di agire per evitare che l’Autonomia differenziata diventi legge è adesso: dal momento in cui la legge passerà in poi l’Italia subirà una tale regressione da stravolgerne l’aspetto: sarà un altro Paese, un altro Stato, un’altra Repubblica. Contro il Ddl 1665 di iniziativa governativa, promosso da Calderoli, sono stati numerosissimi i pareri negativi espressi da politici, costituzionalisti, economisti, sindacati, associazioni della società civile, dagli uffici interni agli organi costituzionali come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la Banca d’Italia o l’Unione Europea. Dalla Cei a Confindustria. Tutti ignorati.
“L’opinione pubblica che è cresciuta, specialmente al Sud e ora anche al Nord Italia, grazie alle tante manifestazioni messe in campo, costituisce un ulteriore punto d’appoggio per avviare la mobilitazione in tutta Italia”, sostiene Marina Boscaino, portavoce nazionale del Tavolo No Ad e del Comitato per il ritiro di qualsiasi Autonomia differenziata, l’uguaglianza dei diritti e l’unità della Repubblica. Lunedì 29 aprile i Comitati saranno di nuovo in piazza a Roma, alla Rotonda del Pantheon, tenendo presidii anche in molte città italiane – 18 nel nostro Paese e tre all’estero: Francoforte, Bruxelles e Berlino (l’elenco è ancora in aggiornamento) – dal momento che il progetto del regionalismo delle autonomie entra in Aula alla Camera, dopo l’ultima tornata di audizioni che “ancora una volta hanno registrato una netta prevalenza di coloro che dicono No al Ddl Calderoli”.
La voce più recente è quella della Svimez che, nel corso della recentissima audizione in Commissione parlamentare (il 24 aprile a Palazzo San Macuto) per l’attuazione del federalismo fiscale ha affermato: “La prima questione è che, se l’obiettivo è rendere effettivo il principio di pari dignità di accesso ai servizi di cittadini e imprese su tutto il territorio nazionale, i Livelli Essenziali di Prestazioni (Lep) e la perequazione infrastrutturale dovrebbero trovare compiuto riconoscimento nella legislazione nazionale, indipendentemente dalla cosiddetta ‘autonomia differenziata’. A tal proposito, non è secondario ricordare che il completamento del federalismo fiscale simmetrico, con particolare riferimento alla sua componente regionale, è una delle riforme abilitanti previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da completare entro il primo semestre del 2026”.
“In secondo luogo – ha continuato l’associazione – i due pilastri andrebbero ‘costruiti’ in parallelo, secondo principii e criteri comuni, seguendo procedure coordinate e convergenti per tempistica, basandosi su una comune delimitazione del perimetro delle prestazioni ‘concernenti i diritti civili e sociali’, e individuando, di conseguenza, condivise priorità di intervento. Se, infatti, i Lep hanno la finalità ultima di garantire livelli di servizi uniformi sul territorio nazionale, oltre che la loro puntuale definizione e il loro finanziamento, sarebbe necessario procedere, di pari passo, al livellamento delle dotazioni infrastrutturali tra territori, condizione necessaria per consentire alle amministrazioni decentrate di erogare livelli adeguati di servizi”.
“L’accelerazione impressa all’attuazione dell’art. 116 terzo comma della Costituzione pare interferire con queste basilari questioni, pregiudicando le finalità di equità e solidarietà nazionale del federalismo”. Quindi si osserva che “mentre sui Lep sono stati compiuti passi in avanti, almeno a livello formale e pur in presenza di diverse criticità, sul fronte della perequazione infrastrutturale si può parlare solo di arretramenti”. Tuttavia la loro questione permane ancora indefinita, tanto che a oggi, “l’unico aspetto assodato in materia è che la spesa associata al loro finanziamento deve essere compatibile con l’equilibrio di bilancio previsto dagli articoli 81 e 119 della Costituzione, vale a dire che i servizi a garanzia dei diritti civili e sociali uniformi su tutto il territorio nazionale vanno finanziati nei limiti delle risorse iscritte nel bilancio dello Stato a legislazione vigente”.
