I 247 euro della discordia e la redistribuzione al contrario

06 Dicembre 2021

247 euro annui è la cifra controversa su cui si è diviso il governo. Sostiene Italia Viva – e stavolta ha ragione – che Draghi stesso ha detto che “non è il momento di togliere ai cittadini”. Se non fosse che questi 247 euro non verrebbero mica “tolti” ma semplicemente “non dati”. Mio figlio di cinque anni comprende bene la differenza tra “togliere” e “non dare”. Alcuni esponenti politici evidentemente no. Bisognerebbe allora spiegargli, per generosità, che per fare politica val la pena conoscere più termini possibili. Sennò si rischia di usare una parola per indicare tutto e il contrario di tutto.

Solo che è un curioso caso linguistico, questo. Perché invece di usare come significante vuoto parole come “cosa”, i politici di cui sopra usano ossessivamente la parola “patrimoniale”. Può darsi che quando vedano una macchina, per esempio, la indichino dicendo: “guarda quella patrimoniale li”. E, in effetti, tra questi 247 euro sospesi e la patrimoniale c’è la stessa differenza di significato che c’è tra una macchina e una patrimoniale. Se “cosa” è il termine più indeterminato e comprensivo della lingua italiana, “patrimoniale” lo è della politica italiana.

Quattro sono le aliquote secondo la nuova riforma fiscale, a quanto pare. Erano cinque finora. Nel 1974 erano 32. Dal 1983 (data molto significativa) si riducono drasticamente a nove, certificando un cambiamento di paradigma che proseguirà poi nel corso degli anni successivi. La progressività continua a essere qualcosa da mitigare, non da perseguire. Un imbarazzante ingombro, più che una soluzione. Nel 1974 lo scaglione più basso era al 10 %, quello più alto al 72 %. Ora quello più basso sarà al 23 %, quello più alto al 43 %.

Abbiamo più che raddoppiato le tasse ai meno abbienti e abbiamo quasi dimezzato quelle dei più abbienti. Una redistribuzione al contrario, non un caso ma semplicemente la cifra di quest’epoca lunga e non finita. Quasi quarant’anni dopo questo cambiamento, mi pare che non si siano tratte delle conseguenze che pure sono evidenti. La prima è che minori sono i numeri di scaglioni, maggiori sono le diseguaglianze (e sinceramente non accetto più obiezioni a questa evidenza che siano variazioni sul tema del Trickle down e, del resto, non ne sento altre). La seconda è che, appunto, partiti politici che volessero diminuire le diseguaglianze, e non proteggerle, dovrebbero avere come unico fine di una riforma fiscale l’aumento degli scaglioni. Da un punto di vista culturale fa più specie assistere allo spettacolo di partiti politici che si dichiarano progressisti, rivendicando entusiasticamente una riforma che riduce gli scaglioni, piuttosto che quello di partiti di destra i quali -dal loro punto di vista- difendono giustamente il modello della flat tax. Ma questa lunga storia serve a farci capire come non siamo dinanzi alla fine di un’epoca, ma alla sua continuazione. Il paradigma del 1983 non viene certo messo in discussione, anzi. Apologo utile anche per farsi un’idea di ciò che significa dichiararsi “riformisti” di questi tempi: portare a termine quanto cominciato quarant’anni fa.

Un milione circa sono gli italiani che dichiarano un reddito superiore ai 75 mila euro annui, a cui corrisponde l’ultimo scaglione fiscale. Non solo non c’è differenza tra Berlusconi e un qualsiasi avvocato, ma in fondo sono loro due e pochi altri, a quanto pare. Che è il punto fondamentale. Perché una riforma fiscale si applica a una fotografia del Paese che tutti sappiamo avere la stessa veridicità di una foto su Instagram di una influencer qualsiasi. Con la bizzarra particolarità: se poi la incontri per strada non la riconosci, ma non perché è meno bella e fastosa, ma perché lo è molto di più. Usiamo i filtri per imbruttirci, praticamente (e soprattutto per impoverirci). Mentre pubblicamente professiamo una fede ostinata nel valore della ricchezza e del merito. Funziona così ormai: ci disinteressiamo dei poveri reali, mentre ci teniamo a rappresentare, a tutti i costi, (247 euro annui, per dire) i poveri virtuali. Ecco, tra tutti i problemi concreti dell’Italia, questa virtualità della sua fotografia è ormai un tabù. Più siamo in crisi, più siamo disperati, meno ci si occupa dell’evasione fiscale. Che senso ha porsi questioni di giustizia dentro una fotografia palesemente falsa e ingiusta?

Infine, tre brevi domande. Perché tanti partiti, compresa parte del Movimento 5Stelle, si affannano a difendere questo milione di votanti? O credono di poter contendersi la rappresentanza di quei pochi elettori o sanno che sono molti di più. Io non ho molti dubbi: mentre noi continuiamo a guardare la foto su Instagram, loro si contendono il paese reale. Ma anche da questo dovremmo trarre un insegnamento utile: ricordare che non sono i partiti che definiscono a priori la loro collocazione politica, sono gli interessi che scelgono di rappresentare a farlo.

Perché ci si affanna ancora a far riferimento alla “classe media”? Mi permetto di dare un consiglio non richiesto a quei partiti che, sfidando il senso del ridicolo, si affannano a dichiararsi progressisti: non si può proteggere ciò che si contribuisce a far sparire. La classe media non va protetta, va proprio ricostruita. È stata stritolata nella morsa di un’estensione della proletarizzazione (i lavoratori poveri) da un lato e, d’altro lato, nell’intoccabilità (e nella invisibilità) di coloro che hanno continuato ad arricchirsi senza freni. Dunque c’è un solo modo per fare gli interessi della classe media: bloccare la proletarizzazione e distribuire l’accumulazione della ricchezza. I “poveri” non sono una categoria della morale, ma una categoria della politica. Non sono disgraziati che hanno meritato la povertà e a cui dobbiamo l’elemosina intrisa di disprezzo di “politiche sulla povertà” (a scanso di equivoci, tra queste elemosine non c’è il reddito di cittadinanza), sono delle persone che da decenni sono sistematicamente costrette all’impoverimento da un sistema politico in cui tutti gli altri interessi si sono alleati per fare di loro il grande capro espiatorio. Fin quando qualcuno non sceglierà di rappresentare i loro interessi, nessun conflitto sarà reale e sarà vincente in questo Paese.

Infine, perché Draghi – persino Draghi, si potrebbe aggiungere – ha spinto per trovare un correttivo di equità alla riforma fiscale? Suscitando per giunta le ire dei suoi lealisti: Giorgetti e Brunetta per primi. Ho tante ipotesi di risposta, ma nessuna certezza. Ma sono certo che seguendo la traccia di questa domanda si possa arrivare a comprendere molto di ciò che accadrà nei prossimi mesi, anche gli eventi più misteriosi e rituali come la disputa sulla Presidenza della Repubblica.

*Presidente di Libertà e Giustizia

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