Diceva: «Bisogna avere il coraggio civile di non avere paura, per fare in modo che il luogo in cui viviamo sia il più umano possibile. Restare umani è la cosa migliore che ci possa capitare nella vita». Grande e sincero è il tributo del frastagliato mondo della sinistra a Lidia Menapace, morta a 96 anni per Covid all’ospedale di Bolzano.
È stata partigiana, femminista, sessantottina, pacifista, una biografia piena di senso attraversata con la freschezza di una ragazza. Militante fino all’ultimo, ha accettato inviti ovunque la invitassero a parlare, mantenendo lucidità politica: «Non è possibile il ritorno al fascismo» disse, ad esempio, nei giorni del trionfo salviniano, lei che il regime di Mussolini lo aveva conosciuto da vicino.
Cresciuta in una famiglia di mazziniani, si era presentata giovanissima al Comitato di Liberazione nazionale del Piemonte, premettendo che non avrebbe mai portato alcuna pistola. L’arruolarono lo stesso nella convinzione che «la Resistenza non si fa solo con le armi». Staffetta nella divisione Rabellotti in Val d’Ossola, col nome di Bruna: da cattolica, come un’altra grande italiana, Tina Anselmi.
Disse a Laura Gnocchi e Gad Lerner in Noi partigiani: «Se non ci fossero state le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Dopo l’8 settembre furono loro a ricoverare in casa l’esercito italiano in fuga, vestendo i soldati, nutrendoli, mantenendoli». Si era laureata a soli 21 anni alla Cattolica, e fu il latino a salvarla ad un posto di blocco: al poliziotto che la interrogava disse che doveva andare a studiare da un’amica, e tirò fuori le Tusculanae di Cicerone.
«Ma va fora dai bal, ti e il tuo latinorum», la lasciò passare l’agente. «Era un marziano», dice Luciana Castellina. «Fece infatti parte del gruppo fondatore del manifesto nel 1969, ma provenendo dalla Democrazia Cristiana, non dal Pci come tutti noi». All’anagrafe Lidia Brisca, nata a Novara, era cresciuta infatti nella sinistra Dc, prima donna assessore democristiana nella Provincia di Bolzano, dove nel 1952 si era trasferita per amore, prendendo il cognome del marito medico, Nene Menapace. Il Sessantotto è un bivio per tanti. Ha 44 anni quando, da assistente alla Cattolica, si schiera con la contestazione. Il 22 gennaio 1968 firma una lettera in cui chiede al Rettore, insieme a Alberto Quadrio Curzio, Tiziano Treu e Gian Enrico Rusconi, di accettare «l’aspetto positivo delle richieste studentesche».
Fatale le sarà la pubblicazione di un documento, “Per una scelta marxista”. Non le rinnovano il contratto, passa dall’altra parte, si candida come indipendente nel Pci alle Regionali dell’ottobre 1968. «Venne a chiederlo anche a me», ricorda Marco Boato, «ma io ero sulle barricate di Sociologia a Trento e rifiutai». Da cattolica del dissenso a cattocomunista, il destino di tanti allora, da Lucio Magri a Fortebraccio. È l’inizio di una lunga biografia extraparlamentare. Cristiani per il Socialismo, Pdup, Rifondazione comunista, Potere al popolo.
«Quando – ricorda Castellina – nel marzo del 1984 Enrico Berlinguer ci chiese di tornare nel Pci, noi del manifesto rientrammo, Lidia invece no». Ieri il presidente Sergio Mattarella ha ricordato che i valori in cui Lidia Menapace ha creduto – antifascismo, libertà, democrazia, pace e uguaglianza – «sono quelli fatti propri dalla Costituzione». Consapevole anche degli orrori del Novecento, ha ripetuto spesso: «Fuori la guerra dalla storia». E ha mantenuto la posizione fino all’ultimo giorno.
Per i suoi meriti di partigiana ottenne il grado di sottotenente che però rifiutò, insieme al riconoscimento economico: «Non ho fatto la guerra come militare e ciò che ho fatto non è monetizzabile». C’era in lei una radicalità che non è mai venuta meno. Anche perciò ha sempre goduto del rispetto devoto del popolo di sinistra. Lo stesso puntiglio che la fece criticare, da senatrice di Rifondazione comunista, le Frecce tricolori proprio alla vigilia della sua nomina a presidente della Commissione Difesa del Senato. Era il 2006 e al suo posto venne eletto per dispetto l’allora dipietrista Sergio De Gregorio.
«Soprattutto ha saputo usare le armi della politica e della cultura», prova a sintetizzarne il valore Nichi Vendola. Merce rara in un tempo in cui la politica si è ridotta ai 140 caratteri di un tweet. In una delle sue ultime apparizioni televisive, da Giovanni Floris, nel febbraio scorso, provò a spiegare le ragioni del favore popolare dei populisti nostrani, da Salvini a Meloni, perché l’ideologia non deve mai fare velo sulla comprensione dei fenomeni, anche se non ci piacciono. Ed è questa una lezione di lucidità, una delle tante, che Lidia Menapace lascia in eredità alle nuove generazioni.