Per tirare le fila di questa complessa tematica ci siamo rivolti a Franco Russo dell’Osservatorio Unione Europea e componente del Tavolo No Ad. L’Osservatorio Ue è infatti parte del Tavolo: entrambi hanno collaborato alla presentazione di una petizione al Parlamento europeo, discussa anche grazie all’europarlamentare Rosa D’Amato, nell’ambito della Commissione istituita ad hoc. La risposta della Commissione tuttavia ha fatto riferimento al Pnrr e non alle valutazioni dello Staff Working Document, relativo alla Relazione per l’Italia del 2023, dato che sul Ddl Calderoli il documento già si esprime criticamente. “La legge impone che tale riforma sia neutra dal punto di vista del bilancio delle amministrazioni pubbliche. Senza risorse aggiuntive potrebbe tuttavia risultare difficile garantire i medesimi livelli essenziali di servizi (i Lep) nelle regioni con una spesa storica bassa, anche a causa della mancanza di un meccanismo di perequazione”. Che significa?
“Nel complesso – spiega Russo – la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere ‘la capacità delle amministrazioni di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze dell’Italia e sulle disparità regionali’ (così il Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Relazione per paese 2023 – Italia). Poiché, anche nel testo votato dal Senato e poi in discussione alla Camera, il vincolo dell’invarianza delle risorse finanziarie è ripetutamente sancito, la critica avanzata nel Documentorisulta ben fondata”.
Cosa dicono in Europa del nostro Mezzogiorno?
Nell’Ottava Relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale dell’UE, dopo un’analisi dei dati relativi alle disparità territoriali, si trae la conclusione che il Meridione d’Italia è completamente fuori dai processi europei di integrazione economica e sociale, rappresentando la zona più arretrata dell’Ue. Al contempo il divario tra il Nord e il Sud in Italia si è andato ampliando. A sostegno di questa conclusione, è stata presentata una mappa in cui le aree più sviluppate, in transizione e meno sviluppate delineano una sorta di imbuto. La parte in alto interna dell’imbuto rappresenta le aree più sviluppate e maggiormente integrate a livello europeo, mentre ciò che è a esso esterno rappresenta regioni in transizione o meno sviluppate. La parte bassa e stretta, quella meno sviluppata, rappresenta il Meridione d’Italia, completamente tagliato fuori dai processi di integrazione. Secondo i dati di molti rapporti, il divario Nord-Sud non solo non è stato mai colmato, ma anzi si va approfondendo.
I lavori di ricerca effettuati, pur provenendo da fonti diverse, giungono a conclusioni identiche.
Quelle del mancato superamento, anzi dell’aggravamento della questione meridionale. Ecco alcuni riferimenti per chi volesse approfondire il discorso: Un Paese, due scuole, a cura della Svimez, (pubblicato nel febbraio 2023); I divari territoriali nel Pnrr, dieci obiettivi per il Mezzogiorno, focus dell’Istat (del gennaio 2023); la Relazione sugli interventi di sostegno alle attività economiche e produttive, del Ministero delle Imprese e del Made in Italy (settembre 2023); i Rapporti Gimbe, l’ultimo dei quali – il numero 2 – è del marzo 2024.
Il Ddl sull’autonomia differenziata aiuta a superare le attuali disuguaglianze?
Certamente no, data la prescritta invarianza delle risorse finanziarie. Anzi, a causa dei meccanismi finanziari previsti dal Ddl 1665, sono destinati a permanere. Cito qualche cifra per richiamare l’attenzione su alcune valutazioni espresse da professori universitari. Antonella Trocino, docente di economia dei mercati alla Luiss, ha smentito quanti sostengono che il Mezzogiorno gode di una spesa pubblica superiore a quella del Nord. Aggregando i dati relativi è giunta alla conclusione che: “nel 2021 Lombardia, Emilia Romagna e Veneto figuravano rispettivamente al primo, terzo e quarto posto in classifica per incidenza della spesa pubblica primaria assorbita, pari complessivamente al 33,7% della spesa, a fronte di una popolazione del 32,6% sul totale, mentre il Mezzogiorno e le Isole (33.6% del totale) hanno percepito il 28, 2% della spesa pubblica primaria”.
Con quali conseguenze?
Un aggravarsi del gap in termini di infrastrutture e servizi. È dedicato a chi dice di voler liberare le imprese da ‘lacci e lacciuoli’ ciò che scrive in proposito Trocino: “Dal Ddl 1665 deriverà una normativa più complessa e disomogenea, che potrà distorcere le scelte delle imprese, le quali dovranno conformarsi a quadri normativi ‘patchwork’, con buona pace della semplificazione” (Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2024). Andrea Giovanardi dell’Università di Trento, sostenitore dell’Ad, ha sollevato invece la questione del ‘residuo fiscale’ (Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2024). Oltre a essere un concetto fortemente discutibile, di frequente messo in dubbio dagli esperti, è comunque in netto contrasto con i principi della nostra Costituzione, che prevede un rapporto fiscale tra il singolo cittadino e lo Stato. “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” recita la Carta: all’art. 53 non parla di ‘territori’, ma di singoli cittadini che stabiliscono un rapporto con lo Stato a cui versano le imposte, secondo un criterio di progressività, ricevendone dei servizi che devono essere uguali per tutti”.
Anche per il Sud d’Italia?
Giovanardi, sulla base della differenza tra risorse date e ricevute a livello territoriale, mette in rilievo il ‘residuo fiscale’ che si crea perché esistono territori dove c’è una maggiore concentrazione di ricchi che versano – secondo i criteri di progressività (fin quando esisteranno, dato che il governo Meloni vuole arrivare alla flat tax) – imposte più alte rispetto ai territori dove ci sono meno persone ricche. Giovanardi scopre così l’acqua calda, cioè che il Mezzogiorno è più povero del Nord e dunque ha un gettito fiscale minore. Per superare queste asimmetrie la Carta del 1948 prescriveva ‘contributi speciali’ dello Stato per il Mezzogiorno e per le Isole.
Quindi all’epoca era chiaro come si dovesse intervenire, che poi è quanto si sarebbe potuto fare, in parte, grazie al contributo del Pnrr.
Con una decisione tra le più infelici assunte dal legislatore della revisione del 2001 – mi riferisco alla legge costituzionale 3/2001 – si abrogò il terzo comma dell’art. 119 della Carta del 1948. Esso stabiliva, come appena ricordato, che – al fine di “provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole – lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”. Con la revisione del Titolo V del 2001 la ‘questione meridionale’ venne cancellata. Del resto in precedenza, in netto contrasto con quella disposizione costituzionale allora ancora in vigore, il Parlamento – attraverso la legge 19 dicembre 1992 n. 488 – aveva soppresso l’intervento speciale, estendendo gli incentivi alle aree depresse di tuttoil territorio nazionale. La storia dell’articolo 119 non terminò con la revisione del 2001 perché, ventun anni dopo nella XVIII legislatura, il Parlamento ha introdotto un comma con cui la “Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità”. La formulazione del nuovo comma è assolutamente da condividere, tuttavia sono inspiegabili i motivi per cui non si è estesa questa disposizione all’intero Meridione.
Un’altra questione cruciale è quella dei Livelli Essenziali di Prestazioni, i Lep.
Lo Staff working Report, cui ho accennato, evidenzia che i livelli dei servizi saranno erogati a risorse finanziarie invariate, dunque rimarranno carenti e forniti in modi diseguali tra territori, tra Nord e Sud, tra aree metropolitane e aree periferiche. La riscrittura completa dell’articolo 3 del Ddl AS 615, è stata chiesta e ottenuta dal senatore Balboni, presidente della I Commissione del Senato ed esponente di FdI. Ma le nuove disposizioni, invece di migliorare, ingarbugliano il quadro: il nuovo articolo 3 afferma che il Governo è ‘delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 30 dicembre 2022, n.197’. Ciò vuol dire che i principi direttivi non saranno disposti da una legge-delega varata ad hoc dal Parlamento, ma che essi sono già contenuti nella legge di bilancio per il 2023. La determinazione dei Lep è una scelta eminentemente politica, e – trattandosi dei livelli di prestazione dei servizi al fine di garantire la fruizione di diritti universali – dovrebbero essere di competenza del Parlamento, deliberati dunque con legge, dopo aver attivato non solo le normali procedure conoscitive, ma anche quelle del dibattito pubblico.
Quali sono le risorse per i Lep?
Mi rifaccio ad alcune valutazioni espresse in un recente articolo di Floriana Cerniglia, direttrice del Centro di Ricerche in Analisi economica e sviluppo economico internazionale (Cranec) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dapprima fa notare che la Commissione Clep, presieduta da Sabino Cassese, ricostruisce i Lep sulla base della normativa vigente, ‘un lavoro corposo (…) che fotografa lo status quodel nostro Paese per quanto concerne i diritti civili e sociali’. Rileva poi che il ‘meccanismo di finanziamento del Ddl Calderoli assegnerà le risorse che finanziano le materie e/o funzioni dei Lep sulla base di un’aliquota di compartecipazione al gettito, che deve coprire un fabbisogno di spesa su ciascuna funzione. Tuttavia, a causa dell’invarianza di bilancio (prevista dal progetto Calderoli) e della ‘Lep-fotografia’ della Commissione Cassese, la Commissione tecnica per i fabbisogni standard ‘non potrà far altro che replicare la spesa storica. Se non ci sono risorse aggiuntive, essi sono fumo negli occhi e serviranno semplicemente a giustificare il calcolo di un fabbisogno da parte di una Commissione tecnica, rimescolando la spesa storica delle regioni’ (Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2024). Cerniglia giunge alle stesse conclusioni critiche dello Staff Document ricordato.
Chi le stabilisce?
Un altro rilievo critico è che le Regioni che otterranno l’autonomia differenziata, avranno risorse decise da una Commissione paritetica, una per ogni Regione, ‘e non già da un organo istituzionale unico per tutte le regioni’. Con l’Ad, conclude l’articolo, a ‘rimetterci saranno tutti i cittadini del Nord e del Sud’, che disporranno di ‘minori risorse e minori servizi’.
L’Ad nuocerà anche al settentrione, oltre che al meridione?
I ‘governatori’ di destra delle Regioni del Nord, ma anche quelli del Pd come Bonaccini (Emilia Romagna) e Giani (Toscana), fanno credere ai loro cittadini che, essendo ben amministrati, l’autonomia differenziata porterà maggiori benefici ai cittadini del Settentrione. Questo potrebbe essere vero solo se i servizi sociali – dagli asili nido alla sanità, all’assistenza – fossero erogati dalle strutture pubbliche e pagati con le imposte progressive sul reddito. Ma così non è. Infatti i processi di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi sociali hanno provocato un peggioramento delle condizioni di vita, perché i servizi sono ora da acquistare privatamente sul mercato e perché essi non sono più né garantiti, né sicuri. Si pensi, a esempio, al dramma dei pronto soccorso senza personale e strumentazioni adeguate. I Lep sono una foglia di fico per coprire l’abbassamento dei livelli di erogazione dei servizi pubblici, che dovranno essere integrati, per chi ne avrà le possibilità economiche, con la spesa privata.
L’autonomia differenziata danneggerà tutti tranne chi è abbiente?
Sì, non solo chi risiede al Sud ma anche i cittadini del Nord. Ne vuole una prova? Si prendano i Lea, che sono i corrispettivi dei Lep in campo sanitario, in vigore da almeno 14 anni: qualche persona si è accorta che i servizi sanitari siano migliorati in questi anni grazie ai Lea? No. Un’altra prova: la spesa globale per la sanità è in Italia di circa 184 miliardi (dati 2022). Di questi, circa 40 miliardi sono privati per sopperire alle gravi carenze del servizio sanitario pubblico. Chi si può permettere di spendere qualche centinaio di euro per esami diagnostici o migliaia di euro per i ricoveri, se non i più ricchi?
Per questo l’economista Gianfranco Vieti l’ha battezzata la secessione dei ricchi.
Infatti, coloro che hanno un lavoro dipendente, dagli impiegati agli operai, sono costretti – da anni – a fare accordi di welfare aziendali per garantirsi un minimo di servizi sociali per sé stessi e per le loro famiglie, accordi innanzitutto sanitari, che riguardano circa 2,907 milioni di lavoratori. Di questi il 73% sono occupati nelle imprese del Nord. I lavoratori settentrionali sono obbligati a contrattare servizi sociali a livello aziendale, che dovrebbero invece essere erogati da strutture pubbliche. Questo è solo un ‘assaggio’ di quel che succederà quando, con la nuova legge, si stabilirà di garantire solo livelli minimi delle prestazioni: chi è ricco ricorrerà ai servizi privati, chi è povero vi rinuncerà – come peraltro già è avvenuto durante la pandemia e avviene a tutt’oggi per le cure sanitarie.
Cosa augurarsi?
Il mio auspicio, a nome dell’Osservatorio Ue, è che l’iter venga interrotto e si proceda prima alla revisione del Titolo V. La sua riscrittura è stata proposta da diversi gruppi parlamentari. Le linee guida di una revisione dovrebbero prevedere: la soppressione del comma 3 dell’art. 116 Cost., per affermare i principi di un regionalismo cooperativo e solidale; la cancellazione ‘dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario’, in modo da riattivare i cosiddetti ‘contro limiti’, che hanno consentito di sottoporre la normativa dell’Ue allo scrutinio di legittimità costituzionale alla luce delle disposizioni della Carta del 1948; la reintroduzione della disposizione relativa ai contributi speciali per valorizzare il Mezzogiorno; la ridefinizione della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, tenendo presente l’opera di sistemazione compiuta dalla Corte Costituzionale nel dirimere il contenzioso tra Stato e Regioni, utilizzando anche le proposte avanzate dai Ddl costituzionali in discussione nella I Commissione del Senato, con primi firmatari i senatori Andrea Giorgis, Andrea Martella e la senatrice Elisa Pirro